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Deledda’s revolution – Recensione Teatro

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo Deledda's revolution

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Deledda’s revolution. Il testo è di Antonio Mocciola, e la regia è curata da Diego Galdi. Gli interpreti sono Valeria Bertani e Luca Pala. La piece è la storia dei due Deledda, Grazia e Santus, il cui destino è giocato sulle ginocchia di Zeus.

Bastano due personaggi per riempire una scena, un uomo e una donna, la storia universale, la storia di sempre. Grazia Deledda e Santus Deledda, ovvero Oreste ed Elettra. E la tragedia e sempre lì, potente come quella antica, iscritta insieme nella carne e nell’anima, come fa il vento con sassi della Sardegna. L’unica differenza è che la vicenda si consuma più lentamente, un po’ alla volta, ma gli dèi non sono meno implacabili, i sentimenti non sono meno forti. Un fratello e una sorella hanno un filo invisibile che li lega l’uno all’altro: biologico, certo, ma, soprattutto, metafisico. Hanno la certezza di essere parte di un unico essere androgino, diviso per sempre, come nel mito del Simposio di Platone. Il loro è un canto verbale struggente, disperato, di chi vorrebbe essere oltre il proprio essere, chi ha nostalgia di un impossibile paesaggio dell’anima, e non si accontenta del confine del proprio io.

L’individualità è un peso lancinante, il peso pessoano del dover sentire, dell’essere separato fatalmente da tutto ciò che non si è. Ognuno dei due ha un modo diverso per lanciare la propria sfida prometeica al cielo: Grazia scrive, mette al mondo il suo modo in forma di parole sul foglio, svela il terribile inconscio della sua terra, lava i panni etici, spirituali, sulla pietra della pagina, e questo, molti suoi conterranei, non lo perdonano. Santus beve, ha un dio dentro che non è facile contenere in un singolo corpo. E Dioniso respira male, su un’isola che nasconde a se stessa la propria ombra. Il diverso, la pecora nera, quello che marcia a un ritmo diverso, marcia a tempo di danza, si muove circolarmente, in un valzer di gesti e di parole che si piega nel disagio; il suo collo si piega di fianco, come una canna al vento.

Immagine della recensione dello spettacolo teatro Deledda's revolution

E quanto quel vento faccia male alla sua anima indifesa, senza la pelle, i muscoli e i tendini a filtrare e attutire l’impatto, devastante, di quell’aria mossa sui nervi invisibili dello spirito, lo può sapere solo lui. E ce lo fa capire, intuire, con una parola che strappa dalla roccia dura della cadenza di quella lingua isolana; un fiore che si ribella all’aridità, all’infecondità della pietra. Ecco, questo testo sa terribilmente di salsedine, di mare sanno le parole di questi esseri, che sono un po’ come l’albatros della poesia di Baudelaire. Hanno ali grandi, enormi, a loro apparterebbe per natura il cielo; quando sono costretti alla terra, caracollano su zampe poco adatte a quel passo.  Divengono oggetto di scherno, ma hanno tanta di quella poesia, trasudante dalla loro carne, che potrebbero riempirne il mondo intero. Antonio Mocciola scrive un testo che viene direttamente dal muscolo cardiaco, senza mediazioni.

Hanno avuto spazio giusto le sue dita, che avranno dovuto danzare a tempo con diastole e sistole. Questa drammaturgia è dannatamente vera, mette i piedi nudi sul terreno puntuto della Gallura, della Sardegna tutta, e fa sentire letteralmente  la fatica di camminare su quello strano cielo rovesciato che si riempie di rughe, che invecchia, che subisce la violenza virile, gli schiaffi degli elementi naturali. E che guarda con orgoglio ostinato, con gi occhi aperti del proprio mare, chissà quale antica divinità, che, un giorno, lo abbandonò su quel lembo di terra, come Teseo fece con Arianna. La regia di Diego Galdi è tutta a disposizione degli interpreti: paziente opera di mani esperte, delicate, in grado di maneggiare il bozzolo di questa seta drammaturgica. Ogni fonema, ogni singolo gesto è la volontà di mostrare l’universale, i tremila regni che vivono in un singolo istante.

Immagine della recensione dello spettacolo teatro Deledda's revolution

La poesia si sforza di trovare una propria dicibilità, di narrare la luce, così come la si potrebbe vivere con gli altri sensi. Allora l’impossibile diventa possibile, perché, dietro un abbraccio con cui il personaggio cerca di consolare se stesso, dietro un momento in cui la parola si fa sacra, muovendosi ieratica sul terreno dell’etere, come un antico personaggio del teatro Noh giapponese, c’è tutto un mondo da scoprire. Una realtà profonda quanto lo è il mare della famosa canzone di Dalla, calore disperato di un sole che persino l’occhio di un dio stenta a conoscere. Valeria Bertani è una Grazia fatta di petali dell’anima, una rosa che anche il vento più leggero potrebbe rapire. Ci mostra tutte le pieghe del suo delicato tessuto interiore, ci invita a provare la sensazione impagabile,insostituibile, di sentire con i polpastrelli quella sostanza leggera, trasparente, serica.

E poi guarda, e quando guarda va ben al di là della semplice azione; è un po’ come se si dimenticasse di se stessa e diventasse l’atto stesso dell’osservare, non più suo, non nostro; è una visione che si vede da sé sola, è una parola visiva che scopre la sua luna e, con un gesto scopre se stessa, per un lungo, lunghissimo, meraviglioso istante. E quando esita, quando è doloroso il parto della parola, ha qualcosa di mariano: diventa la madre non solo delle sue emozioni, ma delle nostre, di quelle di tutti, e colora la scena di una pietà, di una compassione speciale, in forma di statua vivente sul palcoscenico. Luca Pala è, immediatamente, ogni parola della canzone di Don Backy Sognando: è il folle che conosce la carne del mondo, in quanto sua stessa carne. Beve religiosamente, come un monaco orientale pronuncerebbe per ore e ore lo stesso mantra. I suo fonemi sono una preghiera cristica, disperata, lancinante. La sua lingua frusta tutte le ombre che lo abitano, non fa sconti a se stesso  e a noi spettatori. Ha sorrisi dolorosi che ti entrano dritti dritti nella pancia, che ti fanno sentire qualcosa, prima di poter dire di che si tratti. E’ una candela al vento, la stessa della canzone di Elton John, e, ostinatamente, oppone il suo precarissimo esserci a quella potente forza naturale. La luce nelle sue pupille, e nelle sue parole, è la stessa che dardeggia sul mare, è viva, cangiante. Santus ha più vita di quanta ne potrebbe accettare il mondo che lo circonda; e le catene del perbenismo, di vite che si soffocano dentro se stesse, pesano terribilmente sulle sue ali. Tutta la platea ricambia la generosità degli interpreti con un meritatissimo applauso.

