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Danilo Caravà

Danilo Caravà ha 89 articoli pubblicati.

Il buio oltre la siepe – Recensione Teatro

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immagine della recensione de IL buio oltre la siepe
Ph Fabio Ricci

Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Il buio oltre la siepe. L’adattamento e la regia sono curati da MOnica Faggiani. Le interpreti sono Monica Faggiani e Silvia Soncini.

Prima di tutto c’è una coppia, e non una coppia qualunque, ma una di quelle che, ogni volta che si forma, è capace di farti esplodere tutto un mondo davanti agli occhi. Il testo scenico diventa, allora, un Big Bang, una genesi, una storia contemporanea e antica al tempo stesso; una di quelle cantate dalla diva che ascolti intorno a un fuoco ideale, come si ascoltava, rapiti e affascinati, l’aedo. Ecco i loro nomi: Monica Faggiani e  Silvia Soncini sono una molecola perfetta, risultato di una chimica teatrale unica e rara a realizzarsi. Hanno scelto una storia che ti entra dentro e non ti lascia più, supera la barriera emato-encefalica, e ti sale, contemporaneamente, al cervello e al cuore: quella tratta da “Il buio oltre la siepe”. E, con una capacità fregolistica, con duttilità e naturalezza estreme, passano da un personaggio all’altro, piegando forme, suono, movenze a ogni carattere.

Avendo in tasca la memorabile intuizione grotowskiana, portano il fare teatro alla sua dimensione più immediata e, insieme, più potente, vale a dire con la sola presenza stessa, corporea, degli interpreti. Tutto si capitalizza lì, la scenografia è il corpo stesso dell’attrice. Poi ci sono quegli sguardi in macchina, rivolti verso la quarta parete, verso la platea tutta, che ti bucano con dolcezza il cuore, chiamando in causa lo spettatore non come semplice osservatore, ma come coro greco della vicenda, come testimone attivo, interloquente. Questo è teatro pulsante, fresco, libero dagli impacci di pesanti retoriche, da orpelli, da mode di messainscena transeunti. Basta un sistema di stelle binarie per raccontare l’avventura di due bambini, Scout e Jem, che guardano e raccontano il mondo dalla loro prospettiva, dal loro puro incanto. La colonna sonora è quella, firmata da Elmer Bernstein, del film con Gregory Peck, ed è in grado di accoglierti, di portarti delicatamente per mano.

Immagine de Il buio oltre la siepe
Ph Fabio Ricci

In questo mondo si vive, dalla parte della fanciullezza, una speciale educazione, sentimentale ed alla vita tutta. La storia terribile, il temporale degli avvenimenti cui assistono i due bambini – la violenza ai danni di una donna, e l’accusa all’innocente uomo di colore, fin troppo facile capro espiatorio per un profondo sud americano ancora pieno di pregiudizi –  sono momenti di crescita, momenti in cui la “bua esistenziale” diventa il miglior maestro. Poi, ovviamente, c’è “Boo”, presenza misteriosa, inizialmente repulsiva e, insieme, attrattiva per i ragazzi, che si avvicinano e si allontanano dalla sua casa, quasi fosse il rocchetto dell’Hans freudiano. Personaggio che potrebbe incarnare una sorta di inconscio, di forza misteriosa, in grado di essere catartica e salvifica al momento giusto, ovvero quando i ragazzi sono attaccati dall’alcolizzato Bob, che ha un conto aperto con il loro padre avvocato. A proposito del genitore, Atticus, questo lavoro riesce a renderlo in tutta la sua profondità,

E’ mostrata, evidenziata, tutta la sua purezza etica, che, in una certa misura, lo apparenta con l’idiota dostoevskijano, ma con l’aggiunta di  una forza interiore pronta a farsi valere.  Riesce a compensare, con il proprio animo gentile, la parte materna che manca ai bambini. Monica Faggiani, con quegli occhi brillanti e attenti, da scoiattolo, produce scintille fascinose, come quelle dei raggi del sole sopra una superficie marina. Entra nel personaggio con fiducia e decisione, come quando si entra nell’acqua, si va dove non si tocca, e, necessariamente, bisogna cominciare a nuotare. E nuota meravigliosamente, Monica, nei personaggi. C’è, poi, una caratteristica rara, quasi unica, che va riconosciuta alla sua interpretazione, al suo modo di affrontare i caratteri di una drammaturgia: traspare  tutto il piacere, la gioia, della recitazione. Questa luce, questa gioiosa vitalità coincidono con quelle dei bambini, quando giocano a diventare qualcun altro.

