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Mater – Recensione teatro

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Immagine della recensione dello spettacolo Mater

Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Mater. Il progetto drammaturgico e la regia sono curati da Mino Manni e Marta Ossoli, con il contributo di Fabrizio Kofler. L’interprete è Diana Ceni.

Diana Ceni ha un sorriso che vale tutta una summa theologiae; ha un quarto di luna appoggiato sul viso, a illuminare la notte della coscienza. Sorride, e l’orizzonte di quel sorridere è quasi metafisico. Sembra un’illuminazione interiore, stato dell’essere che filtra da un pertugio, facendo venire voglia, allo spettatore, di aprire quella porta, per vedere pienamente la luce. Quell’incurvatura ha qualcosa di dostoevskjiano, di mariano: emana una misercordia, un senso profondo di compassione per l’altro da sé.  Era fatale, sillogisticamente sicuro, che, prima o poi, da attrice, si confrontasse con l’archetipo della madre, della Maria evangelica. Ma, qui, non incarna una Madonna qualunque, un ritrattino agiografico, di fronte al quale appoggiare un lumino commemorativo; piuttosto, un personaggio con il codice genetico emotivo, psichico, spirituale che potrebbe appartenere a una creatura testoriana. Ѐ soprattutto carne, carne mischiata, fatalmente impastata e indistinguibile dal vento dell’anima che la agita.

E il dolore nelle viscere è più vivo; si amplifica come un requiem, come un’opera sinfonica suonata da tutto il corpo, che si torce, si piega, divenendo calligrafia della sofferenza, frase esistenziale grassettata che arriva, come una freccia, dritta dritta fino al cielo, per farlo sanguinare. La madre del dolore si alterna, meravigliosamente, con quella della tenerezza riservata al bimbo in fasce. In un tempo che non è più cronologico, ma è quello della memoria interiore, che fa andare, a suo piacimento, avanti e indietro la pellicola dei fatti, presente e passato si sovrappongono, come momenti della stessa coscienza, e l’ideale madeleine proustiana consumata dalla protagonista sa, terribilmente, di sale. L’azione è portata nella cascina, nella verità di un quarto stato concreto, vicino alla terra più del Calibano de La Tempesta di Shakespeare.

Immagine della recensione dello spettacolo Mater

In un grammelot evocante i sapori dei paesi che sfilano lungo i finestrini delle Nord, quando ancora ci si sedeva sul duro legno, la madre pare uscita dal pennello rabbioso di un pittore naїf, e incarna, con crescente intensità, il ruggito della tigre di Ligabue. Ascoltando questi fonemi così materici, così fantasticamente modellati sulle emozioni loro genitrici, si è presi da una sorta di incantamento, di allucinazione olfattiva. Sembra quasi di poter sentire gli odori rurali, dell’aia, delle bestie che alitano, combattendo, con la coda, i tafani nella stalla; ma anche l’odore dell’aria che si lascia contaminare dalla terra, creando la metafora perfetta dell’essere umano, lì, nell’impossibile via di mezzo tra la materia e il cielo. E poi c’è l’urlo, fatto di assordante silenzio, in cui mandibola e mascella lottano per rompere le catene che le tengono unite.

Impallidisce, l’Urlo di Munch, di fronte al dolore di una madre che perde il figlio, e che diventa tragica poesia. D’altra parte, è stata la poetessa Alda Merini a ricordarci che il motore della poesia avviene da questo straziante strappo. La Sindone espressionista, impressa su di un telo, lascia esplodere i suoi colori fatti di terra e di sangue raggrumato, traducendo in forma visiva il bachiano Vangelo secondo Matteo (parte, fra l’altro, della colonna sonora dello spettacolo). Diventa impronta non solo di un corpo, ma di una sofferenza, che, per rendere pienamente l’idea di sé, si fa tanto cosa sensibile, uscendo dal territorio linguistico, quanto traccia tangibile, annunciandosi agli spettatori in tutta la sua tragicità. La Passione è già avvenuta, il rovesciamento dell’antico dramma si è compiuto; a sigillo di ogni possibile tragedia, qui è il dio a sacrificarsi, chiudendo i conti con la dike.

Immagine della recensione dello spettacolo Mater

La divinità si è carrucolata in scena fin dall’inizio della vicenda, e chiede all’essere umano di diventare il nuovo deus ex machina. Mentre la madre diventa tutta un cuore dolorante; perfino l’anima si fa muscolo cardiaco. E tra gli atri ed i ventricoli, in quell’ambiente  perennemente umido di sangue, si ramificano nervi, che regalano un secondo cervello, una seconda mente a questa palpitante creatura. E questa ragione cardiaca non solo non è conosciuta dall’altra ragione, a più alte latitudini del collo, ma nemmeno da Pascal stesso. Diana, inoltre, in certi momenti, per utilizzare un’espressione dantesca, sembra letteralmente trasumanare; come posseduta da un daimon, entra in trance, e si ha la netta sensazione che parli sotto la dettatura di un invisibile angelo dionisiaco. In quei momenti, i suoi occhi sono illuminati da una luce del tutto particolare e unica, mentre la carne si fa marmo della poesia.

