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Mino Manni

Mater – Recensione teatro

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo Mater

Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Mater. Il progetto drammaturgico e la regia sono curati da Mino Manni e Marta Ossoli, con il contributo di Fabrizio Kofler. L’interprete è Diana Ceni.

Diana Ceni ha un sorriso che vale tutta una summa theologiae; ha un quarto di luna appoggiato sul viso, a illuminare la notte della coscienza. Sorride, e l’orizzonte di quel sorridere è quasi metafisico. Sembra un’illuminazione interiore, stato dell’essere che filtra da un pertugio, facendo venire voglia, allo spettatore, di aprire quella porta, per vedere pienamente la luce. Quell’incurvatura ha qualcosa di dostoevskjiano, di mariano: emana una misercordia, un senso profondo di compassione per l’altro da sé.  Era fatale, sillogisticamente sicuro, che, prima o poi, da attrice, si confrontasse con l’archetipo della madre, della Maria evangelica. Ma, qui, non incarna una Madonna qualunque, un ritrattino agiografico, di fronte al quale appoggiare un lumino commemorativo; piuttosto, un personaggio con il codice genetico emotivo, psichico, spirituale che potrebbe appartenere a una creatura testoriana. Ѐ soprattutto carne, carne mischiata, fatalmente impastata e indistinguibile dal vento dell’anima che la agita.

E il dolore nelle viscere è più vivo; si amplifica come un requiem, come un’opera sinfonica suonata da tutto il corpo, che si torce, si piega, divenendo calligrafia della sofferenza, frase esistenziale grassettata che arriva, come una freccia, dritta dritta fino al cielo, per farlo sanguinare. La madre del dolore si alterna, meravigliosamente, con quella della tenerezza riservata al bimbo in fasce. In un tempo che non è più cronologico, ma è quello della memoria interiore, che fa andare, a suo piacimento, avanti e indietro la pellicola dei fatti, presente e passato si sovrappongono, come momenti della stessa coscienza, e l’ideale madeleine proustiana consumata dalla protagonista sa, terribilmente, di sale. L’azione è portata nella cascina, nella verità di un quarto stato concreto, vicino alla terra più del Calibano de La Tempesta di Shakespeare.

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In un grammelot evocante i sapori dei paesi che sfilano lungo i finestrini delle Nord, quando ancora ci si sedeva sul duro legno, la madre pare uscita dal pennello rabbioso di un pittore naїf, e incarna, con crescente intensità, il ruggito della tigre di Ligabue. Ascoltando questi fonemi così materici, così fantasticamente modellati sulle emozioni loro genitrici, si è presi da una sorta di incantamento, di allucinazione olfattiva. Sembra quasi di poter sentire gli odori rurali, dell’aia, delle bestie che alitano, combattendo, con la coda, i tafani nella stalla; ma anche l’odore dell’aria che si lascia contaminare dalla terra, creando la metafora perfetta dell’essere umano, lì, nell’impossibile via di mezzo tra la materia e il cielo. E poi c’è l’urlo, fatto di assordante silenzio, in cui mandibola e mascella lottano per rompere le catene che le tengono unite.

Impallidisce, l’Urlo di Munch, di fronte al dolore di una madre che perde il figlio, e che diventa tragica poesia. D’altra parte, è stata la poetessa Alda Merini a ricordarci che il motore della poesia avviene da questo straziante strappo. La Sindone espressionista, impressa su di un telo, lascia esplodere i suoi colori fatti di terra e di sangue raggrumato, traducendo in forma visiva il bachiano Vangelo secondo Matteo (parte, fra l’altro, della colonna sonora dello spettacolo). Diventa impronta non solo di un corpo, ma di una sofferenza, che, per rendere pienamente l’idea di sé, si fa tanto cosa sensibile, uscendo dal territorio linguistico, quanto traccia tangibile, annunciandosi agli spettatori in tutta la sua tragicità. La Passione è già avvenuta, il rovesciamento dell’antico dramma si è compiuto; a sigillo di ogni possibile tragedia, qui è il dio a sacrificarsi, chiudendo i conti con la dike.