Immagine dello spettacolo IL buio oltre la siepe
Ph Fabio Ricci

Monica mostra tutta la sua capacità fonetica di passare a registri diversi, di far vibrare la sua laringe a tutte le latitudini, con generosità e senza risparmio: esempio che fa da contrasto a tante recitazioni “costipate” e  trattenute, preoccupate, tutt’al più, di offrire alla platea il “minimo sindacale”. Silvia Soncini ha un viso da tragedia greca, da donna del mito; umana o dea, non importa. Cade sulla scena e mostra, con una naturalezza incredibile, tutto lo stupore dell’esserci, da parte sua e del personaggio che interpreta. C’è, inoltre, una bella dimensione androgina, che arricchisce oltremodo la sua recitazione, rendendo più materiche le pennellate della sua interpretazione. I suoi fonemi , un po’ grattati, un po’ bagnati da un antro misterioso e umido dell’interiorità, rappresentano un vero e proprio valore aggiunto, in grado di capitalizzare l’attenzione degli spettatori. Le due attrici fanno, insomma, un ottimo lavoro di squadra.

Con estrema generosità e correttezza, alzano a turno la palla, perché la compagna di scena possa idealmente schiacciare,  come in una partita di pallavolo, e fare punto. C’è, e va sottolineata, un’estrema affinità elettiva fra le due interpreti, che, per usare una felice espressione di Parenti, sono in grado di farsi recitare l’una  dall’altra. Ricordano  il mito, raccontato nel Simposio, dell’essere androgino separato, dal padre degli dèi, in due patrie, e, da quel momento, in cerca dell’altra metà. Ecco: Monica e Silvia sono le due metà riunitesi in un’unica, splendida unità scenica, in grado di far vibrare l’anima di tutti gli spettatori. Certi loro sguardi complici, l’aiuto reciproco, l’ascoltarsi e l’essere, vicendevolmente, osmotiche nei confronti della recitazione, sono doti visibili che si attivano ogni volta che le due interpreti hanno la preziosa occasione di recitare insieme. Meritatissimi sono gli abbondanti applausi, dedicati a queste due eccezionali interpreti.

Immagine dello spettacolo Il buio oltre la siepe
Ph Fabio Ricci

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Louise Brooks e il vaso di Pandora – Recensione Teatro

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Immagine della recensione Louise Brooks

Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Louise Brooks e il vaso di Pandora, interpretato da Anna Giarrocco e Andrea Benfante. La produzione è a cura de “Il Teatrino di Bisanzio“.

Certe icone cinematografiche del passato hanno tutta la forza delle divinità del pantheon greco/romano, e, proprio come ci ricorda Hillman, da loro è vano fuggire, perché incarnano, anche e soprattutto, i nostri difetti, le nostre mancanze. Louise Brooks sembra fatta apposta per diventare il nostro oscuro oggetto del desiderio; con quel taglio alla garçonne, quel caschetto androgino che caratterizza le flappers evocate dalla spietata tenerezza di Fitzgerald, guarda l’abisso che le restituisce il suo sguardo. Felice l’idea di dedicarle una pièce, di ricordarla a ritroso, partendo dalla decadenza degli anni ’40, per costruire  cinematograficamente, con una serie di flashback, la sua vicenda artistica e personale. Il palcoscenico diventa una macchina per il montaggio, sulla quale scorrono pellicole umane con nitrato d’argento. Avviene una sorta di miracolo, perché la cinematografia che si evoca, quella del profondissimo bianco e nero, nonché la stagione del cinema muto, sono omaggiate da una corrispondente recitazione.

Questa prende, efficacemente, esempio dagli stilemi del muto, delle slapstick, delle comiche, e, al momento giusto, sa bagnarsi delle lacrime di una strasberghiana immedesimazione. I fantasmi del passato fanno visita a questa diva, ma senza la confortante morale dickensiana. Piuttosto, qui sembrano psicodrammi moreniani rivissuti uno dietro l’altro, perché ella ritrovi pienamente se stessa. Il suo alter-ego, la sua bambola, quasi bidimensionale, creatura ribelle sfuggita dal mondo piatto della pellicola, viene continuamente svestita e vestita, obbediente (ma, silenziosamente, ribelle) all’imperativo pirandelliano del come tu mi vuoi. In scena  è presente quasi come un totem e, insieme, un tabù, segno di un’altra, di un ineffabile inconscio che abita la protagonista. Schigolch   – creatura da film espressionista, che avrebbe potuto abitare il salotto del dottor Mabuse -,  il regista Pabst, il fumettista Crepax, che a lei si ispira per l’icona Valentina, ed altri personaggi ancora, si avvicendano e scorrono, veloci come fotogrammi nel proiettore.

Immagine della recensione Louise Brooks

Sono tracce mnestiche che vivono la loro porzione di un film che Louise, insieme, guarda e rivive, proprio come accade in una dimensione onirica. E, nel sogno, si infrangono i limiti dati di spazio e di tempo;  in questa dimensione,  anche le fotografie di altri divi, come Bogart o la Garbo, possono animarsi,  e diventare un curioso e riuscito teatrino delle ombre, in questo caso di celluloide. In tutto questo viaggio al termine della notte, la protagonista, affiancata dalla poliedrica e fregolistica malleabilità al cambiamento scenico dell’altro interprete, ci fa, idealmente, salire su una giostra che gira veloce, che dà piacevoli vertigini. Si ha la sensazione, come nel film omonimo di Ophüls, che una novella Lola Montès racconti, su una pista circense, la sua storia, portando in dote la sintesi, unica e irripetibile di quell’ambiente:  il grottesco e, insieme, il tragico.