E quanto i suoi respiri sono essi stessi musica, anzi la sua più alta espressione, come tacet presenti sullo spartito del copione. E’ come se trattenesse nei polmoni il tempo suo e degli spettatori. Ansima l’attrice, fatica, ma sempre con gioia e serenità; si lascia attraversare da questa corrente impietosa e tumultuosa, abbandonandovisi con la grazia angelica di un’Ofelia adagiata nel suo letto liquido. Trasforma il sudario nelle fasce di un bimbo, e poi nel tableau vivant della Pietà michelangiolesca. E c’è buono, come canta Mina, che al momento giusto sa diventare l’altra, e abbraccia selvaggiamente, con la sua voce, con il suo sguardo, l’intera platea. E alla fine torna, sui generosi applausi, quel sorriso che si mangia tutto il mondo in un boccone, che è tutto il senso di una vita, al pari del fiore di Loto mostrato dal Buddha, come miglior risposta a qualunque dubbio.

Immagine della recensione dello spettacolo Mater

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La Lupa – Recensione teatro

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Immagine della recensione della Lupa

Nell’ambito della rassegna teatrale di STN-Studionovecento, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo La Lupa, con Ailin Tracchia, Allegra D’Imporzano, Andrea Bonzi, Andrea Pella, Angelica Topolino, Bianca Cerro, Bianca del Basso, Giacomo Piseri, Lorenzo Fonti e Valentina Sangalli. La drammaturgia (liberamente tratta da Giovanni Verga) e la regia sono a cura di Marco. M. Pernich.

La Lupa non è un semplice personaggio, non è soltanto l’estrema incarnazione dell’ennesima Medea: è una categoria dell’anima, uno stato dell’essere, la quintessenza di Dioniso e, quindi, dello spirito del teatro. E Dioniso è, a sua volta, quello che si potrebbe definire una sorta di anti-divinità, nel rifiuto di adeguarsi passivamente al Fato, all’ineluttabile metafisico. Insomma, la Lupa è quanto di meglio si possa trovare, per ricreare lo spirito della stessa tragedia che viveva nel teatro di Dioniso. Il regista, Marco Pernich, trasforma la scena in un’orchestra e crea una skenè, ritrovando la parola che, con la propria libertaria divinità, sfida quella degli altri Numi. La protagonista si muove come una creatura a quattro zampe, aracnica, vissuta da un divino irriverente che si esprime, in pieno, nella carne. Sembra vivere, pervasa da una forza irresistibile, in una cerimonia di Candomblè, i cui partecipanti, danzando e muovendosi  freneticamente, sono abitati dalle divinità.

Come sarebbe piaciuto a Fersen, questo lavoro teatrale. Non più un approccio teologico alla scena, bensì teurgico, in cui i cieli siano dichiarati disabitati, e l’umano si apra a un disperato e disperante fiato “numinoso”.  La Lupa è una dea madre, un’Ecate, un’Astarte , un’Iside, una Kali: è l’eterno femminino, necessariamente umorale e carnale. Scopre i seni come gesto rituale, apotropaico, che la trasforma in un archetipo, in un segno di una poesia profondamente sensoriale, percettiva. Fa l’amore non solo con il corpo, ma con i pensieri, con i gesti, con le parole, rivendicando un approccio “orgasmico” con la realtà; se gli dèi condannano alla fine, che sia, come la definiscono i francesi, una douce mort. La figlia, apparentemente passiva, è, in realtà, l’elemento in grado di scardinare i meccanismi classici della tragedia. La sua inazione è più una rivendicazione esistenziale, volontà di porsi all’estremo opposto rispetto alla madre.

Immagine della recensione dello spettacolo La Lupa

Ecco perché rifiuta il rito del capro espiatorio da compiere sulla madre; ecco perché, con la potenza di un Bartleby melvilliano, dichiara il suo inemendabile “avrei preferenza di no”. L’uomo della Lupa è il classico eroe tragico sofocleo, giocato a dadi dagli dèi: ora libero, ora prigioniero, ora ateo materialista, ora credente penitente, pronto a sfilare in processione. Sua sorella e il rispettivo compagno cercano di sfuggire all’irresistibile forza centripeta di questa storia, all’Ananke che si stringe intorno alla gola della Lupa; riescono ad accomiatarsi nel finale, sparendo dalla storia. Escono dalla luce del cerchio di Dioniso, perché si prepari il woyzeckiano finale, illuminato dalla luce rossa di un coltello. Il coro delle tre Parche, intanto, fila la storia, la osserva, la metabolizza, la normalizza nel filato delle parole e del testo scenico. Si animano in un rito arcaico, profondamente e deliberatamente pagano.

Rappresenta la loro luna nera, la parte oscura delle comari, che guardano la storia intorno a loro come regine del tua culpa. Niente è davvero come sembra: tutto scorre, i sentimenti, le personalità, ed Eraclito regna incontrastato. Il prete cerca di rivestire i panni di uno stanco raisonneur, che proprio fa fatica a far stare il quadrato della razionalità apollinea nel cerchio di Dioniso. Mentre, sul fondo della scena, il punto di fuga è rappresentato da due mezzibusti bianchi: vestigia di una metafisica pittorica, dechirichiana, simboli del maschile e del femminile che hanno abbandonato il tao del nero contrapposto al bianco. Ogni scena è un tableau vivant, un quadro in movimento; una ricca  iconografia fatta, prima di tutto, di immagini, di distanze e vicinanze che si giocano, ogni volta, in forma differente. Gli dèi si negano e si abiurano, sconfessandosi, perché possano nascere in altre forme.