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Line – Recensione Teatro

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo Line
Ph. Laila Pozzo

Nell’ambito della stagione teatrale 2021/2022 del Teatro della Cooperativa vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Line. Israel Horowitz è l’autore di questo testo, diretto da Renato Sarti.Gli interpreti sono Valerio Bongiorno, Francesco Meola, Rossana Mola, Mico Pugliares, Fabio Zulli. Si tratta di un classico del teatro dell’assurdo, rappresentato ininterrottamente dal suo debutto (1967) ad oggi. È la più longeva produzione “Off Off Broadway”.

Una linea dietro cui formare una fila, una riduzione in forma geometrica del confliggere, il dipanarsi di un’orizzontalità che esprime il desiderio di un’irresistibile ambizione verticale: ecco lo spunto, efficace, per una drammaturgia nella quale compiere l’esperimento sociale più riuscito e, insieme, devastante. L’homo homini lupus, che passa da Plauto per arrivare a Hobbes, e al suo fatale pessimismo per la condizione umana, e lo sgomitante impulso egoistico. Basta una coda costituita da 5 persone, per dare la stura ad ogni elementare conflitto sociale. La sociometria si misura così, dalla distanza da una linea, con buona pace di De Coubertin e di ogni spirito sportivo. Qui il doping prevede ogni possibile scorrettezza, pur di essere un primus inter pares, e farsi applaudire ironicamente come un Augusto imperiale, alla fine (o all’inizio) di una commedia squisitamente umana, troppo umana.

Il teatro dell’assurdo racconta, meglio di ogni altro, la condizione dell’essere umano, che ha perso l’arbitrato dell’invisibile divinità, e che trova, conseguentemente, orfano di quella linea metafisica di confine etico, il tutto-è-permesso dostoevskijano. Quest’ultimo si tinge dell’irresistibile grottesco di demoni, depotenziati nei mille rivoli di un’involontaria clownerie dell’uomo medio che, più dell’antica virtù, alza idealmente il proprio dito medio come sfottò contro la vita. Nessun orpello, nessuna distrazione scenografica: basta la verticalità di una cinquina di corpi esposti in questa istruttoria rovesciata, paradossale, weissiana, dove i personaggi si accusano, si alleano, si spingono, si condannano e si assolvono reciprocamente, pur di diventare primi di una fila. Peccato che, man mano, deragli qualunque riferimento geometrico, e si fatichi a capire rispetto a quale punto di riferimento si possa essere primi; status che diventa una sorta di imperativo categorico, di cieco impulso, di intuizione cartesiana dell’essere sul podio con la medaglia d’oro.

Immagine della recensione dello spettacolo Line
Ph Laila Pozzo

E questa sensazione regala una qualche parvenza di esistenza. Il primo, ma per poco, è Flaminio, essere-manifesto della mediocrità umana: tifoso da strapazzo, bevitore di birra, opportunista, pronto a sedersi al tavolo di Walter Matthau al posto di Jack Lemmon, per formare una strana coppia. E poi Stefano, un principe Myskin improbabile, innamorato della musica di Mozart, in disperata ricerca di una scacchiera per giocare una grottesca partita con la morte. Moira, femme fatale della Second Avenue, che trangugia gli uomini, come Flaminio le sue birre. Dolan, quasi un terzo impossibile personaggio del Calapranzi pinteriano, ma calato in una pièce di Ionesco. E infine Arnallo, fantozzianamente condannato a prendersi il masso di Sisifo sulla testa. E’ bravo il regista Sarti a trasformare il testo scenico in un concertato, in un crescendo rossiniano, dove, a poco a poco, si svela il dio del gioco al massacro che abita i personaggi.

Trova efficacemente anche una comicità fisica, oltre che verbale, intuendo le potenzialità da commedia dell’arte di questo particolare testo. Ci sono Arlecchini servitori di chissà quali padroni, Brighella, Colombine, Balanzoni stregati dall’american way of life, tutti in cerca di chissà quale Pantalone-Godot pronto a risolvere i loro problemi esistenziali, a patto che siano al primo posto dietro la linea. Valerio Bongiorno clarkenteggia irresistibilmente, conscio che le ultime vestigia del superuomo nietzschiano rimangono nelle strisce del fumetto di Superman. E’ la versione esistenziale e dolceamara dell’ ercolino-sempre-in piedi, del punching ball che, dopo una gragnuola di colpi, ritorna immancabilmente al punto di partenza. Con una voce straniata e stranita da ultracorpo di fantascienza, sembra uscito dall’elenco delle anime morte di Gogol’. Francesco Meola è un Mozart passato attraverso il lettino psicanalitico di Woody Allen; il suo è irresistibile flusso di coscienza, i fonemi corrono veloci.

Immagine della recensione dello spettacolo Line
Ph Laila Pozzo

Le sue battute tornano sempre al punto di partenza del surreale; è una marionetta biomeccanica che anima la scena. Rossana Mola gioca con il suo personaggio, facendo muovere sui tacchi persino i suoi silenzi, frusta con la sua laringe come impareggiabile mistress, e scombina tutta la graduatoria dei personaggi. Mico Pugliares accende la Santa Barbara della comicità, dando carnalità a questo Andy Capp momentaneamente in ferie dal suo divano. Fabio Zulli porta in dote al suo personaggio le offerte che non si possono rifiutare, ma più che Michael Corleone è un Fredo, un irresistibile guappo ‘e cartone, che si arrabatta per non essere fra gli ultimi. Tutto il gruppo di interpreti conduce un ottimo gioco di squadra, fanno divertire in scena e si divertono nel farlo (e si vede).  Si passano la palla, delle battute e della presenza, con tocchi brevi e precisi.

