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Danilo Caravà

Danilo Caravà ha 84 articoli pubblicati.

Freud e Karenina

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Immagine dello spettacolo Freud e Karenina

Nell’ambito della rassegna teatrale 2023/2024 de Il teatro dei Contrari, vi presentiamo lo spettacolo Freud e Karenina, scritto e diretto da Fabio Mazzari, con Giuliana Meli e Fabio Mazzari.

Che ci sia un’affinità elettiva, un’amorosa intesa di sensi tra il teatro e la terapia dell’anima, è un dato di fatto. La buona e vecchia catarsi aristotelica era lì, pronta ad essere riscoperta da Freud, insieme a Edipo e alla sua accecante rimozione. Quello di Colono era ancora di là da venire, con Jung, come forma di perdono metafisico, e sublimazione della colpa. Tuttavia Fabio Mazzari, regista e interprete di questo spettacolo, compie un passo avanti, si potrebbe dire, nell’ideale alveo di un jodorowskyano atto psicomagico, e fa tesoro della frase di Hillman “non è l’uomo che va curato, ma le immagini del suo ricordo”. E’ la metafora ad avere potere curativo; il linguaggio metaforico, dunque, quello dell’arte. Quello che il Freud scenico fa, nei confronti dell’eroina tolstojana Anna Karenina, lo fa, metateatralmente, nei confronti del teatro tutto, in particolar modo capitalizzando l’attenzione sullo sguardo della platea.

Si percepiscono quegli atti mancati, quello scricchiolante silenzio, così significativo di  tutta una serie di psicopatologie della vita quotidiana. Signore e signori, la verità è questa: da più di 25 secoli, la forma teatrale ha valore terapeutico. Un lunghissimo ciclo di sedute di psicanalisi, in cui si è chiesto a noi pazienti di non fuggire, frettolosamente, nella guarigione, ma di continuare il gioco sempiterno di una terapia in cui i sintomi diventano dèi; in ultima analisi, essi hanno la capacità di trasmutarsi in forza poetica, e portano in dote la luccicanza del’assoluto, necessaria cartina di tornasole di tutto ciò che ha sostanza lirica. La capacità di Mazzari, lentus in umbra, deus in machina della vicenda, curioso, kantoriano, osservatore interno, è quella di saper rendere i suoi fonemi mesmerizzanti, anche e soprattutto nei confronti della platea. Si tratta di una forma di ipnosi dolce, morbida, di matrice ericksoniana.

immagine dello spettacolo Freud e Karenina

La sensazione, ascoltandolo, è quella di andare al di là della pura e semplice sottoscrizione di un patto narrativo; piuttosto, lo stato di coscienza si altera, leggermente, giusto quel tanto per consentire ad Alice-Anna di andare giù, giù, nella tana del Bianconiglio del suo inconscio. Siamo fatti, ci ricorda il regista/attore, della stessa materia dei sogni, a dimostrazione che Shakespeare aveva già avuto  lampi di verità sulla parte nascosta dell’iceberg nello spirito umano. Ma siamo altresì fatti di parole, che, a volte, si slabbrano, perdendo il potere connettivo della trama e del loro ordito. Ma ecco che un Freud teatrale può riparare, con la pazienza certosina con cui un ragno ripara la propria tela, le parole, le immagini, le metafore di una donna letteraria, scoppiata dentro il cuore del suo autore. Ed ecco, dunque, mostrarsi un’eroina in grado di scendere dal piedistallo del mito, dall’agiografia letteraria, e di incarnare, meravigliosamente, la nevrosi.

Quanto possa avere una decodifica freudiana il famoso aforisma pascaliano “il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce”, lo scopriamo proprio attraverso questo personaggio. Anna si conosce, dolorosamente, attraverso le sue stesse parole, ma soprattutto, attraverso in quelle lacaniane aree di non pensiero, in cui si ritrova l’inquieta essenza del proprio essere. Ha una fame di assoluto, come tutta la lunga teoria delle migliori donne della tragedia. L’essere umano, visitato dalla divinità, non sarà mai più lo stesso; sarà forse un oracolo, una Pizia, ma anche un soggetto impossibilitato a vivere nei canoni della normalità. E Freud/Mazzari studia, con empatica complicità, questo enigma, arrivando a una soluzione zen, ad un salto al di là del razionale, della mente analitica: la soluzione è la non soluzione. E’ l’accettare, e, insieme, il sublimare le proprie contraddizioni. Dioniso sa anche lambire, e conquistare, la sua Arianna con la mano leggera di una carezza lunga.

immagine dello spettacolo Freud eKarenina

Questo atto d’amore ha le sembianze, e l’anima, di un fraseggio che trasforma la laringe nell’ottone della tromba di Chet Baker; e il suo almost blue diventa il blu di certe luci, fatte apposta pe appenderci certi ricordi, che non sai se siano tracce di sogno o di memorie. I fonemi di Mazzari hanno uno struggente sapore di nostalgia: provengono da Lear che già ha capito, ha preso coscienza, ed è pronto a cercare la sua personalissima Colono. I sorrisi sono dolcemente dolorosi, e il vieux roi guarda con una conquistata saggezza tutto ciò che intono a lui accade. Non si sa se il suo bastone sia semplicemente un ausilio per la deambulazione, o, piuttosto, quello di un Prospero, pronto a incantarci con una nuova magia. La sua recitazione – non potrebbe essere altrimenti, visto il contorno psicanalitico –  parla soprattutto attraverso l’ascolto, i silenzi, certi controcampi che hanno la forza di due ali d’angelo.