Lei è il clown bianco, e il suo partner di scena l’augusto; l’elemento irrazionale, dionisiaco che, ogni volta, la fa saltare in una nuova realtà, insieme, esistenziale e cinematografica. Il corpo di Louise è trasumanato, così consumato dallo sguardo dalla platea da mostrare le lacerazioni da cui fa capolino la luce dell’anima, in grado di illuminare di poesia i suoi fonemi. Non c’è un’esitazione, un tempo morto, un solo atto gratuito o lasciato a se stesso, in questa rappresentazione. Tutto è necessario, tutto è là dove doveva essere, in quell’esatta sequenza dei 24 fotogrammi al secondo. Panta rei, tutto scorre; ma la fotografia di Louise diventa un ritratto di Dorian Gray in cui l’interno del vaso di Pandora, con tutti i suoi mali, si vede, a patto che ci si lasci andare in quella percezione da sindrome di Stendhal, da “ritratto ovale” di Poe.  Un’ossessione, per gli altri e per se stessa.

Immagine della recensione dello spettacolo Louise Brooks

Nel senso etimologico del termine di ob-sidere, di sedere di fronte, in modo da isolare l’oggetto del tormento, di assediarlo, di cannibalizzarlo idealmente come in un rito pagano, antico, apotropaico. Anna Giarrocco si immerge, letteralmente, nel personaggio con ogni centimetro della sua pelle e della sua carne;  in uno stato come di trance ipnotica, posseduta dal daimon della recitazione, ci restituisce una Louise più viva ed autentica che mai. Mantiene, dall’inizio alla fine, una consapevolezza che si potrebbe definire intuiva, animale, con la diva. Lascia che sia il suo ventre a dialogare idealmente con lei, e il risultato è ottimo. Si muove prima coreuticamente, in una danza  tribale, selvaggia, istintiva, per poi trovare una flessuosità nobile, stordente. Sembra guidata da una dea che la abita: una dea malata, perché non più adorata dai fedeli, ma pur sempre una divinità.

Andrea Benfante, essere istintivamente proteiforme, si muove con estrema agilità tra i cambi di personaggio, riuscendo a trovare sempre una forte caratterizzazione fisica, posturale  e fonetica. Quasi sempre volutamente disturbante, diavolo tentatore o tentato, presenza che ora resiste, ora cortocircuita, di fronte al vaso di Pandora di Louise. Nel finale, dalla platea si intuisce che, malgrado l’attraversamento del travagliatissimo inferno grottesco, c’è ancora qualche stella ad aspettare all’uscita. Affiora, tra i rarefatti fonemi, che si assottigliano per arrivare all’essenziale, una verità silenziosa, un momento preziosissimo e luminoso, in cui la protagonista può vedersi nello specchio, finalmente ricomposto, come una, e non come nessuna o centomila.  Ma bisogna far silenzio, o quell’intuizione svanirà subito. Finalmente avviene il miracolo della riconciliazione con quel vaso aperto di mali, oltre i quali, sul fondo,  si può leggere la luce di una timida speranza di essere: essere al di là di ogni maschera.

Immagine della recensione Louise Brooks

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Le donne di Bennet – Recensione Teatro

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immagine dello spettacolo le donne di Bennet

Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Le donne di Bennet. La drammaturgia è la regia sono curate da Marisa Miritello. Il testo è interpretato da Anna Nicoli, Maria Coduri e Rosanna Daolio.

Una frase del Talmud ci ricorda che Dio conta le lacrime delle donne, ma è altrettanto vero che, ancor di più, contabilizza le risate; anzi, queste rappresentano una robusta voce positiva del bilancio. Quando la comicità si declina al femminile, avviene una sorta di miracolo. Sarà per la potenzialità generativa della donna, che finisce, per scriverla alla Vegetti Finzi, per mettere al mondo il mondo; e sarà anche per quel modo, tutto unico e peculiare, di vedere le cose da un altro punto di vista, obliquo. Se Brecht ci invita a sederci dalla parte del torto perché non ci  sono altri posti a sedere, la donna preferisce inventarsene uno, fosse anche quello di un furgoncino giallo, adibito a casa, di una  delle protagoniste di questa pièce. D’altronde, se non si può uscire dal tunnel, si può sempre arredarlo, anche se, in questo caso, il tunnel diventa un autoveicolo paglierino.

