Tag archive

teatro

Tip Tap Story – Recensione Teatro

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo tip tap story

Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Tip Tap Story con Luca Mattioli, in arte Lukelly, la regia è curata da Sergio Scorzillo.

Parlare in scena di tip  tap, fatalmente, diventa farlo, come se si accumulasse una sorta di carica elettrica, energetica, in corpo, o meglio un surplus di anima che deve necessariamente vivere in un ritmo, scaricarsi in quel suono, che fa del piede bacchetta, e del pavimento pelle di tamburo. Tutto questo il protagonista di questa pièce, Luca Mattioli, in arte Lukelly, lo sa bene, e si presenta in scena in punta di piedi, con cuore leggero, pronto a farsi tutto questa danza, capace di sommare al suo interno, le latitudini dei ritmi africani e la debordante gioia del clog irlandese. Sarà per questo che, assistendo ad una perfomance di tip tap, ci si sente trascinati da un vortice di emozioni forti, di sorrisi capaci di far piegare le labbra in una curva gentile, anche all’esistenza più seriosa ed austera. Ci si sente, dalla parte del pubblico, una sorta di Arianna.

E, proprio come lei,  ci si ritrova travolti dall’onda coreutica di Bacco e del suo seguito. E lo swing è dato da quel ritmo, quel ticchettare dei tasti di un’umanissima macchina da scrivere sopra il foglio bianco del palcoscenico, di questa irresistibile, e faticosissima, danza. Ecco, muovere i piedi equivale qui a scrivere un racconto, dando al proprio creare lo stesso fraseggio emotivo che si sta costruendo, si viene a creare un’affinità elettiva tra il piede ed il pavimento, un gioco fatto di presenza e di assenza. Tutte le filosofie, tutti i possibili mondi sono compresi in questo gioco, c’è la fisica e la metafisica, c’è l’immanente e il trascendente; questa certezza vive in certi salti dove persino la forza di gravità smette di essere una costante, e diviene una semplice possibilità. E’ una pioggia di percussioni, la stessa pioggia  che scorre sul fondo della scena, di fronte al memorabile danzare di Gene Kelly, che canta sotto la pioggia.

Immagine della recensione dello spettacolo tip tap story

Sembra, e la pellicola trasforma, in effetti, il sembrare in essere, che non ci sia stato un prima o che non ci sarà un dopo, ma che, tolto pezzo a pezzo tutto il possibile passato e tutto il possibile futuro, rimanga un incorporeo, eppure vivissimo, presente di quella coreografia così necessaria, così irresistibile. Diventa il modo più diretto, più immediato, di esprimere una potentissima joie de vivre, in un rito di vita che ne esprime l’essenza. Il protagonista non può far altro che riprodurla consumando, spremendo letteralmente il suo corpo, goccia di sudore dopo goccia; e con la fronte rorida, rubando come un ladro galantuomo, anche l’aria che non c’è, per i sui generosi polmoni, sorride con amorevole gentilezza ai capitali generosi di applausi del suo pubblico. Scrivo “suo” perché diventa suo, viene portato in una sorta di stato alterato di coscienza, di ipnotico rito sciamanico.

Questo atto è in grado di piegare il tic tac del tempo nello spazio incurvato, non euclideo, del tip tap. Ma Lukelly, parla, introduce, e il suoi fonemi sono una luce che non ferisce gli occhi, una di quelle luci che si fanno d’atmosfera, come se sulla sua laringe mettesse un delicatissimo foulard. Nessun bronzo nella sua voce, solo la volontà di esprimere, a parole, i segni di questa sensazionale passione, mostrando spezzoni di film, ballandoci sopra in un una sovrapposizione stupenda. Le ombre diventano cosa salda, persino quelle plumbee e tristi della caverna platonica si mettono a fischiettare, a tippettare. Gioca con un bastone, una bacchetta delle magie di Cotrone, che qui diventa un modo di creare una coreutica punteggiatura. Il regista Sergio Scorzillo, presente in scena come “deus in machina“, per organizzare tutta la téchne di questo spettacolo, guarda con fascinazione la sua creatura.

Immagine della recensione dello spettacolo Tip Tap Story

Osserva, con la purezza dello sguardo d’un bimbo, questo teatro danzante così antico, eppure così vicino a noi, fino a diventare un’arteria del nostro stesso cuore. Riesce a regalarci la felice intuizione di aver voluto concentrare  tutto il rito sul coro, ovvero sul corifeo e sul ritmo con cui entra in scena, anzi con cui è in scena. Parla, interagisce, si fa ponte tra il palcoscenico e la platea. Ha mani generose, robuste, mani da esperta levatrice in grado di cavar fuori le migliori anime dei personaggi. Oltre a regista, potrebbe tranquillamente essere considerato primo spettatore di questo spettacolo. Indica la via per vivere, letteralmente, una sorta di educazione sentimentale, di flaubertiana memoria. Incarna la visione di un monologo ballato e ballante, nel quale le parole, compreso il loro formarsi, il battere della lingua, ora sul palato ora sui denti, trovano la loro catarsi, la loro forma finale, nel battere la punta e il tacco dei piedi sul pavimento. E’ inevitabile, come la risoluzione di una formula algebrica, che questa danza faccia sbocciare fiori di gaiezza sia sul viso dell’interprete, sia in chi lo guarda e lo ascolta. Nel tip tap l’interprete diviene una sorta di boxeur che assalta, con tecnica, con pugni di piedi gentili, che vola al pari di una farfalla, e punge come un’ape, come ricorda, il pugile Muhammad Alì/Cassius Clay. E l’avversario di sempre è l’eterna terra che abbiamo sotto i piedi, sempre idealmente da dissodare, da adattare a pavimento sul quale poter camminare, da compattare, da stimolare, come fa un gatto col suo pigia- pigia sulle mammelle della mamma gatta. Tutto questo miracolo accade nei piedi del protagonista che smettono di essere dei semplici piedi, e diventano le bacchette di legno nelle mani esperte di un batterista jazz, il quale sa che è arrivato il momento del suo monologo. Applausi.

Immagine della recensione dello spettacolo Tip Tap Story
Ph. Massimo Mancini art director

Se questo articolo è stato di vostro interesse, vi invitiamo a leggere gli altri, che troverete nella sezione teatro, e le altre recensioni presenti sul nostro sito. Non scordate, inoltre, di ascoltare i nostri podcast per approfondire la conoscenza del vasto mondo teatrale.

Mater – Recensione teatro

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo Mater

Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Mater. Il progetto drammaturgico e la regia sono curati da Mino Manni e Marta Ossoli, con il contributo di Fabrizio Kofler. L’interprete è Diana Ceni.

Diana Ceni ha un sorriso che vale tutta una summa theologiae; ha un quarto di luna appoggiato sul viso, a illuminare la notte della coscienza. Sorride, e l’orizzonte di quel sorridere è quasi metafisico. Sembra un’illuminazione interiore, stato dell’essere che filtra da un pertugio, facendo venire voglia, allo spettatore, di aprire quella porta, per vedere pienamente la luce. Quell’incurvatura ha qualcosa di dostoevskjiano, di mariano: emana una misercordia, un senso profondo di compassione per l’altro da sé.  Era fatale, sillogisticamente sicuro, che, prima o poi, da attrice, si confrontasse con l’archetipo della madre, della Maria evangelica. Ma, qui, non incarna una Madonna qualunque, un ritrattino agiografico, di fronte al quale appoggiare un lumino commemorativo; piuttosto, un personaggio con il codice genetico emotivo, psichico, spirituale che potrebbe appartenere a una creatura testoriana. Ѐ soprattutto carne, carne mischiata, fatalmente impastata e indistinguibile dal vento dell’anima che la agita.