In un gioco carioca da fantasisti brasiliani, dimostrano, nella visione d’insieme dello spettacolo, quanto sia vera la massima della psicologia gestalt: “Il tutto è maggiore della somma delle due parti”. Diventa così vorticoso il palleggio delle battute tra loro, che, a un certo punto, si rimane incantati da quel gioco,  in grado di lasciare il difensore imbambolato, quasi ipnotizzato, per poi tirare un pallone imprendibile verso la porta. Si tratto di Teatro con la T maiuscola, dove è la recitazione la protagonista assoluta, dove tutto è incastonato in quel susseguirsi preciso, lineare, di tempi e di ritmi. Un’equazione dal risultato, in questo caso paradossale, per cui ognuno rivendica la propria primarietà; mentre, da qualche parte, un Salieri cinematografico potrebbe perdonarci il nostro essere molto più a sud non solo dei santi beniani, ma anche dalle coordinate della genialità.

Immagine della recensione dello spettacolo Line
Ph. Laila Pozzo

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Non si sa come – Recensione teatrale

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo Non si sa come
Ph Elena Savino

Nell’ambito della stagione teatrale 2021/2022 di PACTA. dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Non si sa come. Questo lavoro teatrale di Pirandello è diretto da Paolo Bignamini. Gli interpreti sono Maria Eugenia D’Aquino, Riccardo Magherini, Alessandro Pazzi, Marco Pezza e Annig Raimondi. Le luci sono firmate da Fulvio Michelazzi. La produzione di questo spettacolo è curata da PACTA. dei Teatri.

Questo Pirandello è definitivo, asciutto, si muove sul filo della follia, come la lumaca di Kurtz sul filo del rasoio. Di nuovo su un quadrivio, nei pressi di una nuova Tebe, un nuovo Edipo, alias Romeo Daddi, può trovare il suo tragico destino, e uccidere per motivi futili, “non si sa come”. Gli dèi ci sono ancora, per giocare con il destino, con l’inganno dell’autodeterminazione e della libertà dell’essere umano; poco importa che abbiano preso il nome schopenhaueriano di volontà, o siano un inconscio freudiano, un inquilino scomodo che detta legge dentro le mura della propria coscienza. Qui, l’ingresso dell’irrazionale fa un rumore sordo, quasi metafisico: lo stesso della pallina da tennis di una partita mimata, come quella giocata nel finale di Blow-Up di Antonioni. Proprio il tennis sembra prestarsi a essere efficacissima metafora di una sillogistica, logica, ricerca disperata di un senso, che batte sulle corde dell’imprevisto, dell’impasse.

Esprime il dilemma irrisolvibile, destinato a tornare ostinatamente al punto di partenza, per poi di nuovo essere sospinto al di là. Semplificazione geometrica del masso del Sisifo di Camus, questa ratio è destinata a sfuggire, a deragliare, lungo la linea del campo: gioco, set, partita. Risulta felice  l’intuizione di una parte del palcoscenico abitata da una luce spezzata, una luce che ha perso fatalmente la sua unità, il suo centro di gravità, in cui il protagonista può esprimere i suoi monologhi più devastanti. La follia più micidiale si esprime nella estrema lucidità, in quello sforzo apollineo che la ragione fa per superare se stessa e le proprie involontarie contraddizioni. Mai come in questo testo, l’ultimo completo del drammaturgo siciliano, si esprime l’inesprimibile: quel terremoto silenzioso, ma non meno devastante, del “non si sa come” che governa le vicende umane.

Immagine della recensione dello spettacolo Non si sa come
Ph Elena Savino

E, allora, si ha la netta impressione che, a guardare questa partita esistenziale, ci sia uno spettatore di riguardo, un Altro inconoscibile, che ha disegnato sul volto una specie di sorriso come quello del pescatore di De André, rincorso freneticamente dall’autore con le gambe della sua scrittura drammaturgica, indicibile eppure improvvisamente dicibile in una metafora poetica: la Luna, la stessa scoperta da Ciàula, voluta da Caligola, interrogata da Leopardi. Da qualche parte c’è la risoluzione all’insensatezza, proprio lì, sul nostro satellite, insieme al senno dell’Orlando Furioso. E questi fiori, queste piante del male, così amorevolmente curate da mani femminili, crescono rigogliosi nei salotti della buona borghesia, laboratori esistenziali ideali per far salivare di inconfessabili desideri il cane di Pavlov. Paolo Bignamini crea una regia geometrica, una trappola perfetta di parole e azioni, che si stringe, idealmente, in forma di dito sul grilletto di una pistola.

Rappresenta l’unico possibile deus ex machina, re travicello della gracidante razionalità. Su una tavola vestita di candele camminano, mesmerizzati, i personaggi, contrastando eracliticamente, con la forza dell’opposizione lineare e geometrica, le oscene linee curve dell’assurdo e dell’irrazionale. Mentre Satie è un testimone metafisico, una divinità oziosa, osservante, che guida, quasi in maniera coreutica, le azioni in scena. Magherini è un po’ come la guida, evocata da Herzog, che assaggia la terra per capire dove bisogna andare; lui, parallelamente, assaggia le battute, le gusta, e ci racconta, da fine gourmet, il sapore che hanno. Meglio ancora, lo fa percepire anche  a noi spettatori. E poi ci sono quelle pause, quei momenti, incolmabili fenditure, in cui la verità gli appare lì, a meno di un passo, luminosa come la luna, incastonata tra due preziosi fonemi. Maria Eugenia D’Aquino regala alla sofferenza del suo personaggio qualcosa di materno.

Immagine della recensione dello spettacolo Non si sa come
Ph Elena Savino

La sua recitazione si traduce in un abbraccio fatale, che si modella in una sorta di opera di scultura vivente; il suo corpo è un marmo che si piega nell’idea stessa del tormento. Annig Raimondi, sui suoi coturni in forma di scarpe col tacco, si muove benissimo: giganteggia in scena, la taglia col bisturi del suo camminare, apre la carne del testo drammaturgico, e posa, in quel dolente terreno, la rosa amara e fatale dei suoi fonemi. Alessandro Pazzi porta in dote al suo personaggio il suo corpo poetico, la sua bruciante laringe, che vive nel fuoco ogni battuta del testo. E, infine, Marco Pezza compie, con il suo personaggio, un viaggio fatale verso i territori della più asciutta ed essenziale irrazionalità. Tutti gli interpreti fanno un meraviglioso gioco di squadra, su questo campo tennistico di terra rossa. Riescono a spillare, fin da subito, quell’insostenibile leggerezza dell’inquietudine.