Immagine della recensione dello spettacolo La Lupa

Si tiene conto della lezione di Dioniso, pronto, come la fenice, a rinascere dalle proprie ceneri. La tragedia è una summa del grande triumvirato greco: Eschilo nel dinamismo irresistibile dei personaggi; Sofocle nel terribile gioco del gatto col topo, compiuto dal Fato nei confronti dell’umano; Euripide, infine, nella dialettica, nella scoperta delle voragini psicologiche dei personaggi, nel comprendere che ci sono più cose nell’umano che in cielo e in terra, rovesciando l’assunto di Polonio. Le luci tagliano, delineano, questi marmi umani, viventi. Una vampa di irrazionalità, di passione, splendidamente valorizzata, nei pieni orchestrali, da una luce rosso sangue. I luoghi deputati dell’azione hanno la caratteristica della circolarità, dell’eterno ritorno; raccolgono i personaggi come i numeri sul quadrante dell’orologio, mentre i corpi tagliano come lancette il tempo, lo sfibrano, lo accorciano o lo allungano.

Sono come le gambe di Woyzeck, un rasoio pronto a tagliare la gola al placido scorrere delle cose. Il maresciallo tenta di trovare una normalità che non esiste, e non ha nemmeno un soldato con cui lagnarsi, mentre si fa fare la barba. La processione religiosa è un istante meravigliosamente congelato nella calura siciliana: un falso movimento, un’immagine che sta per muoversi, minaccia di farlo, ma non lo fa. La rappresentazione iconica del sacro non riesce a muovere un passo, mentre la Lupa ne muove molti, uno dopo l’altro. Incarna la convinzione granitica di un’Antigone, la sensualità magico-misterica di una scatenata Medea, e porta in sé un’intera legione di Baccanti, pronte a consumare d’amore la carne, fino allo smembramento. E, proprio come Bocca di rosa di De Andrè, porta a spasso per il paese l’amore sacro, esattamente coincidente con quello profano. Signore e signori, la tragedia è servita!

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256 secondi, Piovono bombe! Recensione Teatro

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Immagine della recensione dello spettacolo Piovono bombe

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo 256 secondi, Piovono bombe! Lo spettacolo è scritto e diretto da Cesare Gallarini. Queste “schegge” di bombardamenti sono raccontate da Cesare Gallarini, Lorena Marconi e Ottavio Bordone.

Con buona pace di Kubrick, qui decisamente si impara come odiare la bomba, la quale porta già in dote, nella parola che la denomina, l’onomatopeicità di un suono che ha ben poco di fumettistico, e troppo di tragico. Si racconta la storia di uno strumento di morte che ha, definitivamente, portato la guerra dai campi di marzo ai civili. A crollare non è più l’infestata casa degli Usher, bensì quella dell’uomo qualunque, dell’everyman che si vede, letteralmente, piovere dal cielo la tragedia; gli dèi si sono carrucolati nella scena umana troppo velocemente, pronti a scoppiare in faccia a qualunque platea. La bella intuizione di questo spettacolo è raccontare drammaturgicamente tutto questo, con una efficace e devastante normalità, avendo come bussola, per orientarsi in ogni bombardamento, quella banalità del male ben espressa dalla Arendt. Non ci sono gli eroi del mito, bensì persone comuni, che muoiono.

Perdono la vita a causa di questa pioggia futurista, metallica, dirompente, provocata dalla meteorologia distorta di generali, i quali sono ancora convinti, che, sopra la collina ci sia la notte crucca e assassina; ma gli unici, veri assassini sono loro. La verità di questa assurda etica rovesciata si basa su di una fredda media statistica: se un essere umano ucciso equivale a un omicidio, migliaia sono il risultato di una guerra. In una scena essenziale, gli oggetti sono correlativi oggettivi di questo spaventoso altro, segni tangibili di ciò che rimane; ogni accessorio serve a testimoniare che tutto questo è stato, è, e speriamo che non sarà più. Cesare Gallarini incarna il pilota, o, meglio, ogni possibile pilota che trasporta questo strumento di morte; con la sua fisicità imponente, la sua voce rustica, con tannini di una vocalità intensa, corposa come un buon bicchiere di lambrusco, dice l’indicibile.

Immagine della recensione dello spettacolo Piovono bombe

Usa l’efficacissima arma di una sottile comicità straniata, brechtiana, per descrivere la  quotidianità dei bombardamenti. Ma lì, proprio dietro l’ultimo fonema, a meno di un soffio dall’ultimo fiato, ecco che appare un’intenzione deviante: fa mostra di sé l’anima buona di qualunque Sezuan, che piange in silenzio, terzopersonalizzandosi epicamente. Lorena Marconi è la cittadina, la vittima, sguardo stupito  verso un cielo che dovrebbe ospitare le nostre migliori intenzioni, e, invece, ospita creature mostruose che sputano fuoco sulla città, draghi postmoderni che difficilmente i cavalieri della contraerea potranno abbattere. E poi Lorena ha certi sorrisi, piccoli e delicati, che ti entrano dentro, scavando una strada di fuga dall’orrore. Si riesce a vedere, nella curva di quelle labbra, una tenue speranza; risuona sommessamente il canto di una Vera Lynn, a ricordarci che, forse, ci incontreremo di nuovo in un giorno di sole, dopo l’ultima guerra.

E poi c’è quello sguardo di madre, nel racconto del bombardamento sulla scuola di Gorla, con tutto lo spaesamento di un essere in grado di dimostrare che le bombe, oltre che le case, sradicano le anime. Con le bambole in mano, costringe ogni dio della tragedia all’unico silenzio possibile. Non ci son scuse, Dostoesvskij docet: ciò che rimane incomprensibile, ciò che suona come una fatale accusa per ogni possibile abitante del cielo, è la violenza contro i bambini. Ottavio Bordone è il giornalista raisonneur che batte ostinatamente sulla sua vecchia macchina da scrivere, come il reporter che si trova il proprio cantuccio lirico per portare la propria testimonianza, per regalare alla vicenda un particolare ritmo: quello delle dita sui tasti. E’ una presenza discreta che lega i fili di questa vicenda, uno alla volta, in grado di ricomporre, con dovizia, questa tela di Penelope, che proprio non sa se potrà reincontrare Ulisse.

