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PACTA.dei Teatri

La Monaca di Monza alias Suor Virginia Maria alias Marianna de Leyva – Recensione Teatro

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo La Monaca di Monza

Nell’ambito della stagione teatrale 2022/2023 di PACTA. dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo La monaca di Monza alias Suor Virginia Maria alias Marianna de Leyva. La drammaurgia e la regia sono a cura di Annig Raimondi, che interpreta anche la parte della protagonista. Con lei, in scena, Alessandro Pazzi ed Eliel Ferreira de Solusa. Il testo comprende scritti di Manzoni, Diderot, Stendhal e Testori, nonché atti del processo.

C’è un’implacabile geometria di spazi e di luci, ad attendere lo spettatore. Un Mondrian essenziale, volto a carpire i segreti pitagorici, matematici di un’ineffabile vicenda umana. L’intuizione iniziale di questo spettacolo è, già di per sé, oltremodo efficace: lo spirito apollineo della scenografia e dell’illuminotecnica si incontra, e si scontra, con lo spirito dionisiaco, ovvero l’alta temperatura emotiva espressa nel processo della Monaca di Monza. il mos geometricus delle regie di Bob Wilson si fonde, felicemente, con la lava della parola testoriana. Nei fatali tableaux vivants che si formano, l’uno dopo l’altro, con precisione millimetrica, nell’ideale galleria pittorica di un martirio volutamente deviante e deviato, le parole della protagonista sfuggono dalla tela, la imbrattano, la tagliano, come rasoiate di un Fontana terribilmente inferocito. L’attrice usa il cappuccio come una maschera, o meglio come le maschere di un personaggio, ben al di la’ delle latitudini pirandelliane.

E, per scriverla alla Oscar Wilde, la verità è una menzogna che non è ancora stata scoperta. I volti, le espressioni, i toni della voce sono molto più che maschere: rappresentano le sovraimpressioni continue di una personalità, che scorre più fatale ed implacabile del fiume di Eraclito. Come la Regina degli scacchi, la Monaca si muove in ogni direzione, violando la severità geometrica dei passi e dei vettori. Il fondale diviso, in forma manichea, tra luce e ombra, tra puro colore e forma, sintetizza, anzi arriva a costituire, una panorama astratto, metafisico; esprime l’enigma di un essere umano in cui la cartina di tornasole del giudizio terreno, sia esso etico, giuridico o canonico, letteralmente impazzisce, mostrandoci ora il rosso di un ambiente acido, ora tinte bluastre di un ambiente alcalino. A Suor Virginia Maria viene, in questo lavoro, pienamente, visibilmente riconosciuta la patente di personaggio tragico, generato da un ideale Euripide.

Il destino la lega, e, con la stessa velocità, lei inganna i nodi che la stringono, giocando una partita contro la dike, l’antica giustizia divina, e tutt’altro che da perdente. Il processo ha tutta la parvenza di un tentativo di lunga seduta psicanalitica, in cui si cerca di arrivare all’impossibile inconscio della protagonista. Freud diceva che l’inconscio è quel signore davanti a me, di spalle, di cui posso vedere solamente la nuca; e non a caso l’attrice, durante il processo, dà la schiena ai suoi giudici, che non riescono a coglierne l’ineffabile essenza, e la condannano ad essere murata viva. Ma anche questo è un falso finale: la Monaca di Monza avrà il suo riscatto, e riuscirà, a distanza di anni, a farsi liberare. Ancora una volta dà scacco matto, o, almeno, arriva a patta con il dio della tragedia. La drammaturgia riesce a creare una riuscita policromia.

Immagine della recensione dello spettacolo La Monaca di MOnza

Si attinge ai colori storici del Manzoni, alla carne, febbricitante di passione, di Testori, ai paradossi attoriali diderotiani e alla profumata essenzialità stilistica di Stendhal. Annig  Raimondi, che cura anche la regia e la drammaturgia, è letteralmente un mistero che cammina, anzi, incede con solennità sulla scena. I suoi fonemi sono presi giù, nel profondo ventre di Gea; le sue parole, come le pietre di Meister Eckhart, sono Dio, ma non sanno di esserlo. Suona secondo tutti i registri, tutte le partiture di un personaggio che sfugge decisamente a qualunque categorizzazione. Annig suona la sua anima come farebbe l’orchestra psichica di Pessoa, donando una persona per ogni singolo stato d’animo. Alessandro Pazzi è un Vicario che domanda, interroga con la caparbietà e con la curiosità di un Orazio shakespeariano: e non può non concludere che c’è del metodo, in questa apparente follia.

