Immagine dello spettacolo Soli con tutto

Soli, con tutto – Recensione Teatro

in Teatro

Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Soli con tutto, con Paolo Faroni ed Elisabetta Misasi. Il testo è di Paolo Faroni, Elisabetta Misasi, e Massimo Canepa. La regia è firmata da Paolo Faroni ed Elisabetta Misasi. Le scene e le luci sono curate da Massimo Canepa.

Un uomo e una donna che parlano sono il perfetto big bang teatrale, e che big bang: stiamo parlando della nascita di un universo scenico che ti esplode davanti, che ti sporca di emozioni e di vita. E’ uno scambio di due giocatori di ping pong, in cui ci si chiede come diavolo faccia, il giocatore che risponde, a rimandare la pallina dall’altra parte del tavolo; eppure, lo fa. Ci avete mai badato? Nei dialoghi che filano dritti dritti come un treno ad alta velocità, esatti come il taglio di bisturi del miglior chirurgo, c’è sempre l’odore di qualcosa di americano. Si sente il profumo di un caffè abbondante che ti tiene sveglio, e ti fa pulsare le vene delle tempie. Strasberg, Meisner, Stella Adler sono tutti lì, in quello scambio di parole, vero come certi schiaffi, che ti bruciano a lungo sulla guancia.

Paolo Faroni ed Elisabetta Misasi prendono Strindberg, Bergman e la loro drammaturgia, li fanno salire su una Lamborghini e schiacciano pesantemente l’acceleratore, lasciando andare la frizione del tempo sospeso. Non hanno paura di Virginia Woolf, e delle litigate tra Burton e la Taylor: anzi, non hanno nulla da invidiare a quei match di pugilato verbale. Prendono spunto dalla famosa frase di Muhammad Alì pungi come un’ape, e vola come una farfalla. Partendo dal testo del russo americano Alex Gelman, raccontano l’orrore quotidiano della famiglia: non solo mostrano la polvere sotto il tappeto, ma la rendono così irresistibile da farci dimenticare il tappeto stesso. Allentare una cravatta diventa il gesto psicologico esatto, preciso, necessario, come una serie di sponde di una pallina da biliardo destinata, dopo quella passeggiata geometrica, ad andare lì dove dovrebbe andare. Fa piacere, davvero, accorgersi di tutto il lavoro di minuta, certosina costruzione di affiatamento che hanno saputo realizzare i due interpreti.

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La semplicità, e il lavoro di distillazione in purezza del dialogo, sono una conquista faticosa. I due si graffiano reciprocamente l’anima, se la accoltellano; uxoricidi della verbalità, assassini metafisici dell’anima del coniuge, rivisitano la massima cartesiana rendendola loquor ergo sum, parlo dunque sono. Ma la condizione perché l’esistenza scenica trovi la sua causa finale, la sua realizzazione piena, è una parola che diventi scontro, un’identità che, trovando la conferma di sé nello specchio dell’altro, lo voglia rompere. La lotta è senza quartiere, e sono ammessi tutti i colpi. Non c’è pace, né tregua, bensì uno stato di perpetua belligeranza che chiama in causa tutte le strategie: la guerra lampo, l’invasione, il bombardamento, le incursioni dietro le linee nemiche. Charlie, il nemico delle foreste del Vietnam, è il coniuge. Mentre il figlio, presenza/assenza, motore invisibile di questa vicenda, è la vittima sacrificale perfetta, l’agnello che svela i peccati del mondo familiare.

Si prendono a colpi di figlio in faccia, letteralmente, i due personaggi; lo usano come un’arma, lo rivendicano come un territorio proprio da militarizzare. Appare, perciò, dentro un salotto borghese, l’inferno, uno di quelli molto lontani dal modello dantesco. Qui non c’è un fondo, si continua a cadere, precipitare. E, come in certi cartoni animati, si finisce per arredare quella caduta, ricoprirla di un’impossibile normalità. La cosa più inquietante  è il fatto che questi due personaggi non siano poi così irreali, non rappresentino un orizzonte lontano. Incarnano, piuttosto, quel ritratto di Dorian Gray dei difetti interiori, un quadro che invecchia, si deturpa e porta i segni delle nostre colpe. I loro gesti sono i nostri gesti; i silenzi, le piccole e grandi nevrosi, le maschere, le verità nascoste ci calzano a pennello, come un vestito sartoriale fatto su misura.

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Frustrati, depressi, dolorosamente vitali, celebrano una Messa laica del quotidiano vivere, sbranandosi a vicenda. Paolo Faroni, letteralmente, si tuffa, fin dall’inizio, nel personaggio, lasciandosene permeare. Si ingolla generosi bicchieri di recitazione alla Mamet, ed è un venditore eccezionale, che sa conquistare il cliente. Ti incanta con le parole, te le fa agilmente muovere davanti, come una moneta tra le dita. Ma, al momento giusto, sa diventare un altro. Si fa parlare dalle parole, le lascia deragliare nelle intenzioni devianti, nel corto circuito di un inconscio che è proprio lì a due passi, dentro il bicchiere di superalcolico. Mostra, spillandola, al pari di un esperto giocatore, l’altra faccia della sua luna: ed è una faccia scomoda, da schiaffi, fragile più di un cristallo di Boemia, debole ed opportunista. Elisabetta Misasi restituisce colpo su colpo: è l’avversario ideale, è quello specchio su cui si fracassa la mano l’ubriaco Sheen, in Apocalypse Now.

E’ una cresciuta Alice nel paese delle dis- meraviglie, e sa, oh, se lo sa, quanto è profonda la tana del Bianconiglio. Le sue parole bruciano come sigarette spente sulla pelle. Bastano certi sguardi per inchiodare e imprigionare la farfalla dell’anima del coniuge, trapassandola con lo spillo delle proprie considerazioni. Sacrifica anche lei, sull’ara della reziana divinità del massacro, la carne di suo marito. Certe intuizioni non possono che venire dal femminile, la cui natura può essere materna, o di una spietata Medea. Alcuni suoi silenzi, alcuni sovrappensieri sono stilettate che ti entrano nei polmoni, e ti tolgono la possibilità di gridare per chiedere aiuto. Come canta De Andrè: se tu penserai, se giudicherai da buon borghese, li condannerai a cinquemila anni più le spese, ma se capirai, se li cercherai fino in fondo, se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo.

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