La lasciano intuire, come un’intenzione deviante, come un “non detto” del proprio personaggio, che rimane in forma di ideali puntini di sospensione. Non si sa come, insomma, è l’ultima, definitiva, irridente risposta che Pirandello regala al pubblico. Si ha l’impressione che abbia trovato un orizzonte degli eventi, un grado zero; l’impossibile teoria in grado di risolvere l’equazione umana, e di riunire, a sua volta, la teoria della relatività e quella quantistica, in uno sberleffo, un sottile, filosofico sfottò che solo un intellettuale siciliano avrebbe potuto inventare. E, qui, il non sapere non ha nulla di catartico: è la constatazione del proprio essere, governato da forze invisibili, ingovernabili perfino sul territorio del medesimo essere. La follia è sempre in agguato, dietro l’angolo successivo, pronta a dichiararci scacco matto. Questo uomo pirandelliano, tremendamente nostro contemporaneo, ci dice, ci racconta e ci vive alla perfezione, nel suo ineluttabile non sapere come.

Immagime della recensione dello spettacolo Non si sa come
Ph Elena Savino

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Vecchi tempi – Recensione teatrale

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo Vecchi tempi
Ph Emma Terenzio

Nell’ambito della stagione teatrale 2021/2022 di PACTA. dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Vecchi tempi. La penna di Pinter firma il testo, e si sente. Il regista è Claudio Morganti. Gli interpreti sono Maria Eugenia D’Aquino, Riccardo Magherini, Annig Raimondi.  La produzione di questo lavoro teatrale è curata da PACTA. dei Teatri.

Da un punto esterno alla retta dovrebbe passare una, e una sola, retta parallela; invece, ecco che la possibilità di geometrie non euclidee inventa soluzioni differenti. Pinter è un po’ così:  la sua drammaturgia piega lo spazio, trova il modo di non scegliere il percorso più breve, ti fa fare un giro del mondo di cui vale sempre la pena, e, una volta giunto al traguardo, ti ritrovi meravigliosamente al punto di partenza, come su un nastro di Moebius. E poi, ci sono le parole di Pinter, e qui si apre un’altra sfida, ancor più affascinante. I dialoghi di questo lavoro teatrale sono la partita a tennis perfetta, il momento in cui la palla schiocca, con un rumore secco e pulito, sulle corde della racchetta, per poi andare a battere lungo la linea del campo, e l’altro giocatore non ci arriverebbe neanche se avesse un altro paio di gambe e di polmoni a sostenerlo.

E’ una partita a carambola, in cui, nelle pause, il giocatore-personaggio studia il colpo, e poi la biglia batte su una sponda, sull’altra, su un’altra ancora, colpendo la biglia-bersaglio nell’unico modo possibile per farla finire in buca. Tre personaggi, un marito, una moglie e un’amica, sciolgono il principio di identità di Aristotele, con la stessa velocità con cui si scioglie il ghiaccio dei loro numerosi drink. A non è più uguale ad A: è uguale a B, a C e ad altre lettere nascoste nella memoria. Qui la parola regna sovrana, è un’ammaliante  dark lady di un fumoso film noir, che potrebbe piantarti un bacio e, un istante dopo, una pallottola nel cranio. Ecco, questo testo è un proiettile blindatissimo, full metal jacket che scuote la platea, che penetra fino al cuore e anche oltre. Le madeleines della memoria hanno il sapore molto dry del gin.

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Ph Emma Terenzio

A un certo punto, inoltre, non importa più che qualcosa sia effettivamente accaduto, ma soltanto che accada ora, in un susseguirsi dì istanti affilati quanto il rasoio di Kurtz. I fonemi sono il campo di una battaglia senza esclusione di colpi;  strato dopo strato, appare la verità della cipolla del Gynt, quell’impossibile centro di gravità interiore, che ha un sapore di verdura guasta. I tre personaggi distillano un teatro in purezza, una meravigliosa droga non tagliata, che fa bene allo spirito. Questo Pinter è il ghiaccio nella zona più profonda di questo inferno interiore, in cui la foresta di Birnam rimane ferma lì dov’è, e Macbeth e consorte, sensibili al richiamo del fascino discreto della borghesia, si giocano l’ultimo dio nei dadi dei cubetti di ghiaccio. Giocano, e chissà che non ci sia del sangue, dietro il fango dei loro segreti.

Giocano con il tempo e sono giocati dalle parole, che li guidano, come un parassita invade e governa il corpo di una mantide. Claudio Morganti offre una regia di precisione, una geometria terribilmente affascinante disegnata da una luce che si spezza, che spilla i visi come un giocatore di poker spilla le sue parti; mentre, sul fondo, un lungo rettangolo di luce cangiante è la cartina di tornasole in grado di misurare tutta la causticità di queste psicologie. Lavora di cesello sulle laringi, e tutti i dialoghi hanno la bellezza senza fiato della Saliera di Benvenuto Cellini. Ogni battuta è un colpo che si fa sempre più preciso, più letale, è una rasoiata sull’anima,  propria e dell’ascoltatore. Ecco il teatro nudo, con il corpo offerto per l’eterna alleanza sul pubblico, che fa deragliare il logos a poco a  poco; ma, centimetro dopo centimetro, senza accorgersene, ci si ritrova nel cerchio di Dioniso.

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Ph Emma Terenzio

Maria Eugenia D’Aquino è una moglie che, progressivamente, rende il suo sorriso, dolce e timido, letale quanto il pendolo di Poe, mentre il pozzo potrà sempre essere riempito con altro liquore nel bicchiere. I suoi silenzi sono monologhi micidiali, e la sua laringe suona un jazz sincopato. Riccardo Magherini jekylleggia parola dopo parola, ha nella gola dei meravigliosi artigli retrattili, pronti a strappare lembi di carne dell’anima; ma, quando fa tintinnare il ghiaccio, ti sembra di sentire l’attesa della lama della ghigliottina dalla parte del condannato. E la poltrona su cui si siede sembra portare le vestigia, l’eco delle sue tempeste emotive. Annig Raimondi ha una voce che viene dal dentro del dentro, da un cantuccio dell’anima dove Tom Waits suona un blues struggente. Recitano i suoi passi, i suoi piedi, i suoi tacchi, che non hanno nulla da invidiare ai coturni della tragedia. Si mette lì, sul bordo dell’ultimo precipizio, e sembra  più spaventato l’abisso nel vederla, che lei nell’osservarlo.