Questi arti piumati decidono, deliberatamente di abbracciare, piuttosto che volare via. Giuliana Meli è un’Anna Karenina carnale, prossima ad una Lupa verghiana. Favorita da una fonazione da contralto, piacevolmente grattata, recita portandoci in dote il suo ventre, la sua femminilità ritrovata, non nel minuetto di una seduzione geometrica, ma nel valzer della passione. Il suo magma interiore si mostra con la potenza di uno spettacolo vulcanico; non a caso, Ferreri aveva deciso di intervallare il suo Simposio platonico con l’immagine di un’eruzione etnea. L’attrice si lascia abitare da questo daimon, questo spirto guerrier ch’entro le rugge. I momenti di dolcezza e pacificazione sono la conquista di un personaggio che entra in travaglio nello studio del dottor Freud, e ne esce avendo partorito, più che verità, gocce di guizzante poesia. L’intero spettacolo è un atto d’amore urgente per la parola teatrale, anzi, per tutta la parola artistica e poetica, che perdona e si perdona.

immagine dello spettacolo Freud e Karenina

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Soli, con tutto – Recensione Teatro

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Immagine dello spettacolo Soli con tutto

Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Soli con tutto, con Paolo Faroni ed Elisabetta Misasi. Il testo è di Paolo Faroni, Elisabetta Misasi, e Massimo Canepa. La regia è firmata da Paolo Faroni ed Elisabetta Misasi. Le scene e le luci sono curate da Massimo Canepa.

Un uomo e una donna che parlano sono il perfetto big bang teatrale, e che big bang: stiamo parlando della nascita di un universo scenico che ti esplode davanti, che ti sporca di emozioni e di vita. E’ uno scambio di due giocatori di ping pong, in cui ci si chiede come diavolo faccia, il giocatore che risponde, a rimandare la pallina dall’altra parte del tavolo; eppure, lo fa. Ci avete mai badato? Nei dialoghi che filano dritti dritti come un treno ad alta velocità, esatti come il taglio di bisturi del miglior chirurgo, c’è sempre l’odore di qualcosa di americano. Si sente il profumo di un caffè abbondante che ti tiene sveglio, e ti fa pulsare le vene delle tempie. Strasberg, Meisner, Stella Adler sono tutti lì, in quello scambio di parole, vero come certi schiaffi, che ti bruciano a lungo sulla guancia.

Paolo Faroni ed Elisabetta Misasi prendono Strindberg, Bergman e la loro drammaturgia, li fanno salire su una Lamborghini e schiacciano pesantemente l’acceleratore, lasciando andare la frizione del tempo sospeso. Non hanno paura di Virginia Woolf, e delle litigate tra Burton e la Taylor: anzi, non hanno nulla da invidiare a quei match di pugilato verbale. Prendono spunto dalla famosa frase di Muhammad Alì pungi come un’ape, e vola come una farfalla. Partendo dal testo del russo americano Alex Gelman, raccontano l’orrore quotidiano della famiglia: non solo mostrano la polvere sotto il tappeto, ma la rendono così irresistibile da farci dimenticare il tappeto stesso. Allentare una cravatta diventa il gesto psicologico esatto, preciso, necessario, come una serie di sponde di una pallina da biliardo destinata, dopo quella passeggiata geometrica, ad andare lì dove dovrebbe andare. Fa piacere, davvero, accorgersi di tutto il lavoro di minuta, certosina costruzione di affiatamento che hanno saputo realizzare i due interpreti.

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La semplicità, e il lavoro di distillazione in purezza del dialogo, sono una conquista faticosa. I due si graffiano reciprocamente l’anima, se la accoltellano; uxoricidi della verbalità, assassini metafisici dell’anima del coniuge, rivisitano la massima cartesiana rendendola loquor ergo sum, parlo dunque sono. Ma la condizione perché l’esistenza scenica trovi la sua causa finale, la sua realizzazione piena, è una parola che diventi scontro, un’identità che, trovando la conferma di sé nello specchio dell’altro, lo voglia rompere. La lotta è senza quartiere, e sono ammessi tutti i colpi. Non c’è pace, né tregua, bensì uno stato di perpetua belligeranza che chiama in causa tutte le strategie: la guerra lampo, l’invasione, il bombardamento, le incursioni dietro le linee nemiche. Charlie, il nemico delle foreste del Vietnam, è il coniuge. Mentre il figlio, presenza/assenza, motore invisibile di questa vicenda, è la vittima sacrificale perfetta, l’agnello che svela i peccati del mondo familiare.