Incarna, simbolicamente, una ragione che si sforza, invano, di sciogliere questa sciarada, questa irrisolvibile equazione umana. Eliel Ferreira de Sousa porta con sé, nell’accento latino, il caldo brivido di paura, prima di tutto fonetica, di un Inquisitore, di una legge che alza la voce perché, troppo spesso, è dura d’orecchi. Insieme, hanno la capacità di inserirsi nel paesaggio geometrico della scena, dove le luci battagliano continuamente con il buio, e scorrono sicuri, come le biglie sul tappeto verde di un biliardo. Nella distanza tra i personaggi che colonizzano ogni punto di questa scenografia, si giocano partite verbali incredibili, dove le parole descrivono curve, rotondità, cerchi dionisiaci, in grado di mettere in discussione continua la rigidità geometrica. Imperiale il momento in cui viene trasportata sulla sedia dotata di rotelle, metafora di una dea in machina: un destino diversamente abile, che si cerca, meccanicamente, di istradare sui binari del cosiddetto buonsenso, e della morale comune.

La vita, in questa Monaca di Monza, decisamente vive, dando mostra di sé e del suo cercarsi, trovarsi, inventarsi di volta in volta. Ora spaventata, ora severa e azzimata, ora combattiva e pronta ad infiammarsi, ora avvocatessa della sua causa, ora giudice: sempre, riesce a cogliere l’adesso, il singolo istante psichico del personaggio, Rispetto al basso continuo dei suoi interlocutori, esprime una melodia complessa, una fuga bachiana, un canone in cui le voci di una stessa coscienza si sovrappongono, per formare un coro tragico. Si staglia, unica ombra viva, di fronte a una moderna caverna di Platone; insieme apparenza e sostanza, oscurità e luce, che parla, nell’ultima fatale dissolvenza in nero alla platea, come essere vivo e vitale, in grado di aprirci varchi di dubbio e di emozione sincera . Sono tutti meritati i generosi applausi.

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Vecchi tempi – Recensione teatrale

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo Vecchi tempi
Ph Emma Terenzio

Nell’ambito della stagione teatrale 2021/2022 di PACTA. dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Vecchi tempi. La penna di Pinter firma il testo, e si sente. Il regista è Claudio Morganti. Gli interpreti sono Maria Eugenia D’Aquino, Riccardo Magherini, Annig Raimondi.  La produzione di questo lavoro teatrale è curata da PACTA. dei Teatri.

Da un punto esterno alla retta dovrebbe passare una, e una sola, retta parallela; invece, ecco che la possibilità di geometrie non euclidee inventa soluzioni differenti. Pinter è un po’ così:  la sua drammaturgia piega lo spazio, trova il modo di non scegliere il percorso più breve, ti fa fare un giro del mondo di cui vale sempre la pena, e, una volta giunto al traguardo, ti ritrovi meravigliosamente al punto di partenza, come su un nastro di Moebius. E poi, ci sono le parole di Pinter, e qui si apre un’altra sfida, ancor più affascinante. I dialoghi di questo lavoro teatrale sono la partita a tennis perfetta, il momento in cui la palla schiocca, con un rumore secco e pulito, sulle corde della racchetta, per poi andare a battere lungo la linea del campo, e l’altro giocatore non ci arriverebbe neanche se avesse un altro paio di gambe e di polmoni a sostenerlo.

E’ una partita a carambola, in cui, nelle pause, il giocatore-personaggio studia il colpo, e poi la biglia batte su una sponda, sull’altra, su un’altra ancora, colpendo la biglia-bersaglio nell’unico modo possibile per farla finire in buca. Tre personaggi, un marito, una moglie e un’amica, sciolgono il principio di identità di Aristotele, con la stessa velocità con cui si scioglie il ghiaccio dei loro numerosi drink. A non è più uguale ad A: è uguale a B, a C e ad altre lettere nascoste nella memoria. Qui la parola regna sovrana, è un’ammaliante  dark lady di un fumoso film noir, che potrebbe piantarti un bacio e, un istante dopo, una pallottola nel cranio. Ecco, questo testo è un proiettile blindatissimo, full metal jacket che scuote la platea, che penetra fino al cuore e anche oltre. Le madeleines della memoria hanno il sapore molto dry del gin.