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La divinità si è carrucolata in scena fin dall’inizio della vicenda, e chiede all’essere umano di diventare il nuovo deus ex machina. Mentre la madre diventa tutta un cuore dolorante; perfino l’anima si fa muscolo cardiaco. E tra gli atri ed i ventricoli, in quell’ambiente  perennemente umido di sangue, si ramificano nervi, che regalano un secondo cervello, una seconda mente a questa palpitante creatura. E questa ragione cardiaca non solo non è conosciuta dall’altra ragione, a più alte latitudini del collo, ma nemmeno da Pascal stesso. Diana, inoltre, in certi momenti, per utilizzare un’espressione dantesca, sembra letteralmente trasumanare; come posseduta da un daimon, entra in trance, e si ha la netta sensazione che parli sotto la dettatura di un invisibile angelo dionisiaco. In quei momenti, i suoi occhi sono illuminati da una luce del tutto particolare e unica, mentre la carne si fa marmo della poesia.

E quanto i suoi respiri sono essi stessi musica, anzi la sua più alta espressione, come tacet presenti sullo spartito del copione. E’ come se trattenesse nei polmoni il tempo suo e degli spettatori. Ansima l’attrice, fatica, ma sempre con gioia e serenità; si lascia attraversare da questa corrente impietosa e tumultuosa, abbandonandovisi con la grazia angelica di un’Ofelia adagiata nel suo letto liquido. Trasforma il sudario nelle fasce di un bimbo, e poi nel tableau vivant della Pietà michelangiolesca. E c’è buono, come canta Mina, che al momento giusto sa diventare l’altra, e abbraccia selvaggiamente, con la sua voce, con il suo sguardo, l’intera platea. E alla fine torna, sui generosi applausi, quel sorriso che si mangia tutto il mondo in un boccone, che è tutto il senso di una vita, al pari del fiore di Loto mostrato dal Buddha, come miglior risposta a qualunque dubbio.

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L’uomo,la bestia e la virtù

in Teatro
Immagine della recensione L'uomo la bestia e la virtù

Nell’ambito della rassegna teatrale 2021/2022 del Teatro Oscar vi presentiamo la recensione dello spettacolo L’uomo, la bestia e la virtù di Luigi Pirandello. La regia è curata da Alberto Oliva. Gli interpreti sono Mino Manni, Rossella Rapisarda, Gianna Coletti, Andrea Carabelli, Riccardo Magherini, con la partecipazione del baritono Angelo Lodetti.

Il circo è un meraviglioso modo di dire il mondo, di tingerlo con i colori forti, violenti, della pittura espressionista, per rendere le sue storture ancora più storte, come le scenografie del gabinetto del dottor Caligari. La vita mette in mostra se stessa nella maschera più estrema, quella del clown, in grado di sovraimprimere in se stessa il tragico e il comico. Tutto questo il regista Alberto Oliva lo sa, e ambienta la commedia pirandelliana in una pista da circo dove possono sfilare, oltre i cavalli astronomici del Woyzeck, le bestie, gli uomini e le virtù del drammaturgo pirandelliano. Può succedere, dunque, che la moglie del capitano diventi una sorta di attrazione circense, una Lola Montès ophulsiana che veste la giubba, la faccia infarina, e tramuta in lazzi lo spasmo e il pianto. Nel clown la maschera è dichiarata, volutamente esagerata, un po’ disturbante.

Si impregna dell’odore della tragedia e della paura, nascosto dai belletti e dai profumi. Già Pirandello sapeva che la borghesia aveva un fascino irresistibile, un laboratorio antropologico, morale, spirituale, nel quale sperimentare la quiddità umana. Riecheggia idealmente la voce di Bowie a ricordarci che questo è il freakiest show, e si può mettere un bel sorriso sulla faccia del dramma di una moglie, facendolo apparire quasi come il sangue di un Glasgow smile. La risata è irresistibile, trascinante, è un meccanismo a orologeria, una clockwork orange, in cui ogni ilarità della platea è una spietata ultraviolenza psichica, trascinata vorticosamente dal direttore di questo circo. Portando idealmente in tasca la frase felliniana “la vita è una festa, dunque viviamola” gli interpreti, sul laboratorio alchemico del palcoscenico, trasformano il piombo della quotidianità dolorosa della middle class nell’oro dell’ilarità. La clownerie è l’atto più estremo, più rivoluzionario che si possa compiere in scena.

