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Otello

Otello ovvero dal Vangelo Secondo Jago – Recensione teatro

in Teatro
Immagine della recensione dello spettcolo Otello

Nell’ambito della rassegna teatrale de IL POLITEATRO, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Otello ovvero dal Vangelo Secondo Jago, con Enrica Chiurazzi, Fabrizio Kofler, Clara Mori, Manfredi Pedone, Massimo Sabet. La regia è firmata da Massimo Sabet. La produzione è a cura de Il Faro Teatrale.

Jago è, da sempre, il buñueliano oscuro oggetto del desiderio, l’inconscio della storia, con regole che la ragione non conosce; Shakespeare sembra aver regalato la meravigliosa possibilità, in questo lavoro, di vedere un personaggio normalmente nascosto, invisibile. Al pari della divinità greca Ananke, di solito, un irresistibile campo gravitazionale trascina nella sua orbita la storia, i personaggi, e, insieme a essi, la mano dell’autore che li scrive. Stavolta, invece, questa energia – il più delle volte scomoda, ma terribilmente necessaria – ha una forma. Il tradimento di Jago ha origini etimologiche: ovvero il “tradere”, il portare la vicenda al di là dell’isola di Cipro, oltre i confini del dicibile, consumando tutte le possibili parole, macchinazioni, come potrebbe fare un’irrisolvibile koan del buddhismo zen rinzai. Perché si compia il salto quantico, perché si vada a uno stato superiore al di là della mente duale, la catarsi deve avvenire, e la vendetta divina compiersi, per essere, anch’essa, superata.

Lo sa bene il regista e protagonista di questa pièce, Massimo Sabet, nel mostrarci questo angelo caduto che vola male, che zampetta, similmente all’albatros di Baudelaire, nel mondo prosaico descritto dalla vicenda. Jago vede il fatale disfarsi della seta dell’innocenza di ogni possibile fazzoletto; diventa il Socrate che sa di non sapere, ed accetta che la cicuta che paralizzerà la storia sgorghi dalle mani del Moro. Sin dall’inizio, il gioco tragico è dichiarato: la quarta parete è tirata giù a colpi di piccone, e gli a parte, i momenti-verità dei personaggi, sono spietati e necessari camera look, sguardi in macchina, rivolti alla platea che guarda, voyeuristicamente, la fenomenologia di un amore. Giuda deve fare quello che va fatto; il villain deve creare dialettica, contrasto, interpretando il suo ruolo fino alle estreme conseguenze, per il bene della storia, e per il suo male.

Immagine della recensione dello spettacolo Otello

Sabet è uno Jago per cui si prova compassione, e questa intuizione lo salva dal rischio di serialità interpretativa, ermeneutica di questo personaggio. Ha una dimensione metateatrale, che permette di vedere le sue dolorose intenzioni devianti in ogni singolo momento. Le linee coreografiche morbide di certi movimenti, i giri da derviscio vogliono esprimere quel momento di indicibile conciliazione tra il reale e l’irrazionale; mentre, davanti alla grande vela scenografica, parete serica di platoniana memoria, le ombre vengono, giustamente, trattate come cosa salda. Non se ne abbia a dispiacere Bene, se in questa pièce si sente l’odore della divinità, di un sacro che va ricercato, andando fino al ghiaccio in cui è sepolto Lucifero. L’odore della carne che si lacera, che si spacca, permettendo all’ansia di denunciare la sua tragica cattività. Sabet si immola come un Cristo mancato, ascetico al pari di un monaco orientale, tagliando la scena con il suo passo.

E pare un Woyzeck che rasoia il suo cammino, nella sua frenetica sfida al tempo stesso. Otello, interpretato da Fabrizio Kofler, mostra meravigliosamente il passaggio spirituale, emotivo, dalla pace alla guerra, dal sorriso dell’amante alla smorfia della  gelosia. I suoi fonemi, graffiati, erosi dalla caustica onda di una passionalità che, via via, si fa tossica, sono la cartina di tornasole della psicologia del personaggio. Anche lui ha una specie di meta-coscienza, di cognizione, brechtianamente straniata, del dolore. Una mente che, dovendo mentire, si duplica, si terzopersonalizza, per mostrare quella lacrima sospesa, piccola, ma enorme; quella goccia divina di dolorosa verità, che, per un istante, macchia di rosa la vastità dell’oceano di tutti i possibili significati. Manfredi Pedone è un Cassio illuminato da lampi di consapevolezza, che fa più terribilmente tragico il suo giocato; il suo essere parte dalla tela del linguaggio di Jago.