Immagine della recensione dello spettacolo Piovono bombe

Ogni parola di questo spettacolo è maledettamente necessaria; è uno schiaffo alla letargia dell’indignazione, alle coscienze impigrite, per cui il mondo delle immagini si contamina di realtà, finzione, e consigli per gli acquisti. La denuncia è questa testimonianza chiara, limpida come acqua di fonte. Non c’è fascinazione alcuna nella guerra, non c’è prosecuzione di alcuna diplomazia: solo l’orrore dell’ennesimo Kurtz, capace di raccontare il delirio dal cuore di tenebra di ogni guerra, trovando del metodo poloniano in questa follia. Mesdames e Messieurs, questo è autentico teatro civile di denominazione di origine controllata. Si racconta l’inferno dei bombardamenti senza sconti, senza orpelli, senza infiocchettature retoriche di alcun tipo. E, per citare una canzone di The Wall dei Pink Floyd, ci si meraviglia di come persone debbano, ancora oggi, correre ai rifugi, quando la promessa di un nuovo mondo è stata sbandierata mille volte sotto un cielo azzurro.

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Eclissi (e altre cose oscure) Recensione Teatro

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immagine della recensione di Eclissi e altre cose oscure

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Eclissi (e altre cose oscure), scritto, diretto e interpretato da Alessandro Veronese.

Eccolo lì, Alessandro Veronese, con lo sguardo rivolto a qualche invisibile daimon, uno di quelli che anche Socrate preferisce ignorare. Sembra Bob Geldof nel film The Wall. Questa, ci dice idealmente, è one of my turns, quindi sarebbe il caso di tirare fuori, come Pink, la sua favourite axe dal cassetto. Ma le parole sono molto più affilate, e si prestano meglio a questo scopo. D’altra parte, sbucciando la cipolla dell’anima, prima o poi verrà da piangere, e ci si confronterà con la parte più interna, quella dal sapore più forte; chissà se tutto questo Peer Gynt lo sa, mentre sfoglia la sua  cipolla. Quello che l’interprete sa è di avere una storia, piuttosto caustica: ci si ustionano le mani ad ascoltarla. Non solo il sonno della ragione, ma anche la sua veglia forzata, le sue evidenti occhiaie, diventano mostri.

Sono fra quelle creature che, per quanto facciano orrore, non si può astenersi dall’osservare, proprio come se le nostre palpebre fossero bloccate, al pari di quelle di Alex durante il trattamento Ludovico. Gioca con Aristotele l’attore, si beve una birra bukowskiana con lo Stagirita, trasforma le proverbiali unità in un gioco delle tre carte, invitandoci a capire dove sia  la verità; ogni volta ci pare di saperlo, dalla parte della platea, ma quella carta sta sempre in un’altra posizione. Perché l’unica verità consiste in un immancabile asso nella manica, quello di una finzione pessoana, che finge il dolore percepito veramente. Poi ci sono gli occhi, a mettere le cose a posto: farebbero abbassare lo sguardo al dio della tragedia, e forse anche al dio della biomeccanica dei replicanti. Ti parlano direttamente nella testa, senza mediazioni.

immagine della recensione di Eclisse e altre cose oscure

Sono parole non più attutite da significati, sono struggente mancanza, sono un non essere che ha talmente voglia di essere, da mandare a carte e quarantotto il monologo di Amleto. Madamina, il catalogo è questo, verrebbe da pensare, sentendo sfilare le conquiste di questo Casanova di qualche periferia testoriana; ma qui è già accaduto tutto, siamo già oltre il finale dell’opera, la statua del commendatore ha già trascinato il seduttore all’inferno. Peccato che quell’inferno bruci molto meno, rispetto a quello che viveva già dentro di sé. Qui la seduzione ritorna al suo significato originario: è un se – ducere, un tentativo di condurre a sé, di non accontentarsi dello specchio dell’altra, ma di mangiarne l’anima, perché diventi quella che ci manca. E poi l’intuizione, in questo srotolarsi di verità scomode, di nodi esistenziali, che nemmeno il pettine della drammaturgia potrebbe sciogliere.

Lo spettatore stesso diventa un’altra conquista del personaggio, venendo attratto irresistibilmente da questo fascinoso black hole, questo orizzonte cui nemmeno la luce riesce a sfuggire, e può mostrare la sua struggente cattività dietro un paio di pupille attonite. Poco importa che, a marciare contro questo Macbeth, non sia la foresta di Birnam, ma siano pericolosi usurai. Il tempo è sempre lì, con il suo fastidiosissimo tictac, e la sfida esistenziale continua, attimo dopo attimo, istante dopo istante. Poco importa che il tictac sia il cursore sul foglio bianco di Word: ogni oggetto esterno è lì a richiamare il tempo, in tutte le sue forme. E se tacerà tutto, il cuore, provato, infartuato fisicamente e metaforicamente, sarà sempre lì a segnalare lo scorrere dell’esistenza, come il muscolo cardiaco del racconto di Poe. Ecco tutta la verità, nient’altro che la verità, sull’amore.