Si prendono a colpi di figlio in faccia, letteralmente, i due personaggi; lo usano come un’arma, lo rivendicano come un territorio proprio da militarizzare. Appare, perciò, dentro un salotto borghese, l’inferno, uno di quelli molto lontani dal modello dantesco. Qui non c’è un fondo, si continua a cadere, precipitare. E, come in certi cartoni animati, si finisce per arredare quella caduta, ricoprirla di un’impossibile normalità. La cosa più inquietante  è il fatto che questi due personaggi non siano poi così irreali, non rappresentino un orizzonte lontano. Incarnano, piuttosto, quel ritratto di Dorian Gray dei difetti interiori, un quadro che invecchia, si deturpa e porta i segni delle nostre colpe. I loro gesti sono i nostri gesti; i silenzi, le piccole e grandi nevrosi, le maschere, le verità nascoste ci calzano a pennello, come un vestito sartoriale fatto su misura.

Immagine dello spettacolo Soli con tutto

Frustrati, depressi, dolorosamente vitali, celebrano una Messa laica del quotidiano vivere, sbranandosi a vicenda. Paolo Faroni, letteralmente, si tuffa, fin dall’inizio, nel personaggio, lasciandosene permeare. Si ingolla generosi bicchieri di recitazione alla Mamet, ed è un venditore eccezionale, che sa conquistare il cliente. Ti incanta con le parole, te le fa agilmente muovere davanti, come una moneta tra le dita. Ma, al momento giusto, sa diventare un altro. Si fa parlare dalle parole, le lascia deragliare nelle intenzioni devianti, nel corto circuito di un inconscio che è proprio lì a due passi, dentro il bicchiere di superalcolico. Mostra, spillandola, al pari di un esperto giocatore, l’altra faccia della sua luna: ed è una faccia scomoda, da schiaffi, fragile più di un cristallo di Boemia, debole ed opportunista. Elisabetta Misasi restituisce colpo su colpo: è l’avversario ideale, è quello specchio su cui si fracassa la mano l’ubriaco Sheen, in Apocalypse Now.

E’ una cresciuta Alice nel paese delle dis- meraviglie, e sa, oh, se lo sa, quanto è profonda la tana del Bianconiglio. Le sue parole bruciano come sigarette spente sulla pelle. Bastano certi sguardi per inchiodare e imprigionare la farfalla dell’anima del coniuge, trapassandola con lo spillo delle proprie considerazioni. Sacrifica anche lei, sull’ara della reziana divinità del massacro, la carne di suo marito. Certe intuizioni non possono che venire dal femminile, la cui natura può essere materna, o di una spietata Medea. Alcuni suoi silenzi, alcuni sovrappensieri sono stilettate che ti entrano nei polmoni, e ti tolgono la possibilità di gridare per chiedere aiuto. Come canta De Andrè: se tu penserai, se giudicherai da buon borghese, li condannerai a cinquemila anni più le spese, ma se capirai, se li cercherai fino in fondo, se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo.

Immagine dello spettacolo Soli con tutto

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Il Maestro e Margherita – Recensione Teatro

in Teatro
immagine del Maestro e Margherita
Ph Maurizio Anderlini

All’interno della sinergia fra La tana degli artisti e Portiamo il teatro a casa tua vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Il Maestro e Margherita. La drammaturgia è ispirata all’omonimo romanzo di M. Bulgakov. La regia è curata da Mario Gonzalez. Gli interpreti sono Nicola D’Emidio e Chiara Sarcona.

Prima di tutto vengono gli occhi, due supernovae, lì lì per esplodere anima da un momento all’altro. Inizia così lo spettacolo, attratto da questa irresistibile forza gravitazionale, concentrato in un corpo che si fa tutto, moltiplicandosi, piegandosi, plasmandosi sotto le mani demiurgiche, invisibili del testo scenico. La scommessa è tra le più ardue: rendere un romanzo come Il Maestro e Margherita, ricco di colori, personaggi e comparse più di un infernale quadro di Bosch, o dell’Entrata di Cristo a Bruxelles di Ensor, attraverso una coppia, una sizigia composta da un’attrice e un attore. La scommessa non solo viene accettata, ma decisamente è vinta con l’unico espediente possibile, vale a dire un’energia atomica che farebbe esplodere, tutti insieme, 100 atolli di Bikini. Corre veloce questo spettacolo, corre con i piedi del campione mondiale centometrista Usain Bolt. Non ha nemmeno bisogno di tirare il fiato, perché, bontà sua, prende in prestito persino tutti i polmoni della platea, per respirare.

