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Ph Maurizio Anderlini

Il Maestro e Margherita – Recensione Teatro

in Teatro

All’interno della sinergia fra La tana degli artisti e Portiamo il teatro a casa tua vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Il Maestro e Margherita. La drammaturgia è ispirata all’omonimo romanzo di M. Bulgakov. La regia è curata da Mario Gonzalez. Gli interpreti sono Nicola D’Emidio e Chiara Sarcona.

Prima di tutto vengono gli occhi, due supernovae, lì lì per esplodere anima da un momento all’altro. Inizia così lo spettacolo, attratto da questa irresistibile forza gravitazionale, concentrato in un corpo che si fa tutto, moltiplicandosi, piegandosi, plasmandosi sotto le mani demiurgiche, invisibili del testo scenico. La scommessa è tra le più ardue: rendere un romanzo come Il Maestro e Margherita, ricco di colori, personaggi e comparse più di un infernale quadro di Bosch, o dell’Entrata di Cristo a Bruxelles di Ensor, attraverso una coppia, una sizigia composta da un’attrice e un attore. La scommessa non solo viene accettata, ma decisamente è vinta con l’unico espediente possibile, vale a dire un’energia atomica che farebbe esplodere, tutti insieme, 100 atolli di Bikini. Corre veloce questo spettacolo, corre con i piedi del campione mondiale centometrista Usain Bolt. Non ha nemmeno bisogno di tirare il fiato, perché, bontà sua, prende in prestito persino tutti i polmoni della platea, per respirare.

Sia l’attore che l’attrice offrono meravigliosi “sguardi in macchina”, abbattendo, a colpi di generosa interattività, la quarta parete. Non riuscirebbe a sbadigliare neppure un narcolettico, di fronte allo spettacolo di arte varia di questi due interpreti. Guardando, ascoltando questa pièce, anzi, vivendola dalla parte della platea, non si può non essere visitati da una nuova, necessaria, rinvigorita intuizione della commedia, della sua ragion d’essere. E’ tutto un valzer di sorrisi, di risate; una gioia della vita che trova la sua cerimonia, sacra e umanissima, sul palcoscenico. Il Komos, la radice della commedia, l’euforia, che accompagnava le antiche cerimonie per celebrare la fertilità della terra, e per estensione, il rinnovarsi di ogni forma di vita, torna a farsi sentire come canto libero e selvaggio, come forza motrice. Signore e signori, ecco nuovamente che la vita, in tutta la sua tridimensionalità percettiva, si esprime sul palcoscenico come unicum.

Immagine de Il Maestro e Margherita
Ph Maurizio Anderlini

Al pari del fiume di Eraclito, travolge felicemente, con immensa freschezza e irripetibilità, gli spettatori. Si scorrono, idealmente, le pagine del libro: la Mosca stalinista degli anni ’30, la critica meravigliosa a quella distorta forma di materialismo storico fatto dalla magia nera, dall’abracadabra mistico, esoterico del diavolo Voland – che gioca con la bacchetta di una metafisica, molto fisica, prossima alla patafisica di Jarry-, l’umanesimo sociale di Gesù e persino di Pilato, l’amore invincibile, folle e delicato tra il Maestro e Margherita. Tutto questo vive, in forma di pellicola corporea, sulla scena. Posseduti non da un singolo demone, invero più prossimo al pungolante e stimolante daimon socratico, ma da una intera legione, si cambiano il vestito d’anima dei vari personaggi, con la velocità e destrezza di un Fregoli, o di un contemporaneo Brachetti. E sudano: prova scientifica, inequivocabile, di uno sforzo continuo, tentativo di trovare un motus perpetuus in grado di sfidare qualunque attrito.

Coprono, con i propri fonemi, le latitudini degli italici idiomi, e di quelli stranieri. Il momento di divertita, e divertente, metateatralità dello spettacolo del diavolo potrebbe essere una lectio magistralis su come costruire una scena comica, avendo solo i propri corpi a disposizione. Ecco il patto di fruizione, il cortocircuito semantico, voluto, di una comicità irresistibile, con mani che portano la loro evidenza di essere solo mani, e, contemporaneamente, qualcosa di altro, come le pipe di Magritte. Mentre l’assistente, in grammelot ispanico, gioca con gli spettatori con la forza di un fiore che, semplicemente dagli occhi, viene, a un tempo,  visto, toccato e odorato. Come vive questa vita scenica, come lo fa bene, gustandosi lo stesso banchetto rimpianto dal buon Rimbaud, un banchetto  cui sono caldamente invitati a partecipare gli stessi spettatori. La voce calda, suadente, soffiata, del Mastroianni felliniano risuona, qui, come un’intenzione sottesa a ogni battuta e gesto: la vita è festa, viviamola insieme.

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Ph Maurizio Anderlini

La magia del diavolo di Bulgakov  diventa, qui, la riscoperta dell’irrazionale, meritata irrisolvibilità dell’equazione umana; del raccontarsi, senza sconti, senza infiorettature retoriche da laringi bronzate,  dell’essere umano, nella sua gioiosa assurdità. Chiara Sarcona è, letteralmente e prirandellianamente, una, nessuna e centomila: si dimostra, in scena, creatura proteiforme, prisma attraverso cui la luce del testo, rifrangendosi, si moltiplica in tutti i colori delle anime dei personaggi interpretati. E quella voce, leggermente grattata, che porta su di sé gli odorosi e tattili grumi di una pittura materica, si piega con la naturalità di un esercizio di ginnastica artistica, per entrare perfettamente nel vestito di ogni figura. Sacerdotessa della comicità, Pizia di un Apollo in alcolica licenza poetica, fa del suo corpo la moltiplicazione dei suoi fonemi, e della sua presenza fisica una monumentale scenografia. Ha duende, carattere, spirito in sovrabbondanza, da dividere con la platea.

Nicola D’Emidio, zanni in trasferta moscovita, diavolo biomeccanico, tratta gli sguardi come cosa salda. E timbra, marca anche il più piccolo suono, per mostrarlo agli spettatori con la stessa meraviglia di un bimbo che si accorga di un cristallo di neve, visibile, sulla manica del cappotto. Con la grazia innaturale del Nijinsky di Battiato, si muove sulla scena componendo  curvilinei quadri di Kandinskij. La sua bacchetta magica è fatta di due mani che danzano, come meduse oceaniche. Mentre il regista, Mario Gonzalez, riesce a rendere visibile un lavoro di rifinitura portato avanti con la dovizia dell’artigiano orafo. Il tempo dello spettacolo non è quello cronologico, ma quello cairologico, qualitativo, delle buone occasioni, in grado di allungarsi, rendendo ogni singola risata una presa di coscienza, che rende il qui-e-ora fecondato dalla consapevolezza. Non se ne dispiaccia, Cartesio, del fatto che il suo cogito ergo sum venga, qui, definitivamente emendato nel più spontaneo rideo ergo sum.

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Ph Maurizio Anderlini

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