E il dolore nelle viscere è più vivo; si amplifica come un requiem, come un’opera sinfonica suonata da tutto il corpo, che si torce, si piega, divenendo calligrafia della sofferenza, frase esistenziale grassettata che arriva, come una freccia, dritta dritta fino al cielo, per farlo sanguinare. La madre del dolore si alterna, meravigliosamente, con quella della tenerezza riservata al bimbo in fasce. In un tempo che non è più cronologico, ma è quello della memoria interiore, che fa andare, a suo piacimento, avanti e indietro la pellicola dei fatti, presente e passato si sovrappongono, come momenti della stessa coscienza, e l’ideale madeleine proustiana consumata dalla protagonista sa, terribilmente, di sale. L’azione è portata nella cascina, nella verità di un quarto stato concreto, vicino alla terra più del Calibano de La Tempesta di Shakespeare.

Immagine della recensione dello spettacolo Mater

In un grammelot evocante i sapori dei paesi che sfilano lungo i finestrini delle Nord, quando ancora ci si sedeva sul duro legno, la madre pare uscita dal pennello rabbioso di un pittore naїf, e incarna, con crescente intensità, il ruggito della tigre di Ligabue. Ascoltando questi fonemi così materici, così fantasticamente modellati sulle emozioni loro genitrici, si è presi da una sorta di incantamento, di allucinazione olfattiva. Sembra quasi di poter sentire gli odori rurali, dell’aia, delle bestie che alitano, combattendo, con la coda, i tafani nella stalla; ma anche l’odore dell’aria che si lascia contaminare dalla terra, creando la metafora perfetta dell’essere umano, lì, nell’impossibile via di mezzo tra la materia e il cielo. E poi c’è l’urlo, fatto di assordante silenzio, in cui mandibola e mascella lottano per rompere le catene che le tengono unite.

Impallidisce, l’Urlo di Munch, di fronte al dolore di una madre che perde il figlio, e che diventa tragica poesia. D’altra parte, è stata la poetessa Alda Merini a ricordarci che il motore della poesia avviene da questo straziante strappo. La Sindone espressionista, impressa su di un telo, lascia esplodere i suoi colori fatti di terra e di sangue raggrumato, traducendo in forma visiva il bachiano Vangelo secondo Matteo (parte, fra l’altro, della colonna sonora dello spettacolo). Diventa impronta non solo di un corpo, ma di una sofferenza, che, per rendere pienamente l’idea di sé, si fa tanto cosa sensibile, uscendo dal territorio linguistico, quanto traccia tangibile, annunciandosi agli spettatori in tutta la sua tragicità. La Passione è già avvenuta, il rovesciamento dell’antico dramma si è compiuto; a sigillo di ogni possibile tragedia, qui è il dio a sacrificarsi, chiudendo i conti con la dike.

Immagine della recensione dello spettacolo Mater

La divinità si è carrucolata in scena fin dall’inizio della vicenda, e chiede all’essere umano di diventare il nuovo deus ex machina. Mentre la madre diventa tutta un cuore dolorante; perfino l’anima si fa muscolo cardiaco. E tra gli atri ed i ventricoli, in quell’ambiente  perennemente umido di sangue, si ramificano nervi, che regalano un secondo cervello, una seconda mente a questa palpitante creatura. E questa ragione cardiaca non solo non è conosciuta dall’altra ragione, a più alte latitudini del collo, ma nemmeno da Pascal stesso. Diana, inoltre, in certi momenti, per utilizzare un’espressione dantesca, sembra letteralmente trasumanare; come posseduta da un daimon, entra in trance, e si ha la netta sensazione che parli sotto la dettatura di un invisibile angelo dionisiaco. In quei momenti, i suoi occhi sono illuminati da una luce del tutto particolare e unica, mentre la carne si fa marmo della poesia.

E quanto i suoi respiri sono essi stessi musica, anzi la sua più alta espressione, come tacet presenti sullo spartito del copione. E’ come se trattenesse nei polmoni il tempo suo e degli spettatori. Ansima l’attrice, fatica, ma sempre con gioia e serenità; si lascia attraversare da questa corrente impietosa e tumultuosa, abbandonandovisi con la grazia angelica di un’Ofelia adagiata nel suo letto liquido. Trasforma il sudario nelle fasce di un bimbo, e poi nel tableau vivant della Pietà michelangiolesca. E c’è buono, come canta Mina, che al momento giusto sa diventare l’altra, e abbraccia selvaggiamente, con la sua voce, con il suo sguardo, l’intera platea. E alla fine torna, sui generosi applausi, quel sorriso che si mangia tutto il mondo in un boccone, che è tutto il senso di una vita, al pari del fiore di Loto mostrato dal Buddha, come miglior risposta a qualunque dubbio.

Immagine della recensione dello spettacolo Mater

Se questo articolo è stato di vostro interesse, vi invitiamo a leggere gli altri, che troverete nella sezione teatro, e le altre recensioni presenti sul nostro sito. Non scordate, inoltre, di ascoltare i nostri podcast per approfondire la conoscenza del vasto mondo teatrale.

La Monaca di Monza alias Suor Virginia Maria alias Marianna de Leyva – Recensione Teatro

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo La Monaca di Monza

Nell’ambito della stagione teatrale 2022/2023 di PACTA. dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo La monaca di Monza alias Suor Virginia Maria alias Marianna de Leyva. La drammaurgia e la regia sono a cura di Annig Raimondi, che interpreta anche la parte della protagonista. Con lei, in scena, Alessandro Pazzi ed Eliel Ferreira de Solusa. Il testo comprende scritti di Manzoni, Diderot, Stendhal e Testori, nonché atti del processo.

C’è un’implacabile geometria di spazi e di luci, ad attendere lo spettatore. Un Mondrian essenziale, volto a carpire i segreti pitagorici, matematici di un’ineffabile vicenda umana. L’intuizione iniziale di questo spettacolo è, già di per sé, oltremodo efficace: lo spirito apollineo della scenografia e dell’illuminotecnica si incontra, e si scontra, con lo spirito dionisiaco, ovvero l’alta temperatura emotiva espressa nel processo della Monaca di Monza. il mos geometricus delle regie di Bob Wilson si fonde, felicemente, con la lava della parola testoriana. Nei fatali tableaux vivants che si formano, l’uno dopo l’altro, con precisione millimetrica, nell’ideale galleria pittorica di un martirio volutamente deviante e deviato, le parole della protagonista sfuggono dalla tela, la imbrattano, la tagliano, come rasoiate di un Fontana terribilmente inferocito. L’attrice usa il cappuccio come una maschera, o meglio come le maschere di un personaggio, ben al di la’ delle latitudini pirandelliane.

E, per scriverla alla Oscar Wilde, la verità è una menzogna che non è ancora stata scoperta. I volti, le espressioni, i toni della voce sono molto più che maschere: rappresentano le sovraimpressioni continue di una personalità, che scorre più fatale ed implacabile del fiume di Eraclito. Come la Regina degli scacchi, la Monaca si muove in ogni direzione, violando la severità geometrica dei passi e dei vettori. Il fondale diviso, in forma manichea, tra luce e ombra, tra puro colore e forma, sintetizza, anzi arriva a costituire, una panorama astratto, metafisico; esprime l’enigma di un essere umano in cui la cartina di tornasole del giudizio terreno, sia esso etico, giuridico o canonico, letteralmente impazzisce, mostrandoci ora il rosso di un ambiente acido, ora tinte bluastre di un ambiente alcalino. A Suor Virginia Maria viene, in questo lavoro, pienamente, visibilmente riconosciuta la patente di personaggio tragico, generato da un ideale Euripide.

