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Eclissi (e altre cose oscure) Recensione Teatro

in Teatro

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Eclissi (e altre cose oscure), scritto, diretto e interpretato da Alessandro Veronese.

Eccolo lì, Alessandro Veronese, con lo sguardo rivolto a qualche invisibile daimon, uno di quelli che anche Socrate preferisce ignorare. Sembra Bob Geldof nel film The Wall. Questa, ci dice idealmente, è one of my turns, quindi sarebbe il caso di tirare fuori, come Pink, la sua favourite axe dal cassetto. Ma le parole sono molto più affilate, e si prestano meglio a questo scopo. D’altra parte, sbucciando la cipolla dell’anima, prima o poi verrà da piangere, e ci si confronterà con la parte più interna, quella dal sapore più forte; chissà se tutto questo Peer Gynt lo sa, mentre sfoglia la sua  cipolla. Quello che l’interprete sa è di avere una storia, piuttosto caustica: ci si ustionano le mani ad ascoltarla. Non solo il sonno della ragione, ma anche la sua veglia forzata, le sue evidenti occhiaie, diventano mostri.

Sono fra quelle creature che, per quanto facciano orrore, non si può astenersi dall’osservare, proprio come se le nostre palpebre fossero bloccate, al pari di quelle di Alex durante il trattamento Ludovico. Gioca con Aristotele l’attore, si beve una birra bukowskiana con lo Stagirita, trasforma le proverbiali unità in un gioco delle tre carte, invitandoci a capire dove sia  la verità; ogni volta ci pare di saperlo, dalla parte della platea, ma quella carta sta sempre in un’altra posizione. Perché l’unica verità consiste in un immancabile asso nella manica, quello di una finzione pessoana, che finge il dolore percepito veramente. Poi ci sono gli occhi, a mettere le cose a posto: farebbero abbassare lo sguardo al dio della tragedia, e forse anche al dio della biomeccanica dei replicanti. Ti parlano direttamente nella testa, senza mediazioni.

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Sono parole non più attutite da significati, sono struggente mancanza, sono un non essere che ha talmente voglia di essere, da mandare a carte e quarantotto il monologo di Amleto. Madamina, il catalogo è questo, verrebbe da pensare, sentendo sfilare le conquiste di questo Casanova di qualche periferia testoriana; ma qui è già accaduto tutto, siamo già oltre il finale dell’opera, la statua del commendatore ha già trascinato il seduttore all’inferno. Peccato che quell’inferno bruci molto meno, rispetto a quello che viveva già dentro di sé. Qui la seduzione ritorna al suo significato originario: è un se – ducere, un tentativo di condurre a sé, di non accontentarsi dello specchio dell’altra, ma di mangiarne l’anima, perché diventi quella che ci manca. E poi l’intuizione, in questo srotolarsi di verità scomode, di nodi esistenziali, che nemmeno il pettine della drammaturgia potrebbe sciogliere.

Lo spettatore stesso diventa un’altra conquista del personaggio, venendo attratto irresistibilmente da questo fascinoso black hole, questo orizzonte cui nemmeno la luce riesce a sfuggire, e può mostrare la sua struggente cattività dietro un paio di pupille attonite. Poco importa che, a marciare contro questo Macbeth, non sia la foresta di Birnam, ma siano pericolosi usurai. Il tempo è sempre lì, con il suo fastidiosissimo tictac, e la sfida esistenziale continua, attimo dopo attimo, istante dopo istante. Poco importa che il tictac sia il cursore sul foglio bianco di Word: ogni oggetto esterno è lì a richiamare il tempo, in tutte le sue forme. E se tacerà tutto, il cuore, provato, infartuato fisicamente e metaforicamente, sarà sempre lì a segnalare lo scorrere dell’esistenza, come il muscolo cardiaco del racconto di Poe. Ecco tutta la verità, nient’altro che la verità, sull’amore.

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O, meglio, su di uno straziante bisogno d’amore che arriva a ferirsi, pur di non ferire. Ecco una nudità estrema, un paesaggio interiore che si mostra, con la naturalità di un anatomopatologo pronto ad aprire il ventre per mostrarne il contenuto; uno strano cervello ipertrofico, passato attraverso la mutazione imposta dal cuore. Guarda, Veronese, prima di tutto, le sue parole: questi esseri fragili, a volte  freaks che nessuno vorrebbe ospitare, e che potrebbero far mostra di sé in un gabinetto delle meraviglie, in una fiera vittoriana. E, in mezzo, si trova anche qualche piccolo arcobaleno, qualche lucciola di poesia che combatte per non farsi compromettere le ali dal nero disagio dell’anima. Potremmo sentir gridare, da un momento all’altro, come in Elephant Man di David Lynch: “I am a human being!”, “ Io sono un essere umano!”. E lo è, molto più di un essere umano.

Rappresenta una nuova ibridazione:  l’autore, il personaggio e l‘uomo insieme, in una splendida sovrimpressione, una di quelle che solo i paesaggi dell’inconscio sanno creare. E, più che paura di lui, si ha paura di ciò che di lui si scopre avere in sé, un grumo di paure, contraddizioni, errori bagnati dalla rugiada della poesia . Ha tutto il sapore di un pinkfloydiano final cut, quello di Veronese, che chiama gli ultimi giri di una partita a poker esistenziale, in cui è già sotto di tanto. Se Artaud voleva farla finita con il Giudizio di Dio, qui l’interprete vuole farla finita con i processi sommari, con le regine del “tua culpa”, del chiacchiericcio insinuante, delle calunnie rossiniane che, più che un venticello, sono diventate tornados. “Questo sono io”, ci dice, metà Calibano e metà Ariel, metà angelo e metà demone, “e voi abbracciatemi, perché, in fondo, siete della stessa carne”.

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