Sia l’attore che l’attrice offrono meravigliosi “sguardi in macchina”, abbattendo, a colpi di generosa interattività, la quarta parete. Non riuscirebbe a sbadigliare neppure un narcolettico, di fronte allo spettacolo di arte varia di questi due interpreti. Guardando, ascoltando questa pièce, anzi, vivendola dalla parte della platea, non si può non essere visitati da una nuova, necessaria, rinvigorita intuizione della commedia, della sua ragion d’essere. E’ tutto un valzer di sorrisi, di risate; una gioia della vita che trova la sua cerimonia, sacra e umanissima, sul palcoscenico. Il Komos, la radice della commedia, l’euforia, che accompagnava le antiche cerimonie per celebrare la fertilità della terra, e per estensione, il rinnovarsi di ogni forma di vita, torna a farsi sentire come canto libero e selvaggio, come forza motrice. Signore e signori, ecco nuovamente che la vita, in tutta la sua tridimensionalità percettiva, si esprime sul palcoscenico come unicum.

Immagine de Il Maestro e Margherita
Ph Maurizio Anderlini

Al pari del fiume di Eraclito, travolge felicemente, con immensa freschezza e irripetibilità, gli spettatori. Si scorrono, idealmente, le pagine del libro: la Mosca stalinista degli anni ’30, la critica meravigliosa a quella distorta forma di materialismo storico fatto dalla magia nera, dall’abracadabra mistico, esoterico del diavolo Voland – che gioca con la bacchetta di una metafisica, molto fisica, prossima alla patafisica di Jarry-, l’umanesimo sociale di Gesù e persino di Pilato, l’amore invincibile, folle e delicato tra il Maestro e Margherita. Tutto questo vive, in forma di pellicola corporea, sulla scena. Posseduti non da un singolo demone, invero più prossimo al pungolante e stimolante daimon socratico, ma da una intera legione, si cambiano il vestito d’anima dei vari personaggi, con la velocità e destrezza di un Fregoli, o di un contemporaneo Brachetti. E sudano: prova scientifica, inequivocabile, di uno sforzo continuo, tentativo di trovare un motus perpetuus in grado di sfidare qualunque attrito.

Coprono, con i propri fonemi, le latitudini degli italici idiomi, e di quelli stranieri. Il momento di divertita, e divertente, metateatralità dello spettacolo del diavolo potrebbe essere una lectio magistralis su come costruire una scena comica, avendo solo i propri corpi a disposizione. Ecco il patto di fruizione, il cortocircuito semantico, voluto, di una comicità irresistibile, con mani che portano la loro evidenza di essere solo mani, e, contemporaneamente, qualcosa di altro, come le pipe di Magritte. Mentre l’assistente, in grammelot ispanico, gioca con gli spettatori con la forza di un fiore che, semplicemente dagli occhi, viene, a un tempo,  visto, toccato e odorato. Come vive questa vita scenica, come lo fa bene, gustandosi lo stesso banchetto rimpianto dal buon Rimbaud, un banchetto  cui sono caldamente invitati a partecipare gli stessi spettatori. La voce calda, suadente, soffiata, del Mastroianni felliniano risuona, qui, come un’intenzione sottesa a ogni battuta e gesto: la vita è festa, viviamola insieme.

Immagine de Il Maestro e Margherita
Ph Maurizio Anderlini

La magia del diavolo di Bulgakov  diventa, qui, la riscoperta dell’irrazionale, meritata irrisolvibilità dell’equazione umana; del raccontarsi, senza sconti, senza infiorettature retoriche da laringi bronzate,  dell’essere umano, nella sua gioiosa assurdità. Chiara Sarcona è, letteralmente e prirandellianamente, una, nessuna e centomila: si dimostra, in scena, creatura proteiforme, prisma attraverso cui la luce del testo, rifrangendosi, si moltiplica in tutti i colori delle anime dei personaggi interpretati. E quella voce, leggermente grattata, che porta su di sé gli odorosi e tattili grumi di una pittura materica, si piega con la naturalità di un esercizio di ginnastica artistica, per entrare perfettamente nel vestito di ogni figura. Sacerdotessa della comicità, Pizia di un Apollo in alcolica licenza poetica, fa del suo corpo la moltiplicazione dei suoi fonemi, e della sua presenza fisica una monumentale scenografia. Ha duende, carattere, spirito in sovrabbondanza, da dividere con la platea.

Nicola D’Emidio, zanni in trasferta moscovita, diavolo biomeccanico, tratta gli sguardi come cosa salda. E timbra, marca anche il più piccolo suono, per mostrarlo agli spettatori con la stessa meraviglia di un bimbo che si accorga di un cristallo di neve, visibile, sulla manica del cappotto. Con la grazia innaturale del Nijinsky di Battiato, si muove sulla scena componendo  curvilinei quadri di Kandinskij. La sua bacchetta magica è fatta di due mani che danzano, come meduse oceaniche. Mentre il regista, Mario Gonzalez, riesce a rendere visibile un lavoro di rifinitura portato avanti con la dovizia dell’artigiano orafo. Il tempo dello spettacolo non è quello cronologico, ma quello cairologico, qualitativo, delle buone occasioni, in grado di allungarsi, rendendo ogni singola risata una presa di coscienza, che rende il qui-e-ora fecondato dalla consapevolezza. Non se ne dispiaccia, Cartesio, del fatto che il suo cogito ergo sum venga, qui, definitivamente emendato nel più spontaneo rideo ergo sum.