Il destino la lega, e, con la stessa velocità, lei inganna i nodi che la stringono, giocando una partita contro la dike, l’antica giustizia divina, e tutt’altro che da perdente. Il processo ha tutta la parvenza di un tentativo di lunga seduta psicanalitica, in cui si cerca di arrivare all’impossibile inconscio della protagonista. Freud diceva che l’inconscio è quel signore davanti a me, di spalle, di cui posso vedere solamente la nuca; e non a caso l’attrice, durante il processo, dà la schiena ai suoi giudici, che non riescono a coglierne l’ineffabile essenza, e la condannano ad essere murata viva. Ma anche questo è un falso finale: la Monaca di Monza avrà il suo riscatto, e riuscirà, a distanza di anni, a farsi liberare. Ancora una volta dà scacco matto, o, almeno, arriva a patta con il dio della tragedia. La drammaturgia riesce a creare una riuscita policromia.

Immagine della recensione dello spettacolo La Monaca di MOnza

Si attinge ai colori storici del Manzoni, alla carne, febbricitante di passione, di Testori, ai paradossi attoriali diderotiani e alla profumata essenzialità stilistica di Stendhal. Annig  Raimondi, che cura anche la regia e la drammaturgia, è letteralmente un mistero che cammina, anzi, incede con solennità sulla scena. I suoi fonemi sono presi giù, nel profondo ventre di Gea; le sue parole, come le pietre di Meister Eckhart, sono Dio, ma non sanno di esserlo. Suona secondo tutti i registri, tutte le partiture di un personaggio che sfugge decisamente a qualunque categorizzazione. Annig suona la sua anima come farebbe l’orchestra psichica di Pessoa, donando una persona per ogni singolo stato d’animo. Alessandro Pazzi è un Vicario che domanda, interroga con la caparbietà e con la curiosità di un Orazio shakespeariano: e non può non concludere che c’è del metodo, in questa apparente follia.

Incarna, simbolicamente, una ragione che si sforza, invano, di sciogliere questa sciarada, questa irrisolvibile equazione umana. Eliel Ferreira de Sousa porta con sé, nell’accento latino, il caldo brivido di paura, prima di tutto fonetica, di un Inquisitore, di una legge che alza la voce perché, troppo spesso, è dura d’orecchi. Insieme, hanno la capacità di inserirsi nel paesaggio geometrico della scena, dove le luci battagliano continuamente con il buio, e scorrono sicuri, come le biglie sul tappeto verde di un biliardo. Nella distanza tra i personaggi che colonizzano ogni punto di questa scenografia, si giocano partite verbali incredibili, dove le parole descrivono curve, rotondità, cerchi dionisiaci, in grado di mettere in discussione continua la rigidità geometrica. Imperiale il momento in cui viene trasportata sulla sedia dotata di rotelle, metafora di una dea in machina: un destino diversamente abile, che si cerca, meccanicamente, di istradare sui binari del cosiddetto buonsenso, e della morale comune.

La vita, in questa Monaca di Monza, decisamente vive, dando mostra di sé e del suo cercarsi, trovarsi, inventarsi di volta in volta. Ora spaventata, ora severa e azzimata, ora combattiva e pronta ad infiammarsi, ora avvocatessa della sua causa, ora giudice: sempre, riesce a cogliere l’adesso, il singolo istante psichico del personaggio, Rispetto al basso continuo dei suoi interlocutori, esprime una melodia complessa, una fuga bachiana, un canone in cui le voci di una stessa coscienza si sovrappongono, per formare un coro tragico. Si staglia, unica ombra viva, di fronte a una moderna caverna di Platone; insieme apparenza e sostanza, oscurità e luce, che parla, nell’ultima fatale dissolvenza in nero alla platea, come essere vivo e vitale, in grado di aprirci varchi di dubbio e di emozione sincera . Sono tutti meritati i generosi applausi.

Se vi è piaciuto questo articolo, vi consigliamo la lettura degli altri che troverete nella sezione teatro e le altre recensioni presenti sul nostro sito. Non dimenticate inoltre di ascoltare il nostro podcast per approfondire i vari aspetti del mondo teatrale.

Sybil, Una donna divisa tra molteplici esistenze

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo Sybil
Ph Luca Meola

Nell’ambito della stagione teatrale 2022/2023 di PACTA. dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Sybil, una donna divisa fra molteplici esistenze. Dramaturg dello spettacolo è Livia Castiglioni. La regia è firmata da Silvia Giulia Mendola. Le interpreti sono Federica Bognetti e Silvia Giulia Mendola. La storia narrata nell’opera si ispira a un caso reale.

Il pensiero, decisamente, recensendo questo spettacolo, va a Pessoa, e a tutta la numerosa orchestra di eteronimi. Non di pseudonimi si tratta, ma veri e propri altri-da-sé, con la patente di riconoscimento di un personale pronome. Sybil, la protagonista di questo lavoro teatrale, incarna un autentico caso psicoterapeutico di personalità multipla: il primo che abbia permesso di cartografare questo fenomeno, e di inserirlo, a buon diritto, nel libro delle psicopatologie. Sybil è ben più di un’ Anna O. di freudiana memoria, Sybil incarna molti personaggi che vogliono obliare il loro autore. Corregge, idealmente, la frase rimbaudiana l’io sé un altro; in l’io sono gli altri, tutta la svariata gamma di embrioni di personalità che ognuno di noi si porta dentro. E’, dunque, fatale che  lo spettacolo si arricchisca di una dimensione profondamente metateatrale, entrando nel vero e proprio cuore di tenebra del lavoro dell’attrice su se stessa.

In quel magma ribollente di subpersonalità, fanno mostra di sé immagini archetipiche, tarocchi junghiani che vivono nella psicologia del profondo. La protagonista dimostra quanto sia vaga e, citando Hillman, vana la fuga dagli dèi, dal momento che questi ultimi sono più vicini a noi della nostra stessa giugulare; sono il nome donato a forze, energie psichiche che, altrimenti, agirebbero attraverso il codice cifrato dell’inconscio. E davvero, sfila davanti alla platea un intero pantheon di personaggi interiori che trovano domicilio in un singolo foglio. Sans papiers della coscienza vigile, clandestini nella terra che dovrebbe essere la loro patria, si raccontano con la struggente tenerezza di una foglia che per un lungo, lunghissimo, istante, prende coscienza della propria precarietà, nella terra autunnale della via verso la guarigione. Come HAL di 2001, queste identità hanno paura di svanire, di morire a se stesse e agli altri, hanno il fiore in bocca pirandelliano.