Certo, una parte considerevole del miracolo la compie la penna caustica, e irresistibilmente comica, di Alan Bennett, da cui sono ricavate le tre figure presenti nello spettacolo. Questo autore prende le parole e le maneggia, con l’abilità di un prestigiatore con le carte. E ha la capacità, sempre più rara e, per questo, preziosa, di costruire dialoghi solidi, più che verosimili: reali, come certi faticosi lunedì mattina invernali, con frasi che si sgranano facilmente, come un rosario nelle mani di una pia, o come una lunga sequenza di teoremi che si deducono, fatalmente, l’uno dall’altro. Marisa Miritello, prima di ogni altra cosa, compie un lavoro di alta sartoria drammaturgica e raduna, nella stessa unità aristotelica di spazio e tempo, questi tre personaggi, facendoli felicemente interagire tra loro e moltiplicando, così, l’effetto della comicità. La donna anziana, col suo furgoncino, sogna, da dietro il sipario, i suoi 10 minuti di celebrità warholiana.  

Immagine dello spettacolo Le donne di Bennet

Appende, oltre ai suoi pannoloni riciclati, aforismi giocati sul paradosso, massime zen che si sono sintonizzate alle latitudini di una compostezza very british. Col suo megafono grassetta le parole nel quotidiano ripetersi di giornate molto borghesi, costruendo, tra Jannacci e Adorno, la sua roba minima (moralia); diventa la voce, volutamente dissonante, del coro dei luoghi comuni del si dice, si pensa, ci si spersonalizza. Diventa la coscienza critica, il ritratto di una Doriana Gray, in piena ricerca montypythonesca del senso della vita,  delle due donne con cui si confronta. Una è la moglie del diacono: inamidata nei paramenti sacri di una vita che le sta evidentemente stretta, trova soddisfazione, come un’ Arianna britannica, in Bacco e nel fascino discreto delle lenticchie, e, soprattutto, nel bell’indiano che le vende. Deneuveggia come bella, o meglio “brilla di giorno”, in cerca del suo fantasma della libertà.

Mentre l’altra, che simula per lavoro le malattie, meglio di un molieriano Argante fa, dell’immaginarietà delle sue patologie, una professione, salvo imbattersi in impreviste anatomie extra-ospedaliere. Alla fine, spendono i giorni della loro vita in una lineare semplicità che batte, per forza e timbro, anche la più classica delle tragedie. Questo tempo , la regista lo fa scorrere con gli stacchi musicali, con il ritorno ciclico delle abitudini, delle poche virtù e dei molti vizi dei personaggi. Si tiene conto, e si fa tesoro della lezione beckettiana: l’abitudine è un grande sordina, il Lexotan esistenziale contro le angosce e le paure della vita. Questa diventa la forza del testo, la sostanza di una comicità che prende la sua energia e la sua vividezza dal quotidiano, da quel sottile teatro dell’assurdo vivo in certi dialoghi, che sembrano usciti dalle units di un libro per imparare la lingua inglese.

Immagine dello spettacolo Le donne di Bennet

Non a caso, Ionesco prese ispirazione, per il suo testo La cantatrice calva,proprio da un libro di dialoghi per imparare velocemente la lingua  inglese. Rosanna Daolio è la donna del furgoncino: perfettamente a suo agio nel ruolo, lo veste alla perfezione. Costruisce fonemi riflessivi, volutamente sottolineati, trovando un certo quale straniamento brechtiano. Riesce a dare l’impressione di essere come uno di quei marziani a Roma di Flaiano, qui in trasferta oltremanica. Come una dottoressa Stranamore, sulla sua carrozzella, si muove, come dea in machina, di scena in scena, alzandosi, di quando in quando, per danzare un contrappunto esistenziale. Maria Coduri è la moglie del diacono, con una vocina di testa, perfetta per il suo personaggio. Sembra di ascoltare il timbro, lieve e sospeso, della celesta nella Danza della Fata Confetto nello Schiaccianoci. Scivola lentamente, ma inesorabilmente, nello stordimento dionisiaco dello sherry e del vin santo.

Cerca di curare, in questo modo, i reumatismi dell’anima, più che quelli del corpo. Naturale, senza bollicine aggiunte, è lo stile della sua recitazione: un viso fonetico tenuto così com’è, senza che sia caricato di trucchi e modi enfatici. Marisa preferisce pizzicare, idealmente, le guance  delle sue interpreti per dare loro una naturale nuance, piuttosto che utilizzare un pesante fard da laringi bronzate. Anna Nicoli, la malata immaginaria per vocazione e per professione, porta sulla scena un sorriso, un’amorevole gentilezza, che screziano di note preziose la sua recitazione. Ridono, quegli occhi, ma di un riso cordiale, affabile. Vederla recitare fa comprendere perché in altre lingue, ad esempio l’inglese, recitare si traduca con un’espressione che indica primariamente il gioco, to play. E’ un gioco serio e, insieme, leggero come una piuma. Tre donne intorno al cuor ci son venute, irresistibilmente piacevoli per la platea; tre donne che si meritano tutti i nostri applausi.

Rcensione dello spettacolo Le donne di Bennet

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Madamina, il catalogo è questo, ovvero la nuova stagione del Teatro Gerolamo

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Immagine del Teatro Gerolamo di Milano

Vi presentiamo la stagione 2024/2025 del Teatro Gerolamo di Milano. La direzione artistica di questa sala è affidata a Piero Colaprico, giornalista, scrittore e drammaturgo. L’uomo che, nell’ambito del noir e della cronaca nera, usa la sua tastiera come Dillinger la sua mitraglietta.