Gli interpreti fanno uno stupendo gioco di squadra, dove ognuno si lascia recitare dall’altro, si lascia arricchire dall’altro. Un gioco degno del miglior Brasile calcistico, dove la palla passa tra i piedi di un giocatore all’altro, e pare sempre stregata. Tutte le dosi sono giuste, non c’è parola che manchi il suo bersaglio. Ci si muove nel labirinto dei ricordi con la disperazione di Nicholson in Shining. Il dubbio è sempre lì, dietro l’angolo, pronto a giocare a nascondino con ogni possibile certezza. Un eccezionale gioco al massacro, che si compie un fonema alla volta. Si scava e si scava, ancora e ancora, senza mai accontentarsi; e, a furia di bicchieri,  ci si accorge di quanto sia profonda la tana del Bianconiglio. Pinter insegna che non c’è inferno così abissale da non poter nascondere un doppiofondo. De Sade ha trovato delle parole, terribilmente affilate, per torturare l’anima. Gli applausi finali sono meritatissimi, per questo Grand Guignol psichico ed emotivo.

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Ph Emma Terenzio

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Guardie al Taj – Recensione Teatro

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo Guardie al Taj
Ph Laila pozzo

Nell’ambito della stagione 2021/2022 del Teatro Elfo Puccini vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Guardie al Taj di Rajiv Joseph, traduzione di Monica Capuani. La rappresentazione è ideata da Elio De Capitani. Gli interpreti sono Enzo Curcurù e Alessandro Lussiana. Questo lavoro teatrale è una coproduzione del Teatro dell’Elfo e del Centro Teatrale Bresciano.

La bellezza, ci ricorda Thomas Mann, è qualcosa che può trafiggerti come un dolore, e lo sanno bene Humayun e Babur, posti  a guardia del Taj Mahal proprio alla vigilia della sua inaugurazione. C’è sempre qualcosa di crudele in ciò che è estremamente bello, dietro  un monumento meraviglioso si nascondono storie di estremi sacrifici, violenze, sopraffazioni. Ci vuole il Caligola di turno che voglia tirare giù la luna del cielo, e offrirla al mondo in forma di marmo. Ma il punto di vista brechtiano, in questa storia, è quello di due piccoli Vladimiro ed Estragone asiatici che, stufi di attendere Godot, immaginano di raggiungerlo con una macchina volante, o di avere un buco portatile per andare chissà dove. Si vede idealmente, sul loro volto, la lacrima hegeliana della coscienza infelice; e le stelle di Kant, che ritornano, insistentemente, sulla parete, in un riuscito gioco di luci, non riescono proprio a consolarli.

Due esseri hanno già tutta la potenzialità per far esplodere la più riuscita delle drammaturgie, giocandosi alternativamente il ruolo di coscienza e specchio, cercando reciprocamente un riconoscimento che stenta a venire. Ne è  conscio l’autore, Rajiv Joseph, che crea due personalità complementari: uno ligio al dovere, l’altro scalpitante e recalcitrante nei confronti del giogo della disciplina. Sembrano due momenti diversi di una stessa anima, due fotogrammi tra loro distanti sulla pellicola, resi vicini dal montaggio drammaturgico. Sono piccole cose di gozzaniana memoria, che osservano la meraviglia del mondo come un bambino guarderebbe per la prima volta la luna. Rappresentano due clown tristi che hanno un momento fatale di autocoscienza, che li allontana dal loro stesso sorriso. Il Taj diventa una efficace lente di ingrandimento per guardare dentro due esseri umani, per restituirci i loro dubbi, le loro ansie, le loro aspettative,

Immagine della recensione dello spettacolo Guardie al Taj
Ph Laila Pozzo

Permettono allo spettatore di scoprire che non solo alla corte di Elsinore nascono gli Amleto, ma anche fuori, in una casa del popolo, da chi quel mondo reale lo vede a un passo di distanza. Sono obbligati a fare una cosa orrenda i due soldati, a inventarsi nelle mani la tragedia di Seneca, a vivere l’orrore per poi cercare di lavarselo via disperatamente, come Lady Macbeth. La tragedia, come insegna il buon vecchio Aristotele, nasce così, dal cambiamento di stato di un uomo comune, dalla buona alla cattiva sorte. E uomini comuni sono Humayan e Babur, quelli su cui la storia cammina sopra, quelli che silenziosamente, metodicamente, con pazienza certosina, come bravi amanuensi la scrivono, ma il cui nome, da essa, non è scritto. Elio De Capitani riesce a trovare, nel buio del palcoscenico, questi corpi caravaggeschi, questa carne che cerca selvaggiamente un proprio riscatto spirituale. Si cercano, si stringono,si combattono.

Ma, sempre, il senso che sembra trionfare è il tatto: a un certo punto, le parole hanno bisogno di sentirsi vive reciprocamente, di toccare la propria fisicità. Il regista riesce a portare il marmo bianco del Taj in ogni fonema degli interpreti, non c’è battuta o monologo che non porti in sé l’ipoteca di quella bellezza che incombe, quasi minacciosa, sui due personaggi. All’inizio sono apparenze, la platea li scopre in forma di ombre, siamo ancora nella caverna di Platone; ma poi il velo di Maja cade, e i due personaggi si mostrano, fanno parlare il loro corpo, rendono l’immediato indeterminato della loro esistenza con l’immediatezza della loro carne. E, dopo un po’, ci si  dimentica del Taj come ci si dimentica di Godot, e quello che importa è la loro storia, il loro scontro, che non si sa mai se finirà in una lotta con spade o con uno struggente abbraccio.

Immagine della recensione dello spettacolo Guardie al Taj
Ph Laila Pozzo

Enzo Curcurù e il soldato scalpitante, ribelle; i suoi fiati scuotono ben bene le catene invisibili che lo legano alla sua posizione sociale. Gonfia il petto come un mantice, e soffia tutti i suoi desideri in faccia al compagno; agita il diaframma come un tamburo di guerra, usa il suo corpo come grafia di una lingua esistenziale scritta sul foglio della vita. Alessandro Lussiana incarna una sorta di clown bianco, l’augusto, l’anima portatrice dell’ordine, del redde rationem; cerca di richiudere il vaso di Pandora dell’amico, ma lo fa restituendoci la segreta consapevolezza che l’altro personaggio rappresenta il suo stesso inconscio, i suoi desideri repressi, l’eterno amico immaginario con cui si possono fare i giochi migliori. In fondo, i due amici guardano le stelle con gli stessi occhi di James Dean in Gioventù bruciata, con gli occhi di chi sembra domandarsi se possa esistere, sotto un simile cielo, gente cattiva.