Immagine della recensione dello spettacolo Sybil
Ph Luca Meola

Chiedono alla psicanalista e, tramite lei, a tutta la platea, di contare i ciuffi d’erba fuori dal teatro, e di cercare di contarne molti, perché quello è il loro tempo di vita. L’intuizione eccezionale che si accende attraverso Sybil è che i personaggi sono animule vagule e blandule, sono delicati quanto bozzoli di seta, fragili e insieme forti, impermanenti quanto e più di noi; ma raccontano, come nessun’altra forza potrebbe raccontare, la poesia definitiva, che fa male, quella rosa che ha le spine, quel dolore che si sublima in un taglio nella tela del nero esistenziale, per lasciare uno squarcio di luce dell’altro, dell’indicibile. Nello scheletro di una stanza, che vagamente richiama un rompicapo irrisolvibile di Escher, avviene un dialogo socratico, in cui Socrate, la psicanalista, deve dismettere l’inamidato setting e cercare altre strade, altre parole per guarire la sua paziente. Questo è il bello delle storie psicanalitiche.

Come aveva genialmente intuito Mishima, questi racconti si candidano naturalmente ad essere delle storie noir, thriller, delle detective story, dove la verità si nasconde dietro il fumo di una sigaretta, si lascia inseguire, depista con falsi indizi, sfugge, si dimena, e poi, catarticamente, si scioglie in un abbraccio, facendo la pace con se stessa e con il resto del mondo. Il trauma che ha frantumato il cristallo dell’io è terribile, superiore a quello che la più cupa tragedia può nascondere dietro la parete della skenè. Gli anticorpi per un male assoluto non possono che essere radicali quanto lo è la malattia: e allora, ecco la fuga dagli dèi, il rocchetto di Hans che si moltiplica in più fili, nel gioco dell’avanti e indietro di molteplici personalità. Se l’io, come ricorda Freud, è un precipitato di cariche oggettive, ha già un’origine nevrotica.

Immagine della recensione dello spettacolo Sybil
Ph Luca Meola

Nasce da una frustrazione; a maggior ragione, ciò vale per gli ego nati allo scopo di sopportare un dolore intollerabile, che non potrebbe essere sorretto da una sola, fragile, identità. Silvia Giulia Mendola è una Sybil in stato di grazia, un essere proteiforme, che modella la sua anima su quella delle varie personalità, e non trascura alcun fonema, gesto, intenzione per costruire al meglio ognuna di esse. Silvia va dove non si tocca, e nuota meravigliosamente. Suona con maestria ogni strumento di questa particolarissima sinfonia interiore, e ha una speciale seta nei suoi sguardi, , così sottile e leggera che si ha quasi paura che basti un fiato, dalla parte della platea, a stravolgerla. Silvia ha certi occhi che ti abbracciano delicatamente, perché hanno paura di farti male; dice sì, come la Molly joyciana, alla vita di tutti i personaggi, e tutto questo si sente.

Federica Bognetti riesce a condurre se stessa e, insieme, gli spettatori, nel viaggio pieno di stupore e sgomento, che conduce, dal freddo approccio terapeutico della mente scientifica e speculativa, all’incontro che si contamina piacevolmente dell’irrazionale, che deve letteralmente inventarsi una via altra per trovare la soluzione dell’enigma. A poco a poco, spezza la sua verticalità, si piega, dando al gesto uno stupendo valore metaforico. Forma, naturalmente, la scultura vivente di una Pietà del Bernini, l’immagine corporea dove far traguardare questi torrenti impetuosi dei vari flussi di coscienza. I suoi fonemi hanno il tepore confortevole di certe mani femminili, capaci di cambiarti il colore dell’anima accarezzandoti appena il viso. La sua voce abbraccia la dimensione ventrale, è sicura e confortante: un mantra terapeutico che ti entra sotto la pelle, e che accoglie senza giudizio o senza incertezze. Gli applausi, generosi, sul finale dello spettacolo, sono tutti meritati.

Immagine della recensione dello spettacolo Sybil
Ph Luca Meola

Se vi è piaciuto questo articolo, vi consigliamo la lettura degli altri che troverete nella sezione teatro e le altre recensioni presenti sul nostro sito. Non dimenticate inoltre di ascoltare il nostro podcast per approfondire i vari aspetti del mondo teatrale.

Eclissi (e altre cose oscure) Recensione Teatro

in Teatro
immagine della recensione di Eclissi e altre cose oscure

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Eclissi (e altre cose oscure), scritto, diretto e interpretato da Alessandro Veronese.

Eccolo lì, Alessandro Veronese, con lo sguardo rivolto a qualche invisibile daimon, uno di quelli che anche Socrate preferisce ignorare. Sembra Bob Geldof nel film The Wall. Questa, ci dice idealmente, è one of my turns, quindi sarebbe il caso di tirare fuori, come Pink, la sua favourite axe dal cassetto. Ma le parole sono molto più affilate, e si prestano meglio a questo scopo. D’altra parte, sbucciando la cipolla dell’anima, prima o poi verrà da piangere, e ci si confronterà con la parte più interna, quella dal sapore più forte; chissà se tutto questo Peer Gynt lo sa, mentre sfoglia la sua  cipolla. Quello che l’interprete sa è di avere una storia, piuttosto caustica: ci si ustionano le mani ad ascoltarla. Non solo il sonno della ragione, ma anche la sua veglia forzata, le sue evidenti occhiaie, diventano mostri.

Sono fra quelle creature che, per quanto facciano orrore, non si può astenersi dall’osservare, proprio come se le nostre palpebre fossero bloccate, al pari di quelle di Alex durante il trattamento Ludovico. Gioca con Aristotele l’attore, si beve una birra bukowskiana con lo Stagirita, trasforma le proverbiali unità in un gioco delle tre carte, invitandoci a capire dove sia  la verità; ogni volta ci pare di saperlo, dalla parte della platea, ma quella carta sta sempre in un’altra posizione. Perché l’unica verità consiste in un immancabile asso nella manica, quello di una finzione pessoana, che finge il dolore percepito veramente. Poi ci sono gli occhi, a mettere le cose a posto: farebbero abbassare lo sguardo al dio della tragedia, e forse anche al dio della biomeccanica dei replicanti. Ti parlano direttamente nella testa, senza mediazioni.

immagine della recensione di Eclisse e altre cose oscure

Sono parole non più attutite da significati, sono struggente mancanza, sono un non essere che ha talmente voglia di essere, da mandare a carte e quarantotto il monologo di Amleto. Madamina, il catalogo è questo, verrebbe da pensare, sentendo sfilare le conquiste di questo Casanova di qualche periferia testoriana; ma qui è già accaduto tutto, siamo già oltre il finale dell’opera, la statua del commendatore ha già trascinato il seduttore all’inferno. Peccato che quell’inferno bruci molto meno, rispetto a quello che viveva già dentro di sé. Qui la seduzione ritorna al suo significato originario: è un se – ducere, un tentativo di condurre a sé, di non accontentarsi dello specchio dell’altra, ma di mangiarne l’anima, perché diventi quella che ci manca. E poi l’intuizione, in questo srotolarsi di verità scomode, di nodi esistenziali, che nemmeno il pettine della drammaturgia potrebbe sciogliere.

Lo spettatore stesso diventa un’altra conquista del personaggio, venendo attratto irresistibilmente da questo fascinoso black hole, questo orizzonte cui nemmeno la luce riesce a sfuggire, e può mostrare la sua struggente cattività dietro un paio di pupille attonite. Poco importa che, a marciare contro questo Macbeth, non sia la foresta di Birnam, ma siano pericolosi usurai. Il tempo è sempre lì, con il suo fastidiosissimo tictac, e la sfida esistenziale continua, attimo dopo attimo, istante dopo istante. Poco importa che il tictac sia il cursore sul foglio bianco di Word: ogni oggetto esterno è lì a richiamare il tempo, in tutte le sue forme. E se tacerà tutto, il cuore, provato, infartuato fisicamente e metaforicamente, sarà sempre lì a segnalare lo scorrere dell’esistenza, come il muscolo cardiaco del racconto di Poe. Ecco tutta la verità, nient’altro che la verità, sull’amore.