Immagine della recensione di Otello

Esprime il suo sé narrato da parole altrui, il suo impossibile cercare un proprio etereo, fatuo, fantasma di libertà, di autodeterminazione. Clara Mori è la moglie di Jago, il suo doppio femminile. Ride, piange, porta parole di importante saggezza muliebre; è corpo e, insieme, anima, in fonemi che ne rappresentano l’esatta sovrimpressione. Enrica Chiurazzi è una Desdemona che scorre lieve, come la seta del suo fazzoletto, nello svolgersi di tutta la tragedia; incede con una leggerezza quasi metafisica, e, via via, si impiomba, ed è impiombata dalla gelosia del Moro. Anche lei tende, fatalmente, alla sua verità, che sta ben al di là delle parole. Il regista fa davvero tesoro della versione cinematografica pasoliniana della tragedia, Che cosa sono le nuvole: la verità sta dentro, ma bisogna far silenzio per sentirla, come una geniale intuizione, un rumore di fondo in un assordante tacere. Questo Jago dà un senso definitivo al suo finale tacere.

Dà sostanza alla sua decisione di lasciare che sia, come direbbero i Beatles; ha consumato ogni potenziale di azione e di verbalità, e diventa un fiocco di neve, che non cade da nessuna parte. Offre, anzitempo, una stupenda definizione di quello che sarà l’inconscio freudiano. E la trova dandogli direttamente, in prima persona , la parola: “Servendo Otello, servo me stesso”. Si trasforma non in un singolo inconscio, bensì in un inconscio collettivo; una zona della psicologia del profondo, in cui giacciono le croci in remissione di tutti i nostri peccati, e dove ci si trova ad essere sia la mano del legionario che inchioda, che quella del Cristo inchiodato. Jago, nel finale, in cui osserva il monumento funebre di carne che ha creato, e che intravedeva nel marmo fin dall’inizio, risolve finalmente il seguente koan: che rumore fa una mano che applaude? E, questa risoluzione, la si sente un attimo prima che esplodano gli applausi concreti della platea.

Immagine della recensione di Otello

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Otello – Recensione Teatro

in Teatro
Foto dello spettacolo Otello
Ph Angelo Redaelli

Nell’ambito della rassegna shakespeariana “Tutto il mondo è palcoscenico” del Teatro Carcano, caricata sul loro canale youtube il 03 di aprile, e disponibile gratuitamente per una settimana, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Otello, ideato e recitato da Davide Lorenzo Palla, diretto da Riccardo Mallus, con la partecipazione musicale degli Ottavo Richter.

Quante parole ci possono stare in un fiato? L’attore Davide Lorenzo Palla risponde a questa domanda con la sua recitazione, prende una bella rincorsa, inspira forte, e riesce a farci stare tutto un testo shakespeariano, sembra che ce l’abbia davvero una musa di fuoco ad infiammargli lo sguardo, ed a scaldargli le battute. La sua è una dattilografia verbale implacabile, ed ogni fonema è battuta con forza e determinazione sulla Lettera 22 della laringe. Sentirlo recitare equivale a vivere la magia di vedere trasformarsi un palcoscenico un regno, ha il sapore sonoro di certi temporali estivi, in cui i goccioloni sempre più veloci e frequenti diventano parole leste, messaggeri che mettono le ali ai piedi, e ti viene la voglia di metterci la testa sotto a quel diluvio di parole, per sentirne la confortante frescura. Si mostra col suo tricorno da corsaro, da pirata della filibusta, con il sorriso canagliesco.