Immagine de IL Maestro e Margherita
Ph Maurizio Anderlini

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Caligula’s party – Recensione Teatro

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Immagine di Caligula's party
Ph Marcella Foccardi

Nell’ambito della stagione 2023/2024 del Teatro Elfo Puccini vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Caligula’s party. Lo spettacolo è liberamente ispirato a Caligola di Albert Camus. Creazione e performance sono a cura di Chiara Ameglio. La drammaturgia è firmata da Aureliano Delisi. Ha collaborato alla creazione Marco Bonadei. Le musiche ed il progetto sonoro sono curati da Gianfranco Turco. La voce di Caligola in epigrafe è un dono di Ferdinando Bruni.

C’è un’intuizione potente, dietro questo spettacolo: unire una danza, libera, dito medio tersicoreo contro tutte le comfort zone teatrali, e la figura del Caligola di Camus. Entrambe le esperienze partono dall’assunto che si debba trovare l’assoluto immediatamente nel corpo, un’estetica fatale, una bellezza che porta con sé i germi della criminalità. Ecco che, allora, la torsione del corpo stesso, i suoi spasmi, le sue dinamiche alla ricerca di spazi non euclidei sono il tentativo di far dinamitare la semantica, di aprire alla carne un varco di luce, fosse pure quella di Lucifero. E si presenta così, Chiara Ameglio, in scena: creatura d’ombra, mossa da spasmi, da un’elettricità che scende giù, giù, lungo le vertebre della scena, per animare, via via, questa sposa di Frankenstein che sputa in bocca al cielo, e uccide i chiari di luna meglio di Marinetti.

Lo fa con un taglierino con cui offre la sua virilità surrogata di due molli palloncini, sacrificati come, un tempo, i mandarini, in segno di assoluta fedeltà all’imperatore. Questo corpo che, di quando in quando, si fa voce fassbinderiana più fredda della morte, catturato nella sua danza di thanatos e  potere, sembra una mutazione, una figura deformata di Bacon, irresistibilmente inquietante. Possiede anche l’essenza di una figura asciutta, sacrificata della pittura di Schiele, che incontra il pop del Novecento, i fumetti di Lichtenstein, e il blu libertario di Klein, adattissimo per gli appetiti, al di là del bene e del male, di Caligola. Ma sa sorprenderci la protagonista, e si siede beckettianamente sulla scena, come una crudele Winnie, una miss Hyde del teatro dell’assurdo, che, insieme a un panino, consumato nel più assoluto silenzio, mangia la Poetica di Aristotele e tutte le regole del teatro insieme.

Immagine di Caligula's party
Ph Marcella Foccardi

Ci tiene lì, nell’imbarazzo di uno sguardo in camera fissa, e, meravigliosamente, si ha la sensazione che i due poteri, quello dell’interprete e quello dell’imperatore, si possano sovrapporre. Allora il disagio diventa un’esperienza vivificante, da cinebrivido: lo schiaffo di una mistress che, con lo sguardo, ci chiede se ne vogliamo ancora. Intanto dei palloncini , dipinti idealmente di nero da una silenziosa voce di Mick Jagger, sono i sozzi bubboni manzoniani, sono simboli di un potere che produce globuli neri, uteri oscuri, o gravidanze isteriche di utopie, di esseri umani che vengono fatti letteralmente esplodere in un oplà. Non se ne abbia a male la Bertè, ma disperatamente vuole la luna, questo imperatore, dionisiaco per necessità, apollineo per distrazione. E vederlo inseguire l’ombra è, insieme, qualcosa di poetico e crudele. Da qualche parte, nel più remoto nord della platea, potrebbero spuntare gli occhi sfavillanti di Artaud.

Lo si scopre nell’atto di certificare una crudeltà che abbia, finalmente, il coraggio di gettare secchiate di vernice sulle visioni di palcoscenico predigerite. E poi ci sono le ombre, e che ombre. Vediamo, sul fondale, crearsi la figura oscura di un corpo fatto di realtà aumentata, cui proprio non gliene fotte nulla di uscire dalla caverna di Platone; anzi, diviene ombra esso stesso, per fare della menzogna la più vera delle verità. E’ fatale, a questo punto, che sotto la lama, la lingua appuntita mostrata come per un Einstein truccato da strega macbethiana, cada anche la membrana della quarta parete. Basta un “luci in sala”, per avvertire, in platea, quel brivido caldo di confusione che fa arrossire. Si realizza il miracolo, o, meglio, l’essenza della teatralità, costituita, nei suoi momenti migliori, proprio dal desiderabile pericolo di essere, letteralmente, toccati dall’interprete. L’ipoteca tattile è lì, sospesa, come una spada di Damocle, sulla testa.