Immagine della recensione di Eclisse e altre cose oscure

O, meglio, su di uno straziante bisogno d’amore che arriva a ferirsi, pur di non ferire. Ecco una nudità estrema, un paesaggio interiore che si mostra, con la naturalità di un anatomopatologo pronto ad aprire il ventre per mostrarne il contenuto; uno strano cervello ipertrofico, passato attraverso la mutazione imposta dal cuore. Guarda, Veronese, prima di tutto, le sue parole: questi esseri fragili, a volte  freaks che nessuno vorrebbe ospitare, e che potrebbero far mostra di sé in un gabinetto delle meraviglie, in una fiera vittoriana. E, in mezzo, si trova anche qualche piccolo arcobaleno, qualche lucciola di poesia che combatte per non farsi compromettere le ali dal nero disagio dell’anima. Potremmo sentir gridare, da un momento all’altro, come in Elephant Man di David Lynch: “I am a human being!”, “ Io sono un essere umano!”. E lo è, molto più di un essere umano.

Rappresenta una nuova ibridazione:  l’autore, il personaggio e l‘uomo insieme, in una splendida sovrimpressione, una di quelle che solo i paesaggi dell’inconscio sanno creare. E, più che paura di lui, si ha paura di ciò che di lui si scopre avere in sé, un grumo di paure, contraddizioni, errori bagnati dalla rugiada della poesia . Ha tutto il sapore di un pinkfloydiano final cut, quello di Veronese, che chiama gli ultimi giri di una partita a poker esistenziale, in cui è già sotto di tanto. Se Artaud voleva farla finita con il Giudizio di Dio, qui l’interprete vuole farla finita con i processi sommari, con le regine del “tua culpa”, del chiacchiericcio insinuante, delle calunnie rossiniane che, più che un venticello, sono diventate tornados. “Questo sono io”, ci dice, metà Calibano e metà Ariel, metà angelo e metà demone, “e voi abbracciatemi, perché, in fondo, siete della stessa carne”.

Immagine della recensione dello spettacolo Eclissi e altre cose oscure

Se questo articolo è stato di vostro interesse, vi invitiamo a leggere gli altri che troverete nella sezione teatro e le altre recensioni presenti sul nostro sito. Non scordate inoltre di ascoltare i nostri podcast per approfondire la conoscenza del vasto mondo teatrale.

Deledda’s revolution – Recensione Teatro

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo Deledda's revolution

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Deledda’s revolution. Il testo è di Antonio Mocciola, e la regia è curata da Diego Galdi. Gli interpreti sono Valeria Bertani e Luca Pala. La piece è la storia dei due Deledda, Grazia e Santus, il cui destino è giocato sulle ginocchia di Zeus.

Bastano due personaggi per riempire una scena, un uomo e una donna, la storia universale, la storia di sempre. Grazia Deledda e Santus Deledda, ovvero Oreste ed Elettra. E la tragedia e sempre lì, potente come quella antica, iscritta insieme nella carne e nell’anima, come fa il vento con sassi della Sardegna. L’unica differenza è che la vicenda si consuma più lentamente, un po’ alla volta, ma gli dèi non sono meno implacabili, i sentimenti non sono meno forti. Un fratello e una sorella hanno un filo invisibile che li lega l’uno all’altro: biologico, certo, ma, soprattutto, metafisico. Hanno la certezza di essere parte di un unico essere androgino, diviso per sempre, come nel mito del Simposio di Platone. Il loro è un canto verbale struggente, disperato, di chi vorrebbe essere oltre il proprio essere, chi ha nostalgia di un impossibile paesaggio dell’anima, e non si accontenta del confine del proprio io.

L’individualità è un peso lancinante, il peso pessoano del dover sentire, dell’essere separato fatalmente da tutto ciò che non si è. Ognuno dei due ha un modo diverso per lanciare la propria sfida prometeica al cielo: Grazia scrive, mette al mondo il suo modo in forma di parole sul foglio, svela il terribile inconscio della sua terra, lava i panni etici, spirituali, sulla pietra della pagina, e questo, molti suoi conterranei, non lo perdonano. Santus beve, ha un dio dentro che non è facile contenere in un singolo corpo. E Dioniso respira male, su un’isola che nasconde a se stessa la propria ombra. Il diverso, la pecora nera, quello che marcia a un ritmo diverso, marcia a tempo di danza, si muove circolarmente, in un valzer di gesti e di parole che si piega nel disagio; il suo collo si piega di fianco, come una canna al vento.

Immagine della recensione dello spettacolo teatro Deledda's revolution

E quanto quel vento faccia male alla sua anima indifesa, senza la pelle, i muscoli e i tendini a filtrare e attutire l’impatto, devastante, di quell’aria mossa sui nervi invisibili dello spirito, lo può sapere solo lui. E ce lo fa capire, intuire, con una parola che strappa dalla roccia dura della cadenza di quella lingua isolana; un fiore che si ribella all’aridità, all’infecondità della pietra. Ecco, questo testo sa terribilmente di salsedine, di mare sanno le parole di questi esseri, che sono un po’ come l’albatros della poesia di Baudelaire. Hanno ali grandi, enormi, a loro apparterebbe per natura il cielo; quando sono costretti alla terra, caracollano su zampe poco adatte a quel passo.  Divengono oggetto di scherno, ma hanno tanta di quella poesia, trasudante dalla loro carne, che potrebbero riempirne il mondo intero. Antonio Mocciola scrive un testo che viene direttamente dal muscolo cardiaco, senza mediazioni.

Hanno avuto spazio giusto le sue dita, che avranno dovuto danzare a tempo con diastole e sistole. Questa drammaturgia è dannatamente vera, mette i piedi nudi sul terreno puntuto della Gallura, della Sardegna tutta, e fa sentire letteralmente  la fatica di camminare su quello strano cielo rovesciato che si riempie di rughe, che invecchia, che subisce la violenza virile, gli schiaffi degli elementi naturali. E che guarda con orgoglio ostinato, con gi occhi aperti del proprio mare, chissà quale antica divinità, che, un giorno, lo abbandonò su quel lembo di terra, come Teseo fece con Arianna. La regia di Diego Galdi è tutta a disposizione degli interpreti: paziente opera di mani esperte, delicate, in grado di maneggiare il bozzolo di questa seta drammaturgica. Ogni fonema, ogni singolo gesto è la volontà di mostrare l’universale, i tremila regni che vivono in un singolo istante.

Immagine della recensione dello spettacolo teatro Deledda's revolution

La poesia si sforza di trovare una propria dicibilità, di narrare la luce, così come la si potrebbe vivere con gli altri sensi. Allora l’impossibile diventa possibile, perché, dietro un abbraccio con cui il personaggio cerca di consolare se stesso, dietro un momento in cui la parola si fa sacra, muovendosi ieratica sul terreno dell’etere, come un antico personaggio del teatro Noh giapponese, c’è tutto un mondo da scoprire. Una realtà profonda quanto lo è il mare della famosa canzone di Dalla, calore disperato di un sole che persino l’occhio di un dio stenta a conoscere. Valeria Bertani è una Grazia fatta di petali dell’anima, una rosa che anche il vento più leggero potrebbe rapire. Ci mostra tutte le pieghe del suo delicato tessuto interiore, ci invita a provare la sensazione impagabile,insostituibile, di sentire con i polpastrelli quella sostanza leggera, trasparente, serica.