Immagine della recensione di Eclisse e altre cose oscure

O, meglio, su di uno straziante bisogno d’amore che arriva a ferirsi, pur di non ferire. Ecco una nudità estrema, un paesaggio interiore che si mostra, con la naturalità di un anatomopatologo pronto ad aprire il ventre per mostrarne il contenuto; uno strano cervello ipertrofico, passato attraverso la mutazione imposta dal cuore. Guarda, Veronese, prima di tutto, le sue parole: questi esseri fragili, a volte  freaks che nessuno vorrebbe ospitare, e che potrebbero far mostra di sé in un gabinetto delle meraviglie, in una fiera vittoriana. E, in mezzo, si trova anche qualche piccolo arcobaleno, qualche lucciola di poesia che combatte per non farsi compromettere le ali dal nero disagio dell’anima. Potremmo sentir gridare, da un momento all’altro, come in Elephant Man di David Lynch: “I am a human being!”, “ Io sono un essere umano!”. E lo è, molto più di un essere umano.

Rappresenta una nuova ibridazione:  l’autore, il personaggio e l‘uomo insieme, in una splendida sovrimpressione, una di quelle che solo i paesaggi dell’inconscio sanno creare. E, più che paura di lui, si ha paura di ciò che di lui si scopre avere in sé, un grumo di paure, contraddizioni, errori bagnati dalla rugiada della poesia . Ha tutto il sapore di un pinkfloydiano final cut, quello di Veronese, che chiama gli ultimi giri di una partita a poker esistenziale, in cui è già sotto di tanto. Se Artaud voleva farla finita con il Giudizio di Dio, qui l’interprete vuole farla finita con i processi sommari, con le regine del “tua culpa”, del chiacchiericcio insinuante, delle calunnie rossiniane che, più che un venticello, sono diventate tornados. “Questo sono io”, ci dice, metà Calibano e metà Ariel, metà angelo e metà demone, “e voi abbracciatemi, perché, in fondo, siete della stessa carne”.

Immagine della recensione dello spettacolo Eclissi e altre cose oscure

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Deledda’s revolution – Recensione Teatro

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Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Deledda’s revolution. Il testo è di Antonio Mocciola, e la regia è curata da Diego Galdi. Gli interpreti sono Valeria Bertani e Luca Pala. La piece è la storia dei due Deledda, Grazia e Santus, il cui destino è giocato sulle ginocchia di Zeus.

Bastano due personaggi per riempire una scena, un uomo e una donna, la storia universale, la storia di sempre. Grazia Deledda e Santus Deledda, ovvero Oreste ed Elettra. E la tragedia e sempre lì, potente come quella antica, iscritta insieme nella carne e nell’anima, come fa il vento con sassi della Sardegna. L’unica differenza è che la vicenda si consuma più lentamente, un po’ alla volta, ma gli dèi non sono meno implacabili, i sentimenti non sono meno forti. Un fratello e una sorella hanno un filo invisibile che li lega l’uno all’altro: biologico, certo, ma, soprattutto, metafisico. Hanno la certezza di essere parte di un unico essere androgino, diviso per sempre, come nel mito del Simposio di Platone. Il loro è un canto verbale struggente, disperato, di chi vorrebbe essere oltre il proprio essere, chi ha nostalgia di un impossibile paesaggio dell’anima, e non si accontenta del confine del proprio io.

L’individualità è un peso lancinante, il peso pessoano del dover sentire, dell’essere separato fatalmente da tutto ciò che non si è. Ognuno dei due ha un modo diverso per lanciare la propria sfida prometeica al cielo: Grazia scrive, mette al mondo il suo modo in forma di parole sul foglio, svela il terribile inconscio della sua terra, lava i panni etici, spirituali, sulla pietra della pagina, e questo, molti suoi conterranei, non lo perdonano. Santus beve, ha un dio dentro che non è facile contenere in un singolo corpo. E Dioniso respira male, su un’isola che nasconde a se stessa la propria ombra. Il diverso, la pecora nera, quello che marcia a un ritmo diverso, marcia a tempo di danza, si muove circolarmente, in un valzer di gesti e di parole che si piega nel disagio; il suo collo si piega di fianco, come una canna al vento.

Immagine della recensione dello spettacolo teatro Deledda's revolution

E quanto quel vento faccia male alla sua anima indifesa, senza la pelle, i muscoli e i tendini a filtrare e attutire l’impatto, devastante, di quell’aria mossa sui nervi invisibili dello spirito, lo può sapere solo lui. E ce lo fa capire, intuire, con una parola che strappa dalla roccia dura della cadenza di quella lingua isolana; un fiore che si ribella all’aridità, all’infecondità della pietra. Ecco, questo testo sa terribilmente di salsedine, di mare sanno le parole di questi esseri, che sono un po’ come l’albatros della poesia di Baudelaire. Hanno ali grandi, enormi, a loro apparterebbe per natura il cielo; quando sono costretti alla terra, caracollano su zampe poco adatte a quel passo.  Divengono oggetto di scherno, ma hanno tanta di quella poesia, trasudante dalla loro carne, che potrebbero riempirne il mondo intero. Antonio Mocciola scrive un testo che viene direttamente dal muscolo cardiaco, senza mediazioni.

Hanno avuto spazio giusto le sue dita, che avranno dovuto danzare a tempo con diastole e sistole. Questa drammaturgia è dannatamente vera, mette i piedi nudi sul terreno puntuto della Gallura, della Sardegna tutta, e fa sentire letteralmente  la fatica di camminare su quello strano cielo rovesciato che si riempie di rughe, che invecchia, che subisce la violenza virile, gli schiaffi degli elementi naturali. E che guarda con orgoglio ostinato, con gi occhi aperti del proprio mare, chissà quale antica divinità, che, un giorno, lo abbandonò su quel lembo di terra, come Teseo fece con Arianna. La regia di Diego Galdi è tutta a disposizione degli interpreti: paziente opera di mani esperte, delicate, in grado di maneggiare il bozzolo di questa seta drammaturgica. Ogni fonema, ogni singolo gesto è la volontà di mostrare l’universale, i tremila regni che vivono in un singolo istante.