Immagine di Caligula's party
Ph Marcella Foccardi

E’ una siringa infetta attaccata ad un chewing gum, che una luce al neon sta facendo sciogliere. Provoca, urla, taglierebbe la gola persino ad Occam col suo rasoio, pur di raggiungere la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Di nuovo il potere, di nuovo l’immagine sovrapposta del potere illimitato esercitato su di una reggia, o su di un palcoscenico. E avere il microfono di Caligola è un po’ come stare dalla parte giusta di un dialogo socratico: significa mettersi il cappello del berretto a sonagli, bonificato dall’ironia pirandelliana, ma sporco di luce rossa, di sangue elettrico. Verità o fantasia? Si tratta di immaginazione sadica offerta per la catarsi di tutti noi, per la nuova ed eterna alleanza con gli spettatori. La protagonista intona, con il corpo e con caustici fonemi, per un’ora, la sua personalissima versione di Master and Servant dei Depeche Mode.

Ci immagina, caligolianamente, tutti ai suoi piedi, mentre lei ci tratta come cani, e ci ordina di adorarla. D’altra parte, each men kills the thing he loves; lo dice Wilde, e lo ribadisce Fassbinder, attraverso la malinconica voce di Jeanne Moreau. E, tra un abbraccio e un deliberato soffocamento, c’è giusto lo spazio di un vertiginoso senso di libertà. Non c’è alternativa all’adorare questa creatura, che si ricopre con la vischiosa pece dell’assoluto. Sì, perché alcuni dèi, ormai, si devono essere rotti il collo sulle scale “Euripide”, quindi non rimane che incarnarli. Appare, perciò, una Venere callipigia molto punk, irriverente e transgender quanto un personaggio di Copi. L’ultimo testamento verbale dello spettacolo suona come il lamento feroce di Flaubert, solo che qui, a vivere per sempre, non sarà Madame Bovary, ma quella puttana di Caligola; mentre noi spettatori moriamo, portandoci in tasca la preziosa luce oscura di questo spettacolo.

Immagine di Caligula's party
Ph. Marcella Foccardi

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Amiche – Recensione Teatro

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Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Amiche, con Daniela La Pira e Chiara Malpezzi. Il testo e la regia sono a cura di Sergio Scorzillo.

Dove guarda l’attrice, mentre mastica pezzi di cuore, con il retrogusto di un’erba amara? Deve essere stato questo l’interrogativo del regista,  mentre impostava le due donne, deliziosamente coinvolte in un passo a due verbale. Quell’altrove, quel punto al di là di ogni possibile platea, quell’invisibile  centro di gravità che attira gli occhi felini, è il rito di passaggio, il superamento della carne, della barriera del dicibile; zona di struggente nostalgia che precede, o forse segue, la nascita di un personaggio, e, più generalmente, dell’essere umano. Sono terribilmente liquidi quegli occhi, e hanno i riflessi di certi ostinati raggi primaverili su specchi d’acqua che, sul tremulo orizzonte del ricordo, faticheresti a ricordare se hai davvero visto, o solo sognato. Ecco, dunque, l’intuizione improvvisa, l’acqua fredda in grado di risvegliarti i sensi: si tratta d’anima, in questa pièce. Si è, idealmente, in un interno tutto fatto di interiorità.

Il montaggio stesso, felicemente cinematografico, vale a testimoniare il tempo non più cronologico, ma cairologico; ricostruito dalla coscienza nell’argomento, nelle sovraimpressioni, nei salti in grado di plasmare, come un demiurgo, l’istante. Nella camera oscura psichica, si sviluppano queste eccezionali fotografie di esistenze declinate al femminile. Sono istantanee, nell’album di famiglia impresso sulle retine della platea, che bruciano letteralmente di sentimento, crepitando. Alcune battute, incastonate in preziosi monologhi, sono il dito bagnato che scorre sul bordo di una flȗte di cristallo;  hanno l’odore dell’anima, inconfondibile, che ti sale su per le narici come un potente mentolo, in grado di stordire quel senso. La vicenda è ambientata nell’inquieta Dublino degli anni ’80; il Peter Falk del Cielo sopra Berlino direbbe: “Era a Dublino? Ma sì, non fa differenza, è capitato.”  La vera geografia della storia è tutta costruita nell’anima. Vivono in scena la debole e la forte, il clown bianco e l’augusto.