E poi guarda, e quando guarda va ben al di là della semplice azione; è un po’ come se si dimenticasse di se stessa e diventasse l’atto stesso dell’osservare, non più suo, non nostro; è una visione che si vede da sé sola, è una parola visiva che scopre la sua luna e, con un gesto scopre se stessa, per un lungo, lunghissimo, meraviglioso istante. E quando esita, quando è doloroso il parto della parola, ha qualcosa di mariano: diventa la madre non solo delle sue emozioni, ma delle nostre, di quelle di tutti, e colora la scena di una pietà, di una compassione speciale, in forma di statua vivente sul palcoscenico. Luca Pala è, immediatamente, ogni parola della canzone di Don Backy Sognando: è il folle che conosce la carne del mondo, in quanto sua stessa carne. Beve religiosamente, come un monaco orientale pronuncerebbe per ore e ore lo stesso mantra. I suo fonemi sono una preghiera cristica, disperata, lancinante. La sua lingua frusta tutte le ombre che lo abitano, non fa sconti a se stesso  e a noi spettatori. Ha sorrisi dolorosi che ti entrano dritti dritti nella pancia, che ti fanno sentire qualcosa, prima di poter dire di che si tratti. E’ una candela al vento, la stessa della canzone di Elton John, e, ostinatamente, oppone il suo precarissimo esserci a quella potente forza naturale. La luce nelle sue pupille, e nelle sue parole, è la stessa che dardeggia sul mare, è viva, cangiante. Santus ha più vita di quanta ne potrebbe accettare il mondo che lo circonda; e le catene del perbenismo, di vite che si soffocano dentro se stesse, pesano terribilmente sulle sue ali. Tutta la platea ricambia la generosità degli interpreti con un meritatissimo applauso.

Immagine della recensione dello spettacolo teatro Deledda's revolution

Se questo articolo è stato di vostro interesse, vi invitiamo a leggere gli altri che troverete nella sezione teatro e le altre recensioni presenti sul nostro sito. Non scordate inoltre di ascoltare i nostri podcast per approfondire la conoscenza del vasto mondo teatrale.

Non si sa come – Recensione teatrale

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo Non si sa come
Ph Elena Savino

Nell’ambito della stagione teatrale 2021/2022 di PACTA. dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Non si sa come. Questo lavoro teatrale di Pirandello è diretto da Paolo Bignamini. Gli interpreti sono Maria Eugenia D’Aquino, Riccardo Magherini, Alessandro Pazzi, Marco Pezza e Annig Raimondi. Le luci sono firmate da Fulvio Michelazzi. La produzione di questo spettacolo è curata da PACTA. dei Teatri.

Questo Pirandello è definitivo, asciutto, si muove sul filo della follia, come la lumaca di Kurtz sul filo del rasoio. Di nuovo su un quadrivio, nei pressi di una nuova Tebe, un nuovo Edipo, alias Romeo Daddi, può trovare il suo tragico destino, e uccidere per motivi futili, “non si sa come”. Gli dèi ci sono ancora, per giocare con il destino, con l’inganno dell’autodeterminazione e della libertà dell’essere umano; poco importa che abbiano preso il nome schopenhaueriano di volontà, o siano un inconscio freudiano, un inquilino scomodo che detta legge dentro le mura della propria coscienza. Qui, l’ingresso dell’irrazionale fa un rumore sordo, quasi metafisico: lo stesso della pallina da tennis di una partita mimata, come quella giocata nel finale di Blow-Up di Antonioni. Proprio il tennis sembra prestarsi a essere efficacissima metafora di una sillogistica, logica, ricerca disperata di un senso, che batte sulle corde dell’imprevisto, dell’impasse.

Esprime il dilemma irrisolvibile, destinato a tornare ostinatamente al punto di partenza, per poi di nuovo essere sospinto al di là. Semplificazione geometrica del masso del Sisifo di Camus, questa ratio è destinata a sfuggire, a deragliare, lungo la linea del campo: gioco, set, partita. Risulta felice  l’intuizione di una parte del palcoscenico abitata da una luce spezzata, una luce che ha perso fatalmente la sua unità, il suo centro di gravità, in cui il protagonista può esprimere i suoi monologhi più devastanti. La follia più micidiale si esprime nella estrema lucidità, in quello sforzo apollineo che la ragione fa per superare se stessa e le proprie involontarie contraddizioni. Mai come in questo testo, l’ultimo completo del drammaturgo siciliano, si esprime l’inesprimibile: quel terremoto silenzioso, ma non meno devastante, del “non si sa come” che governa le vicende umane.

Immagine della recensione dello spettacolo Non si sa come
Ph Elena Savino

E, allora, si ha la netta impressione che, a guardare questa partita esistenziale, ci sia uno spettatore di riguardo, un Altro inconoscibile, che ha disegnato sul volto una specie di sorriso come quello del pescatore di De André, rincorso freneticamente dall’autore con le gambe della sua scrittura drammaturgica, indicibile eppure improvvisamente dicibile in una metafora poetica: la Luna, la stessa scoperta da Ciàula, voluta da Caligola, interrogata da Leopardi. Da qualche parte c’è la risoluzione all’insensatezza, proprio lì, sul nostro satellite, insieme al senno dell’Orlando Furioso. E questi fiori, queste piante del male, così amorevolmente curate da mani femminili, crescono rigogliosi nei salotti della buona borghesia, laboratori esistenziali ideali per far salivare di inconfessabili desideri il cane di Pavlov. Paolo Bignamini crea una regia geometrica, una trappola perfetta di parole e azioni, che si stringe, idealmente, in forma di dito sul grilletto di una pistola.

Rappresenta l’unico possibile deus ex machina, re travicello della gracidante razionalità. Su una tavola vestita di candele camminano, mesmerizzati, i personaggi, contrastando eracliticamente, con la forza dell’opposizione lineare e geometrica, le oscene linee curve dell’assurdo e dell’irrazionale. Mentre Satie è un testimone metafisico, una divinità oziosa, osservante, che guida, quasi in maniera coreutica, le azioni in scena. Magherini è un po’ come la guida, evocata da Herzog, che assaggia la terra per capire dove bisogna andare; lui, parallelamente, assaggia le battute, le gusta, e ci racconta, da fine gourmet, il sapore che hanno. Meglio ancora, lo fa percepire anche  a noi spettatori. E poi ci sono quelle pause, quei momenti, incolmabili fenditure, in cui la verità gli appare lì, a meno di un passo, luminosa come la luna, incastonata tra due preziosi fonemi. Maria Eugenia D’Aquino regala alla sofferenza del suo personaggio qualcosa di materno.

Immagine della recensione dello spettacolo Non si sa come
Ph Elena Savino

La sua recitazione si traduce in un abbraccio fatale, che si modella in una sorta di opera di scultura vivente; il suo corpo è un marmo che si piega nell’idea stessa del tormento. Annig Raimondi, sui suoi coturni in forma di scarpe col tacco, si muove benissimo: giganteggia in scena, la taglia col bisturi del suo camminare, apre la carne del testo drammaturgico, e posa, in quel dolente terreno, la rosa amara e fatale dei suoi fonemi. Alessandro Pazzi porta in dote al suo personaggio il suo corpo poetico, la sua bruciante laringe, che vive nel fuoco ogni battuta del testo. E, infine, Marco Pezza compie, con il suo personaggio, un viaggio fatale verso i territori della più asciutta ed essenziale irrazionalità. Tutti gli interpreti fanno un meraviglioso gioco di squadra, su questo campo tennistico di terra rossa. Riescono a spillare, fin da subito, quell’insostenibile leggerezza dell’inquietudine.