Immagine della recensione dello spettacolo teatro Deledda's revolution

La poesia si sforza di trovare una propria dicibilità, di narrare la luce, così come la si potrebbe vivere con gli altri sensi. Allora l’impossibile diventa possibile, perché, dietro un abbraccio con cui il personaggio cerca di consolare se stesso, dietro un momento in cui la parola si fa sacra, muovendosi ieratica sul terreno dell’etere, come un antico personaggio del teatro Noh giapponese, c’è tutto un mondo da scoprire. Una realtà profonda quanto lo è il mare della famosa canzone di Dalla, calore disperato di un sole che persino l’occhio di un dio stenta a conoscere. Valeria Bertani è una Grazia fatta di petali dell’anima, una rosa che anche il vento più leggero potrebbe rapire. Ci mostra tutte le pieghe del suo delicato tessuto interiore, ci invita a provare la sensazione impagabile,insostituibile, di sentire con i polpastrelli quella sostanza leggera, trasparente, serica.

E poi guarda, e quando guarda va ben al di là della semplice azione; è un po’ come se si dimenticasse di se stessa e diventasse l’atto stesso dell’osservare, non più suo, non nostro; è una visione che si vede da sé sola, è una parola visiva che scopre la sua luna e, con un gesto scopre se stessa, per un lungo, lunghissimo, meraviglioso istante. E quando esita, quando è doloroso il parto della parola, ha qualcosa di mariano: diventa la madre non solo delle sue emozioni, ma delle nostre, di quelle di tutti, e colora la scena di una pietà, di una compassione speciale, in forma di statua vivente sul palcoscenico. Luca Pala è, immediatamente, ogni parola della canzone di Don Backy Sognando: è il folle che conosce la carne del mondo, in quanto sua stessa carne. Beve religiosamente, come un monaco orientale pronuncerebbe per ore e ore lo stesso mantra. I suo fonemi sono una preghiera cristica, disperata, lancinante. La sua lingua frusta tutte le ombre che lo abitano, non fa sconti a se stesso  e a noi spettatori. Ha sorrisi dolorosi che ti entrano dritti dritti nella pancia, che ti fanno sentire qualcosa, prima di poter dire di che si tratti. E’ una candela al vento, la stessa della canzone di Elton John, e, ostinatamente, oppone il suo precarissimo esserci a quella potente forza naturale. La luce nelle sue pupille, e nelle sue parole, è la stessa che dardeggia sul mare, è viva, cangiante. Santus ha più vita di quanta ne potrebbe accettare il mondo che lo circonda; e le catene del perbenismo, di vite che si soffocano dentro se stesse, pesano terribilmente sulle sue ali. Tutta la platea ricambia la generosità degli interpreti con un meritatissimo applauso.

Immagine della recensione dello spettacolo teatro Deledda's revolution

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Line – Recensione Teatro

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Immagine della recensione dello spettacolo Line
Ph. Laila Pozzo

Nell’ambito della stagione teatrale 2021/2022 del Teatro della Cooperativa vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Line. Israel Horowitz è l’autore di questo testo, diretto da Renato Sarti.Gli interpreti sono Valerio Bongiorno, Francesco Meola, Rossana Mola, Mico Pugliares, Fabio Zulli. Si tratta di un classico del teatro dell’assurdo, rappresentato ininterrottamente dal suo debutto (1967) ad oggi. È la più longeva produzione “Off Off Broadway”.

Una linea dietro cui formare una fila, una riduzione in forma geometrica del confliggere, il dipanarsi di un’orizzontalità che esprime il desiderio di un’irresistibile ambizione verticale: ecco lo spunto, efficace, per una drammaturgia nella quale compiere l’esperimento sociale più riuscito e, insieme, devastante. L’homo homini lupus, che passa da Plauto per arrivare a Hobbes, e al suo fatale pessimismo per la condizione umana, e lo sgomitante impulso egoistico. Basta una coda costituita da 5 persone, per dare la stura ad ogni elementare conflitto sociale. La sociometria si misura così, dalla distanza da una linea, con buona pace di De Coubertin e di ogni spirito sportivo. Qui il doping prevede ogni possibile scorrettezza, pur di essere un primus inter pares, e farsi applaudire ironicamente come un Augusto imperiale, alla fine (o all’inizio) di una commedia squisitamente umana, troppo umana.

Il teatro dell’assurdo racconta, meglio di ogni altro, la condizione dell’essere umano, che ha perso l’arbitrato dell’invisibile divinità, e che trova, conseguentemente, orfano di quella linea metafisica di confine etico, il tutto-è-permesso dostoevskijano. Quest’ultimo si tinge dell’irresistibile grottesco di demoni, depotenziati nei mille rivoli di un’involontaria clownerie dell’uomo medio che, più dell’antica virtù, alza idealmente il proprio dito medio come sfottò contro la vita. Nessun orpello, nessuna distrazione scenografica: basta la verticalità di una cinquina di corpi esposti in questa istruttoria rovesciata, paradossale, weissiana, dove i personaggi si accusano, si alleano, si spingono, si condannano e si assolvono reciprocamente, pur di diventare primi di una fila. Peccato che, man mano, deragli qualunque riferimento geometrico, e si fatichi a capire rispetto a quale punto di riferimento si possa essere primi; status che diventa una sorta di imperativo categorico, di cieco impulso, di intuizione cartesiana dell’essere sul podio con la medaglia d’oro.