E poi c’è a bellezza del Taj, che chiede, sul suo altare, il più tremendo dei sacrifici: è carnefice spietata come una Erinni, una divinità che vuole il prezzo della dike per la hybris di quel marmo bianco. Ma di tutto questo i due soldati sono vittime, sembrano militi sconosciuti messi a guardia di un monumento, più soli di un dio; ingannano la loro solitudine parlando, stuzzicandosi, trovando nelle parole quell’estrema difesa del credersi vivi. Se si fosse chiamati a condensare questo spettacolo in una espressione, la più corretta sarebbe il tragico confronto tra il marmo e la carne, tra l’universale e il particolare; il mortale  sacrifica se stesso, suo malgrado, per permettere che la poesia di pietra perpetui il suo canto secolare. Come si fa a non affezionarsi, a non aver voglia di abbracciare queste piccole anime, che brillano sulla scena non meno delle stelle che osservano?

Immagine della recensione dello spettacolo Guardie al Taj
Ph Laila Pozzo

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Sindrome Italia – Recensione Teatro

in Teatro
immagine della recensione dello spettacolo Sindrome Italia

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Sindrome Italia, la storia della badante rumena Vasilica che, dopo aver curato le persone, cerca di curarsi l’anima. L’interprete, che è anche autrice della drammaturgia, è Tiziana Francesca Vaccaro. Le musiche sono a cura di Andrea Balsamo.

Certe volte le parole ci provano a tenere il passo con la vita, ma da sole non ce la possono fare; allora ecco che c’è un attrice pronta a spremere tutto il Dioniso che ha dentro di sé, come un profumato limone di Sicilia, permettendo così al miracolo di avvenire. Il personaggio della badante rumena Vasilica, con in tasca pochi spicci, e uno Ionesco, tutto l’assurdo possibile di un’esistenza al servizio di altre esistenze, pronto a esploderle nelle parole e nei gesti, persino nei silenzi. Ha lo stesso sguardo di Cioran questa donna, lo sguardo triste di una filosofa della vita che, per citare questo pensatore, ha cambiato disperazioni così come si cambia la camicia. Anzi se li  cambia proprio gli abiti, se li infila su, ancora bagnati della placenta dei significati, tutti insieme, strato dopo strato, come la cipolla del Peer Gynt.

E dalla parte della platea, non si assiste semplicemente a uno spettacolo, ma l’odore dei suoni, delle parole, è quello di una cucina irresistibile, una di quelle per cui si rompe volentieri ogni etichetta, e si comincia a mangiare con le mani. Il riso e il pianto non hanno un confine preciso, come certi orizzonti in cui non si riesce a distinguere dove finisca il cielo e inizi il mare. C’è un cortometraggio di Polanski in cui una povera custode di un gabinetto pubblico rivede scene del suo passato, finché appare un angelo a riscattare l’evanescenza dei ricordi; Vasilica un angelo non ce l’ha, ma si arrangia come può, cerca di diventarlo lei, spalancando quelle braccia lunghe, che abbraccerebbero il mondo intero. E a guardarle bene sembrano proprio due ali che hanno una maledetta nostalgia di un cielo che non hanno mai conosciuto. E poi c’è il sorriso, un sorriso definitivamente luminoso,

Immagine della recensione dello spettacolo Sindrome Italia

È un sorriso che viene dalle latitudini del sud, così vero, così abbagliante che ti viene da pensare da dove l’abbia preso l’interprete tutto quel bianco, per dare un avorio così  puro alla sua bocca. E’ una sorta di competizione tra la luce degli occhi e quella del sorriso, ma una competizione leale dove le vittorie si alternano, perché i gareggianti sono di egual bravura. L’io è un altro, insegna Rimbaud, è quello della protagonista si è stretto in un cantuccio, si è rifugiato da qualche parte, per far posto al mondo di fuori. Si percepisce appena Vasilika, e, come il cavaliere inesistente di Calvino conta le pietre per credersi reale, così questa donna conta i suoi ricordi, cerca di fare del suo passato cosa salda. Forse sa, come canta Modugno, che il derubato che sorride ruba qualcosa al ladro.

E proprio non riesce a trattenere in sé un disperato, tenace, desiderio di amare e di essere amata. Sembra uscita dritta dritta da una pagina di Dostoevskij, è una versione al femminile del sognatore che colora con i suoi sogni le sue notti bianche, o un principe Myskin, senza una pelle spirituale che filtri le emozioni, convinto ancora che la bellezza salverà il mondo. Questo monologo ricorda quanto sia unico e meraviglioso il racconto di un’anima, di quella piccola grande cosa che abita il corpo, e cerca di essere, e cerca di dirsi nel mondo. Non è semplicemente una badante, è una creatura pura, un fiore di loto che cresce in uno stagno, senza che l’acqua torbida possa in qualche modo contaminare la sua bellezza. I secchi che costituiscono la scenografia sembrano tre bussolotti, pronti ad invitare la platea con questa particolare versione del gioco delle tre carte.

Immagine della recensione dello spettacolo Sindrome Italia

Sotto quale secchio si trova Vasilica? La risposta è immancabilmente sbagliata, perché trovare l’anima, tenerla così, con sicurezza, nelle proprie mani, come se fosse proprio una carta da gioco, non è facile. Ma poi la risposta giusta viene, il personaggio non è sotto, o sopra, un secchio, è in tutti noi, nel senso di estraneità al mondo che ci circonda, che a volte ci fa sentire proprio come lo Straniero, il protagonista del romanzo di Camus. E quando la voce dell’attrice comincia a graffiare, quando i fonemi diventano pietre che fanno rumore quando cadono, eccome se lo fanno, allora si comprende quanto la vita abbia urgenza di ritrovare se stessa, quanto si abbia bisogno di non perdere continuamente terreno, di trovare un pavimento di certezze su cui camminare, che sia più solido del terreno che ci manca sotto i piedi, lo stesso che il personaggio pirandelliano ci ha attribuito una volta e per sempre.

Tiziana Francesca Vaccaro, autrice anche della drammaturgia, è una di quelle attrici che si fa passare il testo dal ventre, nella carne,e poi lo fa trasudare da ogni poro. Diventa tanti personaggi senza smarrire per un attimo il filo di Arianna del monologo. I vestiti bagnati sono, in realtà, impregnati di vita, e la vita non la si può lavare a secco, la si sciorina all’antica, in un secchio, si lascia che si asciughi al sole, naturalmente. Umide sono le lacrime, umido è il sudore, umida la fatica, e umido il bacio che ha sulle labbra, da donare, come un caffè sospeso, per un’altra creatura speciale. Che sfiancante ginnastica del cuore, mentale e spirituale, compie l’attrice nel dipanare dal rocchetto del proprio corpo questa meravigliosa storia. Alla fine guarda il pubblico regalando un gesto potente, un umile, gentile, sorriso che non può che trascinare la platea verso un forte applauso.