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E ancora, lo spirito apollineo e quello dionisiaco, Edith e Helen: ecco la sempiterna diade, all’imperitura, travagliata,  ricerca della propria identità attraverso quella opposta. Seguendo Lacan, il desiderio è sempre il desiderio dell’altra; stavolta non è scritto sul tram, ma in certi sguardi reciproci, in certi sovrappensieri. In un mondo di uomini dalle mani troppo ingombranti e rudi, è meglio, per una donna, permettere che sia un’altra mano femminile a toccare il baco da seta della propria anima. In questa educazione sentimentale rimasta sospesa a metà, la timida e fragile Edith diventa uno specchio per la volitiva Helen, in un gioco delle parti che si fa osmotico, e in cui, con spirito bergmaniano, la persona è una continua dissolvenza incrociata tra un volto e l’altro. Se si vuole conoscere l’essere umano, questa è la lezione di psicoterapia ben adottata dal regista e autore Sergio Scorzillo.

Bisogna mettere uno specchio di fronte a un altro specchio: una donna di fronte a un’altra donna, una profondità di strati di fronte a un’altra profondità, un gioco di identificazioni che si perde, e si ritrova, nell’orizzonte della propria coscienza. I riferimenti al cinema non sono casuali, dal momento che il regista costruisce campi e controcampi; attimi d’ufficio, di vita, di intimità che sono la parte fondante nel montaggio esistenziale. D’altronde, era il buon Hitchcock ad affermare che il cinema è la vita, con tagli di pellicola nelle parti noiose. Ma c’è molto di più, qui. C’è la volontà, perfino superiore a quella di un febbricitante Fassbinder, di restituire il mélo in purezza, il cuore esposto nella sua verità, così com’è, con tutta la sua voglia di essere, le sue titubanze, i suoi pianti, i suoi sorrisi, i suoi pianissimo

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Gli stessi  fanno da contrappunto ai momenti in cui il pedale di risonanza del piano è pigiato con decisione, e le dita tuonano sulla laringe con una forza invincibile. Tutta la maestria del regista e delle interpreti si gioca su questi dialoghi, in cui le parole sono solo una parte minimale dei significati. La parte maggioritaria è nascosta in quegli spazi interstiziali, in quelle incolmabili fenditure, quei sovrappensieri, quei gesti nervosi e improvvisi che spezzano il tempo, che ne sono la sincope. E ancora, in certi fonemi c’è tutto lo scavo archeologico dell’anima dei personaggi. Ascoltare certe battute obbliga a sorseggiarle, come potrebbe obbligarti a farlo un vino fortemente tannico, strutturato, che deve far conoscenza del gusto, che non può e non deve essere frettolosamente rovesciato nella gola. Un meritato plauso va certamente alle due interpreti, che hanno costruito una partita serratissima di parole, un concertato di gesti, di canti e controcanti.

Daniela la Pira è una Helen dal carattere forte come certi whiskey che sorseggia, con l’abilità di far sostare per un po’ le battute nel ventre, prima di tirarle a lucido sulla carta vetrata della  laringe. Ma, quando mostra la sua fragilità , allora ti sembra di ascoltare il fruscio di certi tessuti di seta contro mobili antichi. Chiara Malpezzi è Edith: impiegata prossima, inizialmente, al rifiuto di vivere di un Bartleby melvilliano, scopre, come Ciàula, la sua Luna. I suoi fonemi  si mostrano prima inamidati, rigidi, per poi sbocciare come fiori davanti alla platea. Anima fragile, tormentata da un super-io freudiano molto cattolico e parecchio materno, trova il suo es nell’amica, e ci racconta, con l’amica stessa, le molteplici stagioni dell’anima.  Sergio Scorzillo  ci mostra tutte le occasioni di luce, e tutta la nostalgia per la sua mancanza, dentro la tenera notte di Fitzgerald dei due personaggi.

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Sinfonietta alcolica – Recensione teatro

in Teatro
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Nell’ambito della rassegna teatrale di Après-Coup, vi presentiamo lo spettacolo Sinfonietta alcolica, Omaggio ad Angelo Maria Ripellino nei cento anni della sua nascita 1923-2023, Recital in nove brindisi, con Alberto Astorri. Il progetto è curato dallo stesso interprete.

Come Lautremont è stato liricamente, esteticamente, affascinato dalla retrattilità degli artigli degli uccelli rapaci, io son stato letteralmente conquistato, ipnotizzato dal muscolo opponente del pollice di Alberto Astorri, che guizzava, trattenendo una spada posticcia. Come un misuratore emotivo di precisione, ha segnalato tutti i meravigliosi fuori scala dionisiaci di questa recitazione. Andrebbe chiamata in causa la teurgia, nel caso di questo interprete; la cerimonia brasiliana di Candomblè,  in cui i partecipanti/officianti, attraverso una danza frenetica, hanno la capacità di “indiarsi”. Ecco il corpo perfetto evocato da Artaud, la carne fatta anima salda, la laringe vibrante composta da tutto il corpo. Gustare questo interprete in scena equivale ad assistere a un’opera panica, alla volontà di schopenaueriana memoria, che spernacchia in direzione delle più stantie metafisiche. Guadagna la scena vestito come un direttore circense di oscuro paesino della Serbia, e apparentato, cromaticamente e nelle forme, a un personaggio dei quadri espressionisti.