Immagine della recensione dello spettacolo Line
Ph Laila Pozzo

E questa sensazione regala una qualche parvenza di esistenza. Il primo, ma per poco, è Flaminio, essere-manifesto della mediocrità umana: tifoso da strapazzo, bevitore di birra, opportunista, pronto a sedersi al tavolo di Walter Matthau al posto di Jack Lemmon, per formare una strana coppia. E poi Stefano, un principe Myskin improbabile, innamorato della musica di Mozart, in disperata ricerca di una scacchiera per giocare una grottesca partita con la morte. Moira, femme fatale della Second Avenue, che trangugia gli uomini, come Flaminio le sue birre. Dolan, quasi un terzo impossibile personaggio del Calapranzi pinteriano, ma calato in una pièce di Ionesco. E infine Arnallo, fantozzianamente condannato a prendersi il masso di Sisifo sulla testa. E’ bravo il regista Sarti a trasformare il testo scenico in un concertato, in un crescendo rossiniano, dove, a poco a poco, si svela il dio del gioco al massacro che abita i personaggi.

Trova efficacemente anche una comicità fisica, oltre che verbale, intuendo le potenzialità da commedia dell’arte di questo particolare testo. Ci sono Arlecchini servitori di chissà quali padroni, Brighella, Colombine, Balanzoni stregati dall’american way of life, tutti in cerca di chissà quale Pantalone-Godot pronto a risolvere i loro problemi esistenziali, a patto che siano al primo posto dietro la linea. Valerio Bongiorno clarkenteggia irresistibilmente, conscio che le ultime vestigia del superuomo nietzschiano rimangono nelle strisce del fumetto di Superman. E’ la versione esistenziale e dolceamara dell’ ercolino-sempre-in piedi, del punching ball che, dopo una gragnuola di colpi, ritorna immancabilmente al punto di partenza. Con una voce straniata e stranita da ultracorpo di fantascienza, sembra uscito dall’elenco delle anime morte di Gogol’. Francesco Meola è un Mozart passato attraverso il lettino psicanalitico di Woody Allen; il suo è irresistibile flusso di coscienza, i fonemi corrono veloci.

Immagine della recensione dello spettacolo Line
Ph Laila Pozzo

Le sue battute tornano sempre al punto di partenza del surreale; è una marionetta biomeccanica che anima la scena. Rossana Mola gioca con il suo personaggio, facendo muovere sui tacchi persino i suoi silenzi, frusta con la sua laringe come impareggiabile mistress, e scombina tutta la graduatoria dei personaggi. Mico Pugliares accende la Santa Barbara della comicità, dando carnalità a questo Andy Capp momentaneamente in ferie dal suo divano. Fabio Zulli porta in dote al suo personaggio le offerte che non si possono rifiutare, ma più che Michael Corleone è un Fredo, un irresistibile guappo ‘e cartone, che si arrabatta per non essere fra gli ultimi. Tutto il gruppo di interpreti conduce un ottimo gioco di squadra, fanno divertire in scena e si divertono nel farlo (e si vede).  Si passano la palla, delle battute e della presenza, con tocchi brevi e precisi.

In un gioco carioca da fantasisti brasiliani, dimostrano, nella visione d’insieme dello spettacolo, quanto sia vera la massima della psicologia gestalt: “Il tutto è maggiore della somma delle due parti”. Diventa così vorticoso il palleggio delle battute tra loro, che, a un certo punto, si rimane incantati da quel gioco,  in grado di lasciare il difensore imbambolato, quasi ipnotizzato, per poi tirare un pallone imprendibile verso la porta. Si tratto di Teatro con la T maiuscola, dove è la recitazione la protagonista assoluta, dove tutto è incastonato in quel susseguirsi preciso, lineare, di tempi e di ritmi. Un’equazione dal risultato, in questo caso paradossale, per cui ognuno rivendica la propria primarietà; mentre, da qualche parte, un Salieri cinematografico potrebbe perdonarci il nostro essere molto più a sud non solo dei santi beniani, ma anche dalle coordinate della genialità.

Immagine della recensione dello spettacolo Line
Ph. Laila Pozzo

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Non si sa come – Recensione teatrale

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo Non si sa come
Ph Elena Savino

Nell’ambito della stagione teatrale 2021/2022 di PACTA. dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Non si sa come. Questo lavoro teatrale di Pirandello è diretto da Paolo Bignamini. Gli interpreti sono Maria Eugenia D’Aquino, Riccardo Magherini, Alessandro Pazzi, Marco Pezza e Annig Raimondi. Le luci sono firmate da Fulvio Michelazzi. La produzione di questo spettacolo è curata da PACTA. dei Teatri.

Questo Pirandello è definitivo, asciutto, si muove sul filo della follia, come la lumaca di Kurtz sul filo del rasoio. Di nuovo su un quadrivio, nei pressi di una nuova Tebe, un nuovo Edipo, alias Romeo Daddi, può trovare il suo tragico destino, e uccidere per motivi futili, “non si sa come”. Gli dèi ci sono ancora, per giocare con il destino, con l’inganno dell’autodeterminazione e della libertà dell’essere umano; poco importa che abbiano preso il nome schopenhaueriano di volontà, o siano un inconscio freudiano, un inquilino scomodo che detta legge dentro le mura della propria coscienza. Qui, l’ingresso dell’irrazionale fa un rumore sordo, quasi metafisico: lo stesso della pallina da tennis di una partita mimata, come quella giocata nel finale di Blow-Up di Antonioni. Proprio il tennis sembra prestarsi a essere efficacissima metafora di una sillogistica, logica, ricerca disperata di un senso, che batte sulle corde dell’imprevisto, dell’impasse.