Con la voglia di far correre l’anima all’interno del testo, fin quasi a farle scoppiare il cuore, si mette davanti agli spettatori, e diventa, non un cantastorie, ma il cantastorie. L’unico possibile in quel momento,  il solo che possa aprirsi come un sipario, per mostrare la tragica storia del moro di Venezia. E proprio come tutti i cantastorie che lo hanno preceduto, porta su di sé la polvere delle strade  a cui chiedere quali storie narrare, e come raccontarle, così come le racconta il vento. Ha il chiasso delle osterie nella sua vivacità scenica, la voglia invincibile di raccontare una storia, e, per scriverla alla Baricco, finché c’è una buona storia da raccontare, finché una diva può cantare l’ira di Otello e dei lutti ad esso collegati,  non si è mai fregati. Non si conosce come un singolo, ma, alla maniera di Pessoa, come un pieno orchestrale degno di essere ascoltato.

Foto dello spettacolo Otello
Ph Angelo Redaelli

Non ha una sola anima, ne ha parecchie, ed ognuna di esse è lì, pronta ad offrire se stessa ad uno dei personaggi della storia. Ha qualche cassa su cui salire, per creare il suo speaker’s corner, per esprimere di volta in volta la verità di tutti i ruoli. Gioca con il pubblico, lo provoca, lo stuzzica, lo elettrizza, come le rane galvaniche, lo risveglia della letargia della poltrona, e lo coinvolge sulla scena. Porta davvero su di sé l’eredità di una lunga teoria di interpreti che hanno il dono di fare del proprio racconto un vino pastoso, tannico, che ti accende le gote, che ti scalda, e un po’ ti fa girare la testa. Ha dei musicisti in scena pronti a farsi coro di questa particolare tragicommedia, perché le storie fatalmente, quelle più vere, immerse fino alla punta dei capelli dell’umano, sono insieme tragiche e comiche.

E la musica accompagna questo viaggio da Venezia a Cipro, dall’amore alla gelosia, dalla razionalità alla follia, con la  leggerezza con cui le dita del fisarmonicista scorrono libere tra i tasti. Questi musicisti sono una piccola banda di paese, una di quelle che accompagnano tutti i momenti di una comunità, dai più tristi ai più lieti. Suonano le note funeree del finale che diventa prologo della vicenda, come nella versione cinematografica dell’Otello di Welles, suonano i momenti di festa, amplificano gli stati d’animo, lanciano come arcieri le parole dell’attore ancora più profondamente verso il loro naturale bersaglio, la platea. Non c’è una pausa, non c’è un vuoto che l’attore non riempia dei colori della sua interpretazione, e salta veloce dalla narrazione all’azione in presa diretta, come si può balzare da una cassa all’altra. Ti stordisce piacevolmente la giostra di parole che rallenta, al momento giusto.

Foto dello spettacolo Otello
Ph Angelo Redaelli

Ti mostra  il dettaglio, per invitarti ad avvicinare un po’ di più l’attenzione a quel fatale fazzoletto. Ma se prende in mano un microfono, se lo avvicina al viso, come un crooner alla Sinatra, o come una rock star, allora sa fare il suo dovere di attore drammatico. Idealmente si toglie per un attimo l’ideale berretto a sonagli, e calza dei coturni tragici che gli stanno a pennello. E tira fuori tutta la disperazione di Otello, il tormento che lo invade per il gesto fatale che sta per compiere. E lo spettatore se lo ritrova tutto lì, in quel palcoscenico di parole che incantano, che ti prendono per mano e ti fanno credere di essere lì, in una camera da letto di Cipro, ad assistere a un terribile femminicidio. Non si ferma Davide, non si ferma mai, ha più fiato di quanto ne potrebbero avere tutti i personaggi insieme.

Sembra uno di quei bambini con l’argento vivo addosso, con lo sguardo di chi ti sfida a stargli dietro, a seguirlo nella corsa e nei giochi. Ha la fiamma di Prometeo che arde negli occhi questo interprete, in grado di alzare la sua temperatura emotiva, ed insieme quella della platea. Un fuoco in grado di accenderne altri, una lucciola che si muove con destrezza sul palcoscenico. I suoi gesti e le parole sembrano accettare reciprocamente la sfida di una corsa, di un percorso ginnico che si può affrontare solo con un giusto allenamento. E, proprio come Otello, conquista la sua platea, la sua Desdemona, con la forza del racconto, circonda con un abbraccio di calde parole la platea, che si ritrova lì, ad meno di un passo da lui, e non può fare altro che accorgersi di esserne stata sedotta.

Foto dello spettacolo Otello
Ph Angelo Redaelli

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