Nel cuore di Milano vive una leggendaria realtà teatrale, al cui ingresso bene starebbe la celebre iscrizione della casa di Ariosto: “Parva sed apta mihi”. Il nome del teatro è Gerolamo, e basta questa indicazione a rievocare madeleines proustiane. O, meglio, dolci meneghini, consumati seguendo il teatro di figura dei Colla, o una produzione di Umberto Simonetta, che ha avuto l’onore di essere direttore artistico di questa sala. Piccolo, si diceva, tuttavia dotato di un cuore generoso e di un’architettura tradizionale, con tanto di palchi; si incastona in piazzetta Beccaria come gemma preziosa, che devi cercare, e la sua ricerca regala un’ulteriore porzione di appetito, soddisfacibile nell’accogliente platea. E’ merito di una raffinata e determinata signora giapponese, Chitose Asano, architetto d’eccellenza, l’averci restituito il Gerolamo in tutto il suo magico fascino, dopo un formidabile restauro, nonché perfezionamento in termini di agibilità, sicurezza e organizzazione. In fondo, aveva ragione Stendhal: Milano, certi tesori, te li regala andandoli a scovare, dentro un portone, all’interno di un cortile. Questa è una città che ama giocare un po’ a nascondino con i suoi visitatori.

L’attuale direttore artistico, Piero Colaprico, ha dato un taglio tutto speciale alle stagioni, creando un cartellone teatrale  con la stessa capacità con cui si costruiscono un menabò giornalistico, una pagina di giornale, o una storia di nera che è già letteratura, mito, e che aspetta solo un Omero tabagista pronto a farsi cantare, ticchettando sui tasti, l’ira dell’ennesimo Achille del Giambellino. Le portate teatrali hanno il loro inizio con un omaggio a Giovanni D’Anzi, spettacolo che, per il Gerolamo, sta diventando qualcosa di simile all’Arlecchino per il Piccolo; un cavallo di battaglia, un vero e proprio biglietto da visita, carta d’identità, dichiarazione di intenti per farsi conoscere dal pubblico milanese. Si passa, poi, a un succulento antipasto calcistico, ovvero Fútbol, per fare del calcio una narrazione mitica attraverso Peppe Servillo. Sempre in ottobre sono previsti un omaggio di Giangilberto Monti alle canzoni di Dario Fo, e una giullarata tratta da Mistero Buffo.

Quest’ultima ha, come interprete, Lucia Vasini, che grammeloteggerà felicemente in questa prova d’attrice. Si prosegue con un tributo, di Valeria Girelli, a sei donne che hanno fatto la storia della musica, per poi giungere a Take me Aut: la dimostrazione teatrale, da parte della regista e attrice Alice De André, che la sindrome di Asperger non rende figli di un dio minore. Come non citare, poi, La Stramilano di Carlo Porta, dove Marco Balbi, Domitilla Colombo e il fisarmonicista Guido Baldoni faranno della Ninetta, e di altre immagini portiane, carne, sangue e  anima milanese? Lucia Poli dà voce e corpo alle novelle del Decameron; di nuovo il calcio, nella figura del calciatore Picchi, torna a raccontarci la variegata mitologia che già il buon Brera, e Carmelo Bene, avevano intuito in questo sport. Non poteva mancare la poesia, definitiva e illuminante, di Antonia Pozzi, offerta da Elisabetta Vergani.

In seguito, Arianna Scommegna si confronta con una riduzione teatrale del romanzo di Carrère dedicato alla strage terroristica del Bataclan. Poi, ancora la musica: quella fatta di pancia, di un blues che ti prende l’anima dagli attributi e ti lascia senza fiato, attraverso lo spettacolo Dream a little Dream. Non poteva mancare un’immersione nella parola testoriana, con lo spettacolo Erodiade, interpretato da Francesca Benedetti. Anche Giorgio Strehler e Luciano Damiani trovano spazio in questo pantheon teatrale, attraverso uno spettacolo interpretato da Antonella Civale e diretto da Marco Carniti. Marina Massironi, invece, racconta la genesi dell’Otello verdiano, avvalendosi del suo personalissimo esprit de finesse. L’Orchestra Sinfonica di Milano , nel mese di dicembre, propone un repertorio per omaggiare il Natale. Ottavia Piccolo, a gennaio, prosegue il suo itinerario di impegno civile, attraverso la storia della giornalista Ilaria Alpi.