Immagine della recensione dello spettacolo Sindrome Italia

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Fool Blues – Recensione Teatro

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Immagine della recensione di Fool Blues

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Fool Blues, uno spettacolo che restituisce quello sguardo attento e di sbieco della poesia, lo sguardo degli ultimi, quello di un clochard. L’interprete è Luca D’Addino accompagnato dal chitarrista Romeo Velluto. Il dramarturg è Simone Faloppa.

Un uomo e un microfono:  è la storia di un’intimità del’anima, di una presenza fonetica e di un’attenzione da parte dell’attore che decide di fare del suo verbo cosa salda. Tutto diventa fatalmente nitido e preciso di fronte a questo strumento, dove le parole si grassettano, diventano estremamente lucide, e monologhi fanno il filo a questa lama. Quell’asta esercita una forza di gravità devastante, come quella di un buco nero, e a essa non sfugge neanche la luce dell’anima, che riverbera le parole. Tutto questo l’attore Luca D’Addino lo sa, e non manca un appuntamento con il microfono, raccontando la poesia degli ultimi dei disperati, che, prima di essere una categoria sociale, diventano una categoria dell’anima. Se a tutto questo, poi, si aggiunge la chitarra di Romeo Velluto, allora il gioco è fatto. I fonemi diventano un talkin’ blues e si lasciano andare alla danza lenta, sensuale e suadente.

È un ¾ che racconta meravigliosamente che l’interprete loves his baby, ama la poesia del mondo, ma il mondo non lo ama. Si inventa una sorta di asta in cui proporre degli oggetti patafisici, degli objets trouvés di duchampiana memoria, per giocare con il reale, per ritrovare le divinità con cui, all’inizio della filosofia, Talete riempiva ogni cosa. Si divide tra il baule e il microfono questo interprete, che, al pari un metronomo, batte su stesso il proprio tempo scenico, trascinando lo spettatore verso il dettaglio di un primissimo piano. E in certi momenti in cui la bocca danza con il microfono un erotico tango, viene da chiedersi che cosa vedano quegli occhi, che cosa fissino. Al  pari di una Pizia, di un oracolo, non è più un essere che pronuncia delle parole, sono queste ultime a pronunciarlo, a manifestarsi da sé attraverso la sua bocca.

Immagine della recensione dello spettacolo Fool Blues

Un Apollo e insieme un Dioniso, persi sul ciglio di qualche strada, con la mano timida e restia di un Umberto D. nel chiedere la carità, vivono in questo attore, che fa della sua stessa voce un palcoscenico. Naviga letteralmente tra le note che lo accompagnano, cerca pervicacemente la sua Moby Dick, il suo avversario bigger than life, che si è consumato i polmoni con il catrame di qualche cicca di sigaretta. Il dramaturg Simone Faloppa è abile nel cucire questo vestito drammaturgico; ad aspirare tutto il fumo, giù giù, fino all’ultimo alveolo, di questa poesia che proprio non riesce a rinunciare del tutto al mondo che la deride. L’albatros di Baudelaire è diventato un clochard: il suo incedere claudicante è la versione umana di quel volatile che ha  ali meravigliose per volare, ma un paio troppo piccolo di zampe per muoversi agevolmente sulla terra.

Il veggente di Rimbaud, sfrattato da un monolocale di chissà quale periferia, guarda il mondo di sbieco, di lato;  ne vede distintamente tutta l’assurdità, e la racconta, per intero, senza sconti, a un microfono, a un psicanalista di metallo, che ha un setting perfetto,un distacco professionale dato dalla sua natura di essere inanimato. La poesia rimane un atto del fare, così come dimostra l’etimo stesso della parola: un pugno levato contro il cielo, un’anima che proprio non ce la fa  a stordirsi con le virtù papaveracee del quotidiano. Mentre il blues rende lo spettatore sempre più complice, gli permette di scoprire lo scomodo istinto voyeuristico di guardare dentro un’anima fino all’ultima oscenità, fino all’ultimo desiderio. Tira pugni fonetici questo interprete, tremendi, che fanno male, che ti lasciano barcollante sul ring, incerto se resistere o soccombere in un catartico ko. La verità è sulle nocche di quei fonemi.

Immagine della recensione dello spettacolo Fool Blues

Si avverte il dolore di un’esistenza che non può e non deve rinunciare a quel dio della poesia che selvaggiamente lo abita, e regala al suo sguardo dei lampi fiammeggianti che bruciano al pari di lapilli sfuggiti a un fuoco. Ma quello che stupisce è il gianobifrontismo, l’oscillare abilmente tra il dramma e la tragedia, lo sgusciare di questo testo scenico da ogni categoria drammaturgica, il giocare con la platea una partita di seduzione, di vedo e non vedo spirituale, fino alla devastante rivelazione: il personaggio è il pubblico stesso, così come Flaubert ammetteva di essere Madame Bovary. Le frustrazioni, le rivolte, i soliloqui, monologhi che vanno dritto dritto al centro del centro del proprio nascosto essere, come una biglia di metallo su un binario di un piano inclinato, sono quelli di chi guarda e ascolta. Le parole risuonano come una eco.

Sono le stesse che abbiamo respirato. L’attore gioca bene la sua maschera, le sue maschere, le toglie una a una, come gli strati della cipolla del Peer Gynt, e quello che rimane alla fine è l’odore penetrante della poesia, il ricordo di un universale che persiste ostinatamente, tra gli odori della città,tra le clacsonate e lo smog. E il blues racconta benissimo questo mood, questa voglia a metà di piangere e di arrabbiarsi. La medicina aspra fa bene, e, per una volta, non ci vuole lo zucchero per farla andare giù: basterà una chitarra che ha fatto una patto con il diavolo, oppure con Dioniso, per far scivolare le parole senza attrito, per abradere, al pari di un giocatore di curling, l’aria ghiacciata tra la scena e la platea, e permettere così alle frasi di raggiungere il punto desiderato, il cuore dello spettatore.

Immagine della recensione dello spettacolo Fool Blues

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Malagrazia – Recensione Teatro

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Immagine della recensione dello spettacolo Malagrazia

Nell’ambito della stagione 2021/2022 del Teatro Elfo Puccini, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo  Malagrazia. L’ideazione e la regia dello spettacolo portano il nome di Giuseppe Isgrò. La drammaturgia è curata da Michelangelo Zeno. I due interpreti dello spettacolo sono Edoardo Barbone e Daniele Fedeli. L’architettura del suono è firmata da Stefano De Ponti. La produzione dello spettacolo è curata da Phoebe Zeitgeist.