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Le dinamiche sociali sono spietatamente portate sul piano cartesiano della pista del circo. Bambole e bambolotti biomeccanici mantengono la carica anche oltre ai giri della loro chiavetta, sono esseri che hanno ancora una coscienza a illuminare il loro sguardo, disegnano una simbolica lacrima di Pierrot sul loro viso. È sempre un’esperienza incredibile, stupefacente, quella di assistere alla dimostrazione, more geometrico, di una commedia, di un’architettura vertiginosa che sale con l’arditezza delle cattedrali medievali verso il cielo dell’umorismo. Il susseguirsi dei teoremi delle battute, dedotti uno dopo l’altro, le pause che si incastrano come il giusto pezzo di un puzzle, le voci che si arrampicano verso la testa, sono la testimonianza più vive di questo. E mentre il ventre si gonfia di un’epa falstaffiana, mentre i costumi si colorano della magia circense, l’irrealizzabile libertà dell’io pirandelliano, l’impossibile guardare il proprio guardare, è ben visibile dietro i ceroni e le iperboli.

Oliva ha scrollato di dosso l’accademica e polverosa pirandellinità a Pirandello, rivivificandone il senso  nella musica trascinante, furba, chiassosa,vitale del circo. Il bambino diventa un adulto figlio di qualche dio minore, che ha trovato un improbabile insegnante di sostegno nel professore. Il capitano non è più semplicemente l’orco grottesco che appare nella storia, ma porta in dote, con la sua apparizione, tutta la bestialità di un certo quotidiano, dei brutti, sporchi e cattivi del XXI secolo. Diventa un Popeye che ha preso tutti i vizi di Bruto, che al posto degli spinaci mangia la torta al cioccolato. Mino Manni è un professore, direttore, presentatore di questo circo sociale, ha una sorta di stato di grazia attraverso il quale trova un sorriso che va ben al di là delle categorie dei sorrisi. Si mostra, allo stesso tempo, grottesco, agghiacciante, seduttivo. Porta su di sé tutti gli odori sulfurei delle trasposizioni dostoevskiane.

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Gioca febbricitante, senza risparmiarsi, in questa nuova Roulettenburg. Punta tutte le sue fiches esistenziali, vincendo, e facendo saltare il banco. Il demone ben si sposa con la commedia, e mostra ancor più l’evidenza del lato osceno, bestiale dell’animo umano, con la stessa lucida spietatezza con cui viene presentato nel baraccone l’elephant man di turno. Rossella Rapisarda è una moglie al di là del comico e del tragico, un essere molto più a sud degli ultimi santi di Bene, una bambola in cattività nella sua ibseniana casa di bambole, il pagliaccio che ha sempre quel retrogusto un po’ amaro, un po’ triste, che rimane sul palato come il più persistente dei tannini. Gianna Coletti è la duplice serva, stufa del suo ruolo meccanico, della sua fatica sisifesca, che è comica suo malgrado, porta una voce che si fa pietra, profonda, irresistibilmente comica per una platea che vede la sua critica puntuale.

È fatta di poche frasi, di camminate straniate, brechtiane. Oltre a sedersi dalla parte del torto, ha imparato ad accomodarsi dove vuole. Andrea Carabelli nel ruolo duplice del farmacista e del medico, due facce opposte della stessa medaglia, il dionisiaco e l’apollineo, è il perfetto clown bianco, quello che ci prova ancora a misurare e controllare il mondo con la ragione, ma non ha un metro abbastanza lungo per farcela. Riccardo Magherini è un capitano perfetto, una nuova maschera del terzo millennio della commedia dell’arte, un capitan Fracassa in pieno disarmo civile e morale, che riesce a fracassare giusto la sua tavola. È un po’ come una spezia in grado di regalare un gusto inconfondibile a questa ricetta teatrale. E infine il bambino adulto, il baritono Angelo Lodetti, è capace di lasciarsi giocare da questo gioco, conservando un’innocente lucidità, e cantando quello che le sue parole non potrebbero dire.

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