Si prosegue con l’autentica vicenda, proveniente da Roma, di una strega, ovvero la versione rinascimentale/barocca dello sbatti il mostro in prima pagina. Non manca neppure un omaggio a Verga, attraverso lo spettacolo Capinera, e, come un fiume carsico, a febbraio tornano le note, stavolta antiche, con un concerto dell’ensemble laBarocca. Anche le lettere – e che lettere, quelle di Eleonora Duse – diventano occasione drammaturgica, attraverso l’interpretazione di Sonia Bergamasco.  I già evocati Colla, presenza storica e nume tutelare onorario della sala, propongono C’era una volta… le quattro stagioni, da Vivaldi al cambiamento climatico. Poteva mancare all’appello il più grande spettacolo del mondo? Certamente no, ed ecco infatti fare capolino, tra febbraio e marzo, il Circoteatro Gerolamo. Cochi Ponzoni narra tutta la voglia di volare dell’angelo caduto Charlie Parker, che dal suo sax, Dio sa come, tirava fuori certe schegge d’anima che ti entrano nella carne e lì rimangono, per sempre. Ancora Cochi racconta se stesso, nello spettacolo Diario di una vita sconclusionata.

In seguito, ecco un omaggio a Luigi Tenco, a quelle sue grandi ali d’albatros che non erano fatte per zampettare sulla mediocrità terrestre. Paolo Faroni, nel monologo Con le tue labbra senza dirlo, affronta delicatamente problemi psicologici e di comunicazione. Al contrario, celebra, festeggia la parola, #Pourparler, con Annagaia Marchioro. La caustica comicità di Achille Campanile è raccontata in uno spettacolo firmato da Claudio Beccari. Si arriva al teatro-canzone con un testo inedito di Filippo Crivelli (anche il suo nome, tramite Milanin Milanon, è indissolubilmente legato a quello del Gerolamo): Valentina Ferrari racconta i Mackie Messer della ligera, in Dizionario di Malavita. Ne La denuncia, scritto e diretto da Ivan Cotroneo, si cerca di dare corpo alla massima di Oscar Wilde “la verità è una menzogna che non è stata ancora scoperta”. Pino Strabioli , con lo stile che lo contraddistingue, racconta le sue amicizie con Piera Degli Esposti, Franca Valeri, Paolo Villaggio e Valentina Cortese. Come dessert per questo sontuoso banchetto, il nuovo lavoro degli attori Asperger di Alice De André; la stagione si concluderà a giugno, in grande stile musicale, con gli emozionanti mandolini dell’Orchestra a Plettro Città di Milano.

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Freud e Karenina

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Immagine dello spettacolo Freud e Karenina

Nell’ambito della rassegna teatrale 2023/2024 de Il teatro dei Contrari, vi presentiamo lo spettacolo Freud e Karenina, scritto e diretto da Fabio Mazzari, con Giuliana Meli e Fabio Mazzari.

Che ci sia un’affinità elettiva, un’amorosa intesa di sensi tra il teatro e la terapia dell’anima, è un dato di fatto. La buona e vecchia catarsi aristotelica era lì, pronta ad essere riscoperta da Freud, insieme a Edipo e alla sua accecante rimozione. Quello di Colono era ancora di là da venire, con Jung, come forma di perdono metafisico, e sublimazione della colpa. Tuttavia Fabio Mazzari, regista e interprete di questo spettacolo, compie un passo avanti, si potrebbe dire, nell’ideale alveo di un jodorowskyano atto psicomagico, e fa tesoro della frase di Hillman “non è l’uomo che va curato, ma le immagini del suo ricordo”. E’ la metafora ad avere potere curativo; il linguaggio metaforico, dunque, quello dell’arte. Quello che il Freud scenico fa, nei confronti dell’eroina tolstojana Anna Karenina, lo fa, metateatralmente, nei confronti del teatro tutto, in particolar modo capitalizzando l’attenzione sullo sguardo della platea.

Si percepiscono quegli atti mancati, quello scricchiolante silenzio, così significativo di  tutta una serie di psicopatologie della vita quotidiana. Signore e signori, la verità è questa: da più di 25 secoli, la forma teatrale ha valore terapeutico. Un lunghissimo ciclo di sedute di psicanalisi, in cui si è chiesto a noi pazienti di non fuggire, frettolosamente, nella guarigione, ma di continuare il gioco sempiterno di una terapia in cui i sintomi diventano dèi; in ultima analisi, essi hanno la capacità di trasmutarsi in forza poetica, e portano in dote la luccicanza del’assoluto, necessaria cartina di tornasole di tutto ciò che ha sostanza lirica. La capacità di Mazzari, lentus in umbra, deus in machina della vicenda, curioso, kantoriano, osservatore interno, è quella di saper rendere i suoi fonemi mesmerizzanti, anche e soprattutto nei confronti della platea. Si tratta di una forma di ipnosi dolce, morbida, di matrice ericksoniana.

immagine dello spettacolo Freud e Karenina

La sensazione, ascoltandolo, è quella di andare al di là della pura e semplice sottoscrizione di un patto narrativo; piuttosto, lo stato di coscienza si altera, leggermente, giusto quel tanto per consentire ad Alice-Anna di andare giù, giù, nella tana del Bianconiglio del suo inconscio. Siamo fatti, ci ricorda il regista/attore, della stessa materia dei sogni, a dimostrazione che Shakespeare aveva già avuto  lampi di verità sulla parte nascosta dell’iceberg nello spirito umano. Ma siamo altresì fatti di parole, che, a volte, si slabbrano, perdendo il potere connettivo della trama e del loro ordito. Ma ecco che un Freud teatrale può riparare, con la pazienza certosina con cui un ragno ripara la propria tela, le parole, le immagini, le metafore di una donna letteraria, scoppiata dentro il cuore del suo autore. Ed ecco, dunque, mostrarsi un’eroina in grado di scendere dal piedistallo del mito, dall’agiografia letteraria, e di incarnare, meravigliosamente, la nevrosi.