L’identità è un percorso doloroso, e la dialettica del servo e padrone, quelle pagine di Hegel, così amate dagli esistenzialisti, sono lì a dimostrarlo. Chi è chi? E, soprattutto, chi fa cosa? Esistere per se stessi è già un atto di autorelegazione. Giuseppe Isgrò tutto questo lo sa bene e, ben aiutato dalla drammaturgia di Michelangelo Zeno, mette in scena la diade perfetta: due fratelli su un’isola in uno spazio chiuso, ridotto di resistenza beckettiano, perfetto laboratorio behaviouristico, dove l’occhio dell’Alex kubrickiano dello spettatore non può fare a meno di guardare. Due esseri, nel tentativo di riconoscersi, si guardano nello specchio dell’altro, ma cadono fatalmente nell’equivoco della mano di Wittgenstein: quello che ritrovano è la propria immagine rovesciata, che è un irriducibile altro da sé. Giocano altri ruoli, prima della fine della partita, si inventano gli ultimi scampoli di identità nei gesti che ossessivamente ripetono.

L‘atto onanistico iniziale è una coazione a ripetere, un rocchetto di Hans e insieme delle Parche, che ossessivamente va avanti e indietro, condannato a riprodurre la stessa sequenza. Il regista ha preso l’aforisma nietzschiano e ne ha fatto una meravigliosa camera sadiana delle torture: “Se fissi un abisso, prima o poi l’abisso scruterà in te”. Un po’ come nella pittura caravaggesca, tutto parte dal nero, da un inevitabile “paint it black” su cui si aprono squarci di luce, sulla carne, ecco il segreto di questa ricetta scenica, luce e carne. La traduzione delle distorsioni pittoriche baconiane, della metamorfosi verso l’assurdo, è qui presente in tutta la sua meravigliosa scomodità; il perturbante, ciò che è più scomodo raccontarsi, e raccontare, il bassoventre che piomba le ali delle più alte aspirazioni, la maschera aristofanesca che fatalmente piega in una smorfia la linea della bocca, e rende assurdo il tragico.

Caino e Abele sono riscritti teatralmente, come se la mano di un Genet si fosse sostituita nella scrittura biblica. L’impossibilità di procreare si sublima nella forma di una perversa creatività. Lo spettacolo è  anche un’esperienza sensoriale, olfattiva; l’odore del polpo che bolle, che impone la sua presenza virtuale all’interno della scena e in platea, rappresenta la volontà di parlare, prima di tutto, agli stomaci del pubblico, all’organo meno equivocabile, a quello che misura il mondo dall’istinto atavico della fame. Viene servito come se fosse un cadavere di una tragedia di Seneca, e quei tentacoli raggrumati si prestano a essere l’impossibile parto dei due fratelli, la creatura cronenberghiana, prima tenuta in gestazione attraverso i gesti e le parole dei due personaggi, e poi servita come non essere, come ciò che sarebbe potuto essere. La carne, fatalmente, è sempre in ritardo sul tempo, e la sfida se la giocano ancora le ultime parole.

Immagine della recensione dello spettacolo Malagrazia

L’unica soluzione è quella di divorare famelicamente questo essere, come Crono farebbe con i suoi figli, perché il gioco ricominci da capo. Qui, più che un capitano Nemo, c’è la duplicazione del “nemo” latino, ossia del nessuno. E proprio quando l’identità comincia a sgretolarsi, quando i pensieri, le emozioni rinunciano al loro signore delle mosche, al feticcio dei feticci, l’ego, ecco che parla distintamente la voce dell’Altro lacaniano, di un inconscio che si riversa come magma incandescente sulla scena, in una scrittura automatica che non può fare a meno di trascinare gli interpreti e gli spettatori, tutti all’interno di questo buco nero. Non c’è più nemmeno un dumb-waiter, un cordone ombelicale meccanico, pinteriano, che porti notizie di un esterno: tutto si gioca in una stanza chiusa, metafora, insieme spietata ed efficace, della propria carcerazione carnale, esistenziale, e la carica esplosiva del testo scenico si moltiplica esponenzialmente.

Scoppia in faccia a una platea che ha ancora l’odore spirituale della reclusione obbligata, dei lockdown, la sensazione di un esterno che si traduce in pericolo. Edoardo Barbone e Daniele Fedeli sono dei sacerdoti ideali di questo rito dionisiaco, che più scende nella carne e più lacera l’anima. Il loro sudore diventa la testimonianza di uno sforzo di voler trasumanare, diventa il distillato del sangue di un dio impossibile, che cercano, prima di tutto, dentro di sé. Isgrò è fedele alla sua ricerca, al suo interrogativo che suona più o meno così: ”la verità, vi prego, sul dolore”. La crudeltà che ci offre è figlia di quella artaudiana; vuole essere una ricerca senza sconti, condivisa, sull’umano e sul suo senso, non astratta dal gioco mentale, intellettuale, ma vissuta anche e soprattutto nei corpi. SI vive la ricerca di quel corpo ideale di Artaud, mondato dagli organi, eternato, come una mummia egizia, nell’immagine sensoriale dell’eterno.

Ma gli organi diventano gli avversari, gli antagonisti, si tramutano nella dike, nella vendetta divina, cavalli pronti a lacerare l’integrità di un corpo che almeno vorrebbe proclamare il proprio unitario esserci. C’è il travaglio del negativo, certo, ma senza l’happy end di Hegel, nessuna sintesi, nessuna conciliazione. Quello che si può trovare, o meglio pescare, è solo un pesce–uomo, una creatura mitica, deviante dai sentieri della “normalità”, alter ego del regista, raccolto dai protagonisti  dalla platea, indossando le maschere della peste. Questo essere inerte è un simbolo esoterico dissacrato e dissacrante, una presenza spiaggiata, come le conchiglie degli esistenzialisti; la vita che non vive e che, ostinatamente, continua a vedere da quell’occhio umido, che guarda oltre la sua possibilità di poter guardare, e lo sguardo dell’altro è ancora lì, ineffabile, amato e odiato, pronto a rilanciare la sfida in un nuovo terribile gioco scenico, buio, applausi.

Immagine della recensione dello spettacolo Malagrazia

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