Esprime il dilemma irrisolvibile, destinato a tornare ostinatamente al punto di partenza, per poi di nuovo essere sospinto al di là. Semplificazione geometrica del masso del Sisifo di Camus, questa ratio è destinata a sfuggire, a deragliare, lungo la linea del campo: gioco, set, partita. Risulta felice  l’intuizione di una parte del palcoscenico abitata da una luce spezzata, una luce che ha perso fatalmente la sua unità, il suo centro di gravità, in cui il protagonista può esprimere i suoi monologhi più devastanti. La follia più micidiale si esprime nella estrema lucidità, in quello sforzo apollineo che la ragione fa per superare se stessa e le proprie involontarie contraddizioni. Mai come in questo testo, l’ultimo completo del drammaturgo siciliano, si esprime l’inesprimibile: quel terremoto silenzioso, ma non meno devastante, del “non si sa come” che governa le vicende umane.

Immagine della recensione dello spettacolo Non si sa come
Ph Elena Savino

E, allora, si ha la netta impressione che, a guardare questa partita esistenziale, ci sia uno spettatore di riguardo, un Altro inconoscibile, che ha disegnato sul volto una specie di sorriso come quello del pescatore di De André, rincorso freneticamente dall’autore con le gambe della sua scrittura drammaturgica, indicibile eppure improvvisamente dicibile in una metafora poetica: la Luna, la stessa scoperta da Ciàula, voluta da Caligola, interrogata da Leopardi. Da qualche parte c’è la risoluzione all’insensatezza, proprio lì, sul nostro satellite, insieme al senno dell’Orlando Furioso. E questi fiori, queste piante del male, così amorevolmente curate da mani femminili, crescono rigogliosi nei salotti della buona borghesia, laboratori esistenziali ideali per far salivare di inconfessabili desideri il cane di Pavlov. Paolo Bignamini crea una regia geometrica, una trappola perfetta di parole e azioni, che si stringe, idealmente, in forma di dito sul grilletto di una pistola.

Rappresenta l’unico possibile deus ex machina, re travicello della gracidante razionalità. Su una tavola vestita di candele camminano, mesmerizzati, i personaggi, contrastando eracliticamente, con la forza dell’opposizione lineare e geometrica, le oscene linee curve dell’assurdo e dell’irrazionale. Mentre Satie è un testimone metafisico, una divinità oziosa, osservante, che guida, quasi in maniera coreutica, le azioni in scena. Magherini è un po’ come la guida, evocata da Herzog, che assaggia la terra per capire dove bisogna andare; lui, parallelamente, assaggia le battute, le gusta, e ci racconta, da fine gourmet, il sapore che hanno. Meglio ancora, lo fa percepire anche  a noi spettatori. E poi ci sono quelle pause, quei momenti, incolmabili fenditure, in cui la verità gli appare lì, a meno di un passo, luminosa come la luna, incastonata tra due preziosi fonemi. Maria Eugenia D’Aquino regala alla sofferenza del suo personaggio qualcosa di materno.

Immagine della recensione dello spettacolo Non si sa come
Ph Elena Savino

La sua recitazione si traduce in un abbraccio fatale, che si modella in una sorta di opera di scultura vivente; il suo corpo è un marmo che si piega nell’idea stessa del tormento. Annig Raimondi, sui suoi coturni in forma di scarpe col tacco, si muove benissimo: giganteggia in scena, la taglia col bisturi del suo camminare, apre la carne del testo drammaturgico, e posa, in quel dolente terreno, la rosa amara e fatale dei suoi fonemi. Alessandro Pazzi porta in dote al suo personaggio il suo corpo poetico, la sua bruciante laringe, che vive nel fuoco ogni battuta del testo. E, infine, Marco Pezza compie, con il suo personaggio, un viaggio fatale verso i territori della più asciutta ed essenziale irrazionalità. Tutti gli interpreti fanno un meraviglioso gioco di squadra, su questo campo tennistico di terra rossa. Riescono a spillare, fin da subito, quell’insostenibile leggerezza dell’inquietudine.

La lasciano intuire, come un’intenzione deviante, come un “non detto” del proprio personaggio, che rimane in forma di ideali puntini di sospensione. Non si sa come, insomma, è l’ultima, definitiva, irridente risposta che Pirandello regala al pubblico. Si ha l’impressione che abbia trovato un orizzonte degli eventi, un grado zero; l’impossibile teoria in grado di risolvere l’equazione umana, e di riunire, a sua volta, la teoria della relatività e quella quantistica, in uno sberleffo, un sottile, filosofico sfottò che solo un intellettuale siciliano avrebbe potuto inventare. E, qui, il non sapere non ha nulla di catartico: è la constatazione del proprio essere, governato da forze invisibili, ingovernabili perfino sul territorio del medesimo essere. La follia è sempre in agguato, dietro l’angolo successivo, pronta a dichiararci scacco matto. Questo uomo pirandelliano, tremendamente nostro contemporaneo, ci dice, ci racconta e ci vive alla perfezione, nel suo ineluttabile non sapere come.

Immagime della recensione dello spettacolo Non si sa come
Ph Elena Savino

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