Quanto possa avere una decodifica freudiana il famoso aforisma pascaliano “il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce”, lo scopriamo proprio attraverso questo personaggio. Anna si conosce, dolorosamente, attraverso le sue stesse parole, ma soprattutto, attraverso in quelle lacaniane aree di non pensiero, in cui si ritrova l’inquieta essenza del proprio essere. Ha una fame di assoluto, come tutta la lunga teoria delle migliori donne della tragedia. L’essere umano, visitato dalla divinità, non sarà mai più lo stesso; sarà forse un oracolo, una Pizia, ma anche un soggetto impossibilitato a vivere nei canoni della normalità. E Freud/Mazzari studia, con empatica complicità, questo enigma, arrivando a una soluzione zen, ad un salto al di là del razionale, della mente analitica: la soluzione è la non soluzione. E’ l’accettare, e, insieme, il sublimare le proprie contraddizioni. Dioniso sa anche lambire, e conquistare, la sua Arianna con la mano leggera di una carezza lunga.

immagine dello spettacolo Freud eKarenina

Questo atto d’amore ha le sembianze, e l’anima, di un fraseggio che trasforma la laringe nell’ottone della tromba di Chet Baker; e il suo almost blue diventa il blu di certe luci, fatte apposta pe appenderci certi ricordi, che non sai se siano tracce di sogno o di memorie. I fonemi di Mazzari hanno uno struggente sapore di nostalgia: provengono da Lear che già ha capito, ha preso coscienza, ed è pronto a cercare la sua personalissima Colono. I sorrisi sono dolcemente dolorosi, e il vieux roi guarda con una conquistata saggezza tutto ciò che intono a lui accade. Non si sa se il suo bastone sia semplicemente un ausilio per la deambulazione, o, piuttosto, quello di un Prospero, pronto a incantarci con una nuova magia. La sua recitazione – non potrebbe essere altrimenti, visto il contorno psicanalitico –  parla soprattutto attraverso l’ascolto, i silenzi, certi controcampi che hanno la forza di due ali d’angelo.

Questi arti piumati decidono, deliberatamente di abbracciare, piuttosto che volare via. Giuliana Meli è un’Anna Karenina carnale, prossima ad una Lupa verghiana. Favorita da una fonazione da contralto, piacevolmente grattata, recita portandoci in dote il suo ventre, la sua femminilità ritrovata, non nel minuetto di una seduzione geometrica, ma nel valzer della passione. Il suo magma interiore si mostra con la potenza di uno spettacolo vulcanico; non a caso, Ferreri aveva deciso di intervallare il suo Simposio platonico con l’immagine di un’eruzione etnea. L’attrice si lascia abitare da questo daimon, questo spirto guerrier ch’entro le rugge. I momenti di dolcezza e pacificazione sono la conquista di un personaggio che entra in travaglio nello studio del dottor Freud, e ne esce avendo partorito, più che verità, gocce di guizzante poesia. L’intero spettacolo è un atto d’amore urgente per la parola teatrale, anzi, per tutta la parola artistica e poetica, che perdona e si perdona.

immagine dello spettacolo Freud e Karenina

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Soli, con tutto – Recensione Teatro

in Teatro
Immagine dello spettacolo Soli con tutto

Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Soli con tutto, con Paolo Faroni ed Elisabetta Misasi. Il testo è di Paolo Faroni, Elisabetta Misasi, e Massimo Canepa. La regia è firmata da Paolo Faroni ed Elisabetta Misasi. Le scene e le luci sono curate da Massimo Canepa.

Un uomo e una donna che parlano sono il perfetto big bang teatrale, e che big bang: stiamo parlando della nascita di un universo scenico che ti esplode davanti, che ti sporca di emozioni e di vita. E’ uno scambio di due giocatori di ping pong, in cui ci si chiede come diavolo faccia, il giocatore che risponde, a rimandare la pallina dall’altra parte del tavolo; eppure, lo fa. Ci avete mai badato? Nei dialoghi che filano dritti dritti come un treno ad alta velocità, esatti come il taglio di bisturi del miglior chirurgo, c’è sempre l’odore di qualcosa di americano. Si sente il profumo di un caffè abbondante che ti tiene sveglio, e ti fa pulsare le vene delle tempie. Strasberg, Meisner, Stella Adler sono tutti lì, in quello scambio di parole, vero come certi schiaffi, che ti bruciano a lungo sulla guancia.