La lasciano intuire, come un’intenzione deviante, come un “non detto” del proprio personaggio, che rimane in forma di ideali puntini di sospensione. Non si sa come, insomma, è l’ultima, definitiva, irridente risposta che Pirandello regala al pubblico. Si ha l’impressione che abbia trovato un orizzonte degli eventi, un grado zero; l’impossibile teoria in grado di risolvere l’equazione umana, e di riunire, a sua volta, la teoria della relatività e quella quantistica, in uno sberleffo, un sottile, filosofico sfottò che solo un intellettuale siciliano avrebbe potuto inventare. E, qui, il non sapere non ha nulla di catartico: è la constatazione del proprio essere, governato da forze invisibili, ingovernabili perfino sul territorio del medesimo essere. La follia è sempre in agguato, dietro l’angolo successivo, pronta a dichiararci scacco matto. Questo uomo pirandelliano, tremendamente nostro contemporaneo, ci dice, ci racconta e ci vive alla perfezione, nel suo ineluttabile non sapere come.

Immagime della recensione dello spettacolo Non si sa come
Ph Elena Savino

Se vi è piaciuto questo articolo, vi consigliamo la lettura degli altri che troverete nella sezione teatro e le altre recensioni presenti sul nostro sito. Non dimenticate inoltre di ascoltare il nostro podcast per approfondire i vari aspetti del mondo teatrale.

Guardie al Taj – Recensione Teatro

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo Guardie al Taj
Ph Laila pozzo

Nell’ambito della stagione 2021/2022 del Teatro Elfo Puccini vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Guardie al Taj di Rajiv Joseph, traduzione di Monica Capuani. La rappresentazione è ideata da Elio De Capitani. Gli interpreti sono Enzo Curcurù e Alessandro Lussiana. Questo lavoro teatrale è una coproduzione del Teatro dell’Elfo e del Centro Teatrale Bresciano.

La bellezza, ci ricorda Thomas Mann, è qualcosa che può trafiggerti come un dolore, e lo sanno bene Humayun e Babur, posti  a guardia del Taj Mahal proprio alla vigilia della sua inaugurazione. C’è sempre qualcosa di crudele in ciò che è estremamente bello, dietro  un monumento meraviglioso si nascondono storie di estremi sacrifici, violenze, sopraffazioni. Ci vuole il Caligola di turno che voglia tirare giù la luna del cielo, e offrirla al mondo in forma di marmo. Ma il punto di vista brechtiano, in questa storia, è quello di due piccoli Vladimiro ed Estragone asiatici che, stufi di attendere Godot, immaginano di raggiungerlo con una macchina volante, o di avere un buco portatile per andare chissà dove. Si vede idealmente, sul loro volto, la lacrima hegeliana della coscienza infelice; e le stelle di Kant, che ritornano, insistentemente, sulla parete, in un riuscito gioco di luci, non riescono proprio a consolarli.

Due esseri hanno già tutta la potenzialità per far esplodere la più riuscita delle drammaturgie, giocandosi alternativamente il ruolo di coscienza e specchio, cercando reciprocamente un riconoscimento che stenta a venire. Ne è  conscio l’autore, Rajiv Joseph, che crea due personalità complementari: uno ligio al dovere, l’altro scalpitante e recalcitrante nei confronti del giogo della disciplina. Sembrano due momenti diversi di una stessa anima, due fotogrammi tra loro distanti sulla pellicola, resi vicini dal montaggio drammaturgico. Sono piccole cose di gozzaniana memoria, che osservano la meraviglia del mondo come un bambino guarderebbe per la prima volta la luna. Rappresentano due clown tristi che hanno un momento fatale di autocoscienza, che li allontana dal loro stesso sorriso. Il Taj diventa una efficace lente di ingrandimento per guardare dentro due esseri umani, per restituirci i loro dubbi, le loro ansie, le loro aspettative,

Immagine della recensione dello spettacolo Guardie al Taj
Ph Laila Pozzo

Permettono allo spettatore di scoprire che non solo alla corte di Elsinore nascono gli Amleto, ma anche fuori, in una casa del popolo, da chi quel mondo reale lo vede a un passo di distanza. Sono obbligati a fare una cosa orrenda i due soldati, a inventarsi nelle mani la tragedia di Seneca, a vivere l’orrore per poi cercare di lavarselo via disperatamente, come Lady Macbeth. La tragedia, come insegna il buon vecchio Aristotele, nasce così, dal cambiamento di stato di un uomo comune, dalla buona alla cattiva sorte. E uomini comuni sono Humayan e Babur, quelli su cui la storia cammina sopra, quelli che silenziosamente, metodicamente, con pazienza certosina, come bravi amanuensi la scrivono, ma il cui nome, da essa, non è scritto. Elio De Capitani riesce a trovare, nel buio del palcoscenico, questi corpi caravaggeschi, questa carne che cerca selvaggiamente un proprio riscatto spirituale. Si cercano, si stringono,si combattono.

Ma, sempre, il senso che sembra trionfare è il tatto: a un certo punto, le parole hanno bisogno di sentirsi vive reciprocamente, di toccare la propria fisicità. Il regista riesce a portare il marmo bianco del Taj in ogni fonema degli interpreti, non c’è battuta o monologo che non porti in sé l’ipoteca di quella bellezza che incombe, quasi minacciosa, sui due personaggi. All’inizio sono apparenze, la platea li scopre in forma di ombre, siamo ancora nella caverna di Platone; ma poi il velo di Maja cade, e i due personaggi si mostrano, fanno parlare il loro corpo, rendono l’immediato indeterminato della loro esistenza con l’immediatezza della loro carne. E, dopo un po’, ci si  dimentica del Taj come ci si dimentica di Godot, e quello che importa è la loro storia, il loro scontro, che non si sa mai se finirà in una lotta con spade o con uno struggente abbraccio.

Immagine della recensione dello spettacolo Guardie al Taj
Ph Laila Pozzo

Enzo Curcurù e il soldato scalpitante, ribelle; i suoi fiati scuotono ben bene le catene invisibili che lo legano alla sua posizione sociale. Gonfia il petto come un mantice, e soffia tutti i suoi desideri in faccia al compagno; agita il diaframma come un tamburo di guerra, usa il suo corpo come grafia di una lingua esistenziale scritta sul foglio della vita. Alessandro Lussiana incarna una sorta di clown bianco, l’augusto, l’anima portatrice dell’ordine, del redde rationem; cerca di richiudere il vaso di Pandora dell’amico, ma lo fa restituendoci la segreta consapevolezza che l’altro personaggio rappresenta il suo stesso inconscio, i suoi desideri repressi, l’eterno amico immaginario con cui si possono fare i giochi migliori. In fondo, i due amici guardano le stelle con gli stessi occhi di James Dean in Gioventù bruciata, con gli occhi di chi sembra domandarsi se possa esistere, sotto un simile cielo, gente cattiva.

