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Danilo Caravà - page 2

Danilo Caravà ha 80 articoli pubblicati.

Mater – Recensione teatro

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo Mater

Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Mater. Il progetto drammaturgico e la regia sono curati da Mino Manni e Marta Ossoli, con il contributo di Fabrizio Kofler. L’interprete è Diana Ceni.

Diana Ceni ha un sorriso che vale tutta una summa theologiae; ha un quarto di luna appoggiato sul viso, a illuminare la notte della coscienza. Sorride, e l’orizzonte di quel sorridere è quasi metafisico. Sembra un’illuminazione interiore, stato dell’essere che filtra da un pertugio, facendo venire voglia, allo spettatore, di aprire quella porta, per vedere pienamente la luce. Quell’incurvatura ha qualcosa di dostoevskjiano, di mariano: emana una misercordia, un senso profondo di compassione per l’altro da sé.  Era fatale, sillogisticamente sicuro, che, prima o poi, da attrice, si confrontasse con l’archetipo della madre, della Maria evangelica. Ma, qui, non incarna una Madonna qualunque, un ritrattino agiografico, di fronte al quale appoggiare un lumino commemorativo; piuttosto, un personaggio con il codice genetico emotivo, psichico, spirituale che potrebbe appartenere a una creatura testoriana. Ѐ soprattutto carne, carne mischiata, fatalmente impastata e indistinguibile dal vento dell’anima che la agita.

E il dolore nelle viscere è più vivo; si amplifica come un requiem, come un’opera sinfonica suonata da tutto il corpo, che si torce, si piega, divenendo calligrafia della sofferenza, frase esistenziale grassettata che arriva, come una freccia, dritta dritta fino al cielo, per farlo sanguinare. La madre del dolore si alterna, meravigliosamente, con quella della tenerezza riservata al bimbo in fasce. In un tempo che non è più cronologico, ma è quello della memoria interiore, che fa andare, a suo piacimento, avanti e indietro la pellicola dei fatti, presente e passato si sovrappongono, come momenti della stessa coscienza, e l’ideale madeleine proustiana consumata dalla protagonista sa, terribilmente, di sale. L’azione è portata nella cascina, nella verità di un quarto stato concreto, vicino alla terra più del Calibano de La Tempesta di Shakespeare.

Immagine della recensione dello spettacolo Mater

In un grammelot evocante i sapori dei paesi che sfilano lungo i finestrini delle Nord, quando ancora ci si sedeva sul duro legno, la madre pare uscita dal pennello rabbioso di un pittore naїf, e incarna, con crescente intensità, il ruggito della tigre di Ligabue. Ascoltando questi fonemi così materici, così fantasticamente modellati sulle emozioni loro genitrici, si è presi da una sorta di incantamento, di allucinazione olfattiva. Sembra quasi di poter sentire gli odori rurali, dell’aia, delle bestie che alitano, combattendo, con la coda, i tafani nella stalla; ma anche l’odore dell’aria che si lascia contaminare dalla terra, creando la metafora perfetta dell’essere umano, lì, nell’impossibile via di mezzo tra la materia e il cielo. E poi c’è l’urlo, fatto di assordante silenzio, in cui mandibola e mascella lottano per rompere le catene che le tengono unite.

Impallidisce, l’Urlo di Munch, di fronte al dolore di una madre che perde il figlio, e che diventa tragica poesia. D’altra parte, è stata la poetessa Alda Merini a ricordarci che il motore della poesia avviene da questo straziante strappo. La Sindone espressionista, impressa su di un telo, lascia esplodere i suoi colori fatti di terra e di sangue raggrumato, traducendo in forma visiva il bachiano Vangelo secondo Matteo (parte, fra l’altro, della colonna sonora dello spettacolo). Diventa impronta non solo di un corpo, ma di una sofferenza, che, per rendere pienamente l’idea di sé, si fa tanto cosa sensibile, uscendo dal territorio linguistico, quanto traccia tangibile, annunciandosi agli spettatori in tutta la sua tragicità. La Passione è già avvenuta, il rovesciamento dell’antico dramma si è compiuto; a sigillo di ogni possibile tragedia, qui è il dio a sacrificarsi, chiudendo i conti con la dike.

Immagine della recensione dello spettacolo Mater

La divinità si è carrucolata in scena fin dall’inizio della vicenda, e chiede all’essere umano di diventare il nuovo deus ex machina. Mentre la madre diventa tutta un cuore dolorante; perfino l’anima si fa muscolo cardiaco. E tra gli atri ed i ventricoli, in quell’ambiente  perennemente umido di sangue, si ramificano nervi, che regalano un secondo cervello, una seconda mente a questa palpitante creatura. E questa ragione cardiaca non solo non è conosciuta dall’altra ragione, a più alte latitudini del collo, ma nemmeno da Pascal stesso. Diana, inoltre, in certi momenti, per utilizzare un’espressione dantesca, sembra letteralmente trasumanare; come posseduta da un daimon, entra in trance, e si ha la netta sensazione che parli sotto la dettatura di un invisibile angelo dionisiaco. In quei momenti, i suoi occhi sono illuminati da una luce del