Paolo Faroni ed Elisabetta Misasi prendono Strindberg, Bergman e la loro drammaturgia, li fanno salire su una Lamborghini e schiacciano pesantemente l’acceleratore, lasciando andare la frizione del tempo sospeso. Non hanno paura di Virginia Woolf, e delle litigate tra Burton e la Taylor: anzi, non hanno nulla da invidiare a quei match di pugilato verbale. Prendono spunto dalla famosa frase di Muhammad Alì pungi come un’ape, e vola come una farfalla. Partendo dal testo del russo americano Alex Gelman, raccontano l’orrore quotidiano della famiglia: non solo mostrano la polvere sotto il tappeto, ma la rendono così irresistibile da farci dimenticare il tappeto stesso. Allentare una cravatta diventa il gesto psicologico esatto, preciso, necessario, come una serie di sponde di una pallina da biliardo destinata, dopo quella passeggiata geometrica, ad andare lì dove dovrebbe andare. Fa piacere, davvero, accorgersi di tutto il lavoro di minuta, certosina costruzione di affiatamento che hanno saputo realizzare i due interpreti.

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La semplicità, e il lavoro di distillazione in purezza del dialogo, sono una conquista faticosa. I due si graffiano reciprocamente l’anima, se la accoltellano; uxoricidi della verbalità, assassini metafisici dell’anima del coniuge, rivisitano la massima cartesiana rendendola loquor ergo sum, parlo dunque sono. Ma la condizione perché l’esistenza scenica trovi la sua causa finale, la sua realizzazione piena, è una parola che diventi scontro, un’identità che, trovando la conferma di sé nello specchio dell’altro, lo voglia rompere. La lotta è senza quartiere, e sono ammessi tutti i colpi. Non c’è pace, né tregua, bensì uno stato di perpetua belligeranza che chiama in causa tutte le strategie: la guerra lampo, l’invasione, il bombardamento, le incursioni dietro le linee nemiche. Charlie, il nemico delle foreste del Vietnam, è il coniuge. Mentre il figlio, presenza/assenza, motore invisibile di questa vicenda, è la vittima sacrificale perfetta, l’agnello che svela i peccati del mondo familiare.

Si prendono a colpi di figlio in faccia, letteralmente, i due personaggi; lo usano come un’arma, lo rivendicano come un territorio proprio da militarizzare. Appare, perciò, dentro un salotto borghese, l’inferno, uno di quelli molto lontani dal modello dantesco. Qui non c’è un fondo, si continua a cadere, precipitare. E, come in certi cartoni animati, si finisce per arredare quella caduta, ricoprirla di un’impossibile normalità. La cosa più inquietante  è il fatto che questi due personaggi non siano poi così irreali, non rappresentino un orizzonte lontano. Incarnano, piuttosto, quel ritratto di Dorian Gray dei difetti interiori, un quadro che invecchia, si deturpa e porta i segni delle nostre colpe. I loro gesti sono i nostri gesti; i silenzi, le piccole e grandi nevrosi, le maschere, le verità nascoste ci calzano a pennello, come un vestito sartoriale fatto su misura.

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Frustrati, depressi, dolorosamente vitali, celebrano una Messa laica del quotidiano vivere, sbranandosi a vicenda. Paolo Faroni, letteralmente, si tuffa, fin dall’inizio, nel personaggio, lasciandosene permeare. Si ingolla generosi bicchieri di recitazione alla Mamet, ed è un venditore eccezionale, che sa conquistare il cliente. Ti incanta con le parole, te le fa agilmente muovere davanti, come una moneta tra le dita. Ma, al momento giusto, sa diventare un altro. Si fa parlare dalle parole, le lascia deragliare nelle intenzioni devianti, nel corto circuito di un inconscio che è proprio lì a due passi, dentro il bicchiere di superalcolico. Mostra, spillandola, al pari di un esperto giocatore, l’altra faccia della sua luna: ed è una faccia scomoda, da schiaffi, fragile più di un cristallo di Boemia, debole ed opportunista. Elisabetta Misasi restituisce colpo su colpo: è l’avversario ideale, è quello specchio su cui si fracassa la mano l’ubriaco Sheen, in Apocalypse Now.

E’ una cresciuta Alice nel paese delle dis- meraviglie, e sa, oh, se lo sa, quanto è profonda la tana del Bianconiglio. Le sue parole bruciano come sigarette spente sulla pelle. Bastano certi sguardi per inchiodare e imprigionare la farfalla dell’anima del coniuge, trapassandola con lo spillo delle proprie considerazioni. Sacrifica anche lei, sull’ara della reziana divinità del massacro, la carne di suo marito. Certe intuizioni non possono che venire dal femminile, la cui natura può essere materna, o di una spietata Medea. Alcuni suoi silenzi, alcuni sovrappensieri sono stilettate che ti entrano nei polmoni, e ti tolgono la possibilità di gridare per chiedere aiuto. Come canta De Andrè: se tu penserai, se giudicherai da buon borghese, li condannerai a cinquemila anni più le spese, ma se capirai, se li cercherai fino in fondo, se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo.

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