E poi c’è a bellezza del Taj, che chiede, sul suo altare, il più tremendo dei sacrifici: è carnefice spietata come una Erinni, una divinità che vuole il prezzo della dike per la hybris di quel marmo bianco. Ma di tutto questo i due soldati sono vittime, sembrano militi sconosciuti messi a guardia di un monumento, più soli di un dio; ingannano la loro solitudine parlando, stuzzicandosi, trovando nelle parole quell’estrema difesa del credersi vivi. Se si fosse chiamati a condensare questo spettacolo in una espressione, la più corretta sarebbe il tragico confronto tra il marmo e la carne, tra l’universale e il particolare; il mortale  sacrifica se stesso, suo malgrado, per permettere che la poesia di pietra perpetui il suo canto secolare. Come si fa a non affezionarsi, a non aver voglia di abbracciare queste piccole anime, che brillano sulla scena non meno delle stelle che osservano?

Immagine della recensione dello spettacolo Guardie al Taj
Ph Laila Pozzo

Se vi è piaciuto questo articolo, vi consigliamo la lettura degli altri che troverete nella sezione teatro e le altre recensioni presenti sul nostro sito. Non dimenticate inoltre di ascoltare il nostro podcast per approfondire i vari aspetti del mondo teatrale.

Sindrome Italia – Recensione Teatro

in Teatro
immagine della recensione dello spettacolo Sindrome Italia

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Sindrome Italia, la storia della badante rumena Vasilica che, dopo aver curato le persone, cerca di curarsi l’anima. L’interprete, che è anche autrice della drammaturgia, è Tiziana Francesca Vaccaro. Le musiche sono a cura di Andrea Balsamo.

Certe volte le parole ci provano a tenere il passo con la vita, ma da sole non ce la possono fare; allora ecco che c’è un attrice pronta a spremere tutto il Dioniso che ha dentro di sé, come un profumato limone di Sicilia, permettendo così al miracolo di avvenire. Il personaggio della badante rumena Vasilica, con in tasca pochi spicci, e uno Ionesco, tutto l’assurdo possibile di un’esistenza al servizio di altre esistenze, pronto a esploderle nelle parole e nei gesti, persino nei silenzi. Ha lo stesso sguardo di Cioran questa donna, lo sguardo triste di una filosofa della vita che, per citare questo pensatore, ha cambiato disperazioni così come si cambia la camicia. Anzi se li  cambia proprio gli abiti, se li infila su, ancora bagnati della placenta dei significati, tutti insieme, strato dopo strato, come la cipolla del Peer Gynt.

E dalla parte della platea, non si assiste semplicemente a uno spettacolo, ma l’odore dei suoni, delle parole, è quello di una cucina irresistibile, una di quelle per cui si rompe volentieri ogni etichetta, e si comincia a mangiare con le mani. Il riso e il pianto non hanno un confine preciso, come certi orizzonti in cui non si riesce a distinguere dove finisca il cielo e inizi il mare. C’è un cortometraggio di Polanski in cui una povera custode di un gabinetto pubblico rivede scene del suo passato, finché appare un angelo a riscattare l’evanescenza dei ricordi; Vasilica un angelo non ce l’ha, ma si arrangia come può, cerca di diventarlo lei, spalancando quelle braccia lunghe, che abbraccerebbero il mondo intero. E a guardarle bene sembrano proprio due ali che hanno una maledetta nostalgia di un cielo che non hanno mai conosciuto. E poi c’è il sorriso, un sorriso definitivamente luminoso,

Immagine della recensione dello spettacolo Sindrome Italia

È un sorriso che viene dalle latitudini del sud, così vero, così abbagliante che ti viene da pensare da dove l’abbia preso l’interprete tutto quel bianco, per dare un avorio così  puro alla sua bocca. E’ una sorta di competizione tra la luce degli occhi e quella del sorriso, ma una competizione leale dove le vittorie si alternano, perché i gareggianti sono di egual bravura. L’io è un altro, insegna Rimbaud, è quello della protagonista si è stretto in un cantuccio, si è rifugiato da qualche parte, per far posto al mondo di fuori. Si percepisce appena Vasilika, e, come il cavaliere inesistente di Calvino conta le pietre per credersi reale, così questa donna conta i suoi ricordi, cerca di fare del suo passato cosa salda. Forse sa, come canta Modugno, che il derubato che sorride ruba qualcosa al ladro.

E proprio non riesce a trattenere in sé un disperato, tenace, desiderio di amare e di essere amata. Sembra uscita dritta dritta da una pagina di Dostoevskij, è una versione al femminile del sognatore che colora con i suoi sogni le sue notti bianche, o un principe Myskin, senza una pelle spirituale che filtri le emozioni, convinto ancora che la bellezza salverà il mondo. Questo monologo ricorda quanto sia unico e meraviglioso il racconto di un’anima, di quella piccola grande cosa che abita il corpo, e cerca di essere, e cerca di dirsi nel mondo. Non è semplicemente una badante, è una creatura pura, un fiore di loto che cresce in uno stagno, senza che l’acqua torbida possa in qualche modo contaminare la sua bellezza. I secchi che costituiscono la scenografia sembrano tre bussolotti, pronti ad invitare la platea con questa particolare versione del gioco delle tre carte.

Immagine della recensione dello spettacolo Sindrome Italia

Sotto quale secchio si trova Vasilica? La risposta è immancabilmente sbagliata, perché trovare l’anima, tenerla così, con sicurezza, nelle proprie mani, come se fosse proprio una carta da gioco, non è facile. Ma poi la risposta giusta viene, il personaggio non è sotto, o sopra, un secchio, è in tutti noi, nel senso di estraneità al mondo che ci circonda, che a volte ci fa sentire proprio come lo Straniero, il protagonista del romanzo di Camus. E quando la voce dell’attrice comincia a graffiare, quando i fonemi diventano pietre che fanno rumore quando cadono, eccome se lo fanno, allora si comprende quanto la vita abbia urgenza di ritrovare se stessa, quanto si abbia bisogno di non perdere continuamente terreno, di trovare un pavimento di certezze su cui camminare, che sia più solido del terreno che ci manca sotto i piedi, lo stesso che il personaggio pirandelliano ci ha attribuito una volta e per sempre.

Tiziana Francesca Vaccaro, autrice anche della drammaturgia, è una di quelle attrici che si fa passare il testo dal ventre, nella carne,e poi lo fa trasudare da ogni poro. Diventa tanti personaggi senza smarrire per un attimo il filo di Arianna del monologo. I vestiti bagnati sono, in realtà, impregnati di vita, e la vita non la si può lavare a secco, la si sciorina all’antica, in un secchio, si lascia che si asciughi al sole, naturalmente. Umide sono le lacrime, umido è il sudore, umida la fatica, e umido il bacio che ha sulle labbra, da donare, come un caffè sospeso, per un’altra creatura speciale. Che sfiancante ginnastica del cuore, mentale e spirituale, compie l’attrice nel dipanare dal rocchetto del proprio corpo questa meravigliosa storia. Alla fine guarda il pubblico regalando un gesto potente, un umile, gentile, sorriso che non può che trascinare la platea verso un forte applauso.

Immagine della recensione dello spettacolo Sindrome Italia

Se questo articolo è stato di vostro interesse, vi invitiamo a leggere gli altri che troverete nella sezione teatro e le altre recensioni presenti sul nostro sito. Non scordate inoltre di ascoltare i nostri podcast per approfondire la conoscenza del vasto mondo teatrale.

it_ITItalian
Torna all'inizio