Immagine della recensione dello spettacolo Vecchi tempi
Ph Emma Terenzio

A un certo punto, inoltre, non importa più che qualcosa sia effettivamente accaduto, ma soltanto che accada ora, in un susseguirsi dì istanti affilati quanto il rasoio di Kurtz. I fonemi sono il campo di una battaglia senza esclusione di colpi;  strato dopo strato, appare la verità della cipolla del Gynt, quell’impossibile centro di gravità interiore, che ha un sapore di verdura guasta. I tre personaggi distillano un teatro in purezza, una meravigliosa droga non tagliata, che fa bene allo spirito. Questo Pinter è il ghiaccio nella zona più profonda di questo inferno interiore, in cui la foresta di Birnam rimane ferma lì dov’è, e Macbeth e consorte, sensibili al richiamo del fascino discreto della borghesia, si giocano l’ultimo dio nei dadi dei cubetti di ghiaccio. Giocano, e chissà che non ci sia del sangue, dietro il fango dei loro segreti.

Giocano con il tempo e sono giocati dalle parole, che li guidano, come un parassita invade e governa il corpo di una mantide. Claudio Morganti offre una regia di precisione, una geometria terribilmente affascinante disegnata da una luce che si spezza, che spilla i visi come un giocatore di poker spilla le sue parti; mentre, sul fondo, un lungo rettangolo di luce cangiante è la cartina di tornasole in grado di misurare tutta la causticità di queste psicologie. Lavora di cesello sulle laringi, e tutti i dialoghi hanno la bellezza senza fiato della Saliera di Benvenuto Cellini. Ogni battuta è un colpo che si fa sempre più preciso, più letale, è una rasoiata sull’anima,  propria e dell’ascoltatore. Ecco il teatro nudo, con il corpo offerto per l’eterna alleanza sul pubblico, che fa deragliare il logos a poco a  poco; ma, centimetro dopo centimetro, senza accorgersene, ci si ritrova nel cerchio di Dioniso.

Immagine della recensione dello spettacolo Vecchi tempi
Ph Emma Terenzio

Maria Eugenia D’Aquino è una moglie che, progressivamente, rende il suo sorriso, dolce e timido, letale quanto il pendolo di Poe, mentre il pozzo potrà sempre essere riempito con altro liquore nel bicchiere. I suoi silenzi sono monologhi micidiali, e la sua laringe suona un jazz sincopato. Riccardo Magherini jekylleggia parola dopo parola, ha nella gola dei meravigliosi artigli retrattili, pronti a strappare lembi di carne dell’anima; ma, quando fa tintinnare il ghiaccio, ti sembra di sentire l’attesa della lama della ghigliottina dalla parte del condannato. E la poltrona su cui si siede sembra portare le vestigia, l’eco delle sue tempeste emotive. Annig Raimondi ha una voce che viene dal dentro del dentro, da un cantuccio dell’anima dove Tom Waits suona un blues struggente. Recitano i suoi passi, i suoi piedi, i suoi tacchi, che non hanno nulla da invidiare ai coturni della tragedia. Si mette lì, sul bordo dell’ultimo precipizio, e sembra  più spaventato l’abisso nel vederla, che lei nell’osservarlo.

Gli interpreti fanno uno stupendo gioco di squadra, dove ognuno si lascia recitare dall’altro, si lascia arricchire dall’altro. Un gioco degno del miglior Brasile calcistico, dove la palla passa tra i piedi di un giocatore all’altro, e pare sempre stregata. Tutte le dosi sono giuste, non c’è parola che manchi il suo bersaglio. Ci si muove nel labirinto dei ricordi con la disperazione di Nicholson in Shining. Il dubbio è sempre lì, dietro l’angolo, pronto a giocare a nascondino con ogni possibile certezza. Un eccezionale gioco al massacro, che si compie un fonema alla volta. Si scava e si scava, ancora e ancora, senza mai accontentarsi; e, a furia di bicchieri,  ci si accorge di quanto sia profonda la tana del Bianconiglio. Pinter insegna che non c’è inferno così abissale da non poter nascondere un doppiofondo. De Sade ha trovato delle parole, terribilmente affilate, per torturare l’anima. Gli applausi finali sono meritatissimi, per questo Grand Guignol psichico ed emotivo.

Immagine della recensione dello spettacolo Vecchi tempi
Ph Emma Terenzio

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