Se osservate attentamente, come nella foto finale di Shining, lo vedrete giusto a un passo dall’entrata del Cristo di Ensor a Bruxelles. Vero e tonitruante come la bestemmia di un prete scomunicato, ha più forza un suo singolo fonema, anzi, prima ancora, un suo suono preverbale che tutta la Summa Theologiae di D’Aquino. Il suo disperato e, insieme, titanico omaggio è dedicato ad Angelo Maria Ripellino, al suo amour fou  per il teatro, per l’avanguardia russa, per una poesia altamente caustica, in grado di far felicemente piagare in stimmate esistenziali anche l’anima più algida. Diventa uno Sturm und Drang a tasso altamente alcolico, una tempesta di umori sublimati nell’angelo, in grado di riscattare anche la più oscura madame pipì del bagno pubblico di una stazione polacca di Katowice. Tempesta foneticamente, sussurra e grida come un Bergman in piena crisi nietzschiana.

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E sa tirarti fuori da quel ventre, da quella gola bitumata e asfaltata da qualche blues di Tom Waits, certe carezze bastarde che ti fanno un male cane, e che ti chiamano, dagli antri del perduto essere, le lacrime maggiormente saline. Mentre ingolla screwdriver sbagliati, che hanno abiurato l’arancia in favore della vodka in purezza, ti sembra di vederlo trasumanare in Oliver Reed della Brianza, molto più velenosa di quella di Battisti. Sarebbe pronto all’ennesima, fatale sfida a braccio di ferro con i suoi marinai in un pub di Malta, al pari dell’attore inglese, fino all’estremo sussulto diastolico e sistolico;  con i suoi appuntiti baffi alla francese, come due lancette spioventi dell’orologio, sembra una creatura biomeccanica, in grado di unirsi, in una fusione a livello genetico-molecolare, col più ansante, iperattivo, felicemente ispirato Balzac. Lui le parole non le recita, lui è la parola.

Vive quella più sacra e, insieme, più oscena, pronunciata dal sommo sacerdote nel sancta sanctorum. Non si limita a recitare, fa molto di più: si fa calligrafia di carne, abita il suo satori. Quando cade in scena, stremato dalla fatica sisifesca del verbo, insieme a lui cadono corpo e mente, cade l’illusione dell’ego, e tutto è esattamente ciò che è, disvelato in remissione della platea. Muore per rinascere, come l’eterna fenice. Se bisogna ascoltare il consiglio dello scrittore John Fante, e chiedere la verità alla polvere, il consiglio spassionato che do è interrogare quella smossa da Astorri su tutti i palcoscenici in cui ha bruciato, come i replicanti di Blade Runner, la fiamma da entrambe le estremità della candela. E anche sullo stelo, mi verrebbe da aggiungere. Con lui, Ripellino è restituito nell’atto stesso della scrittura poetica, anzi, di più: nelle scosse esistenziali, nel di dentro, ingorgato come un maelstrӧm, del poeta.

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Restituisce tutta , ma proprio tutta, la vivacità cromatica, la potenza – insieme, tragica e lisergica –  di un verbo che apre le porte della percezione. Corre insieme alla parola, corre con il fiato di tutti gli uomini che sono stati, che sono e saranno; corre per vincere in velocità i significati, per doppiarli, per trovare quelle incolmabili fenditure, quei momenti sudatissimi e meritatissimi di pausa, in cui ti verrebbe da domandargli quali dèi invisibili stiano osservando le sue pupille. Incarna la nostalgia della luce che può provare un Lucifero, e quanto il cerone del clown sia la farina di Eschilo e, insieme, quella di Tony Montana, che vede i cespugli della sua Dunsinane hollywoodiana muoversi, per la sua ineluttabile disfatta.  Ma, soprattutto, la incarna quando si camuffa nel finale, quando diventa la maschera definitiva di tutti gli Zanni.

Fa rivivere, con l’elettricità esoterica e metafisica di un Dottor Frankenstein, gli Sganarelli che si sono fatti deragliare la mandibola, a furia di piangere risate. Sono creature dolcissime in questi momenti, in cui si trovano a mezza via tra se stessi e gli altri da sé. Ha qualcosa di veramente sacro anche la più dozzinale maschera di gomma; ha il senso di compassione per tutta la tragicità della coscienza che la indossa. Ci si accorge dell’ultima verità, la più preziosa. Si avverte il canto d’amore estremo  nei confronti del teatro, l’amore invincibile per il proprio terribile carnefice, con l’abbraccio della fatale sindrome di Stoccolma. Nella struggente, tragicomica, esitazione nell’uscire dalla scena, oltre la delizia di quella che Tofano chiamerebbe la più riuscita  padovanella, si consuma, per tutta la platea, il commiato eterno, il  fermo immagine fatale di un amore che ancora vibra e brucia: un eterno severiniano nascosto alla vista, ma, per sempre, essente in tutti gli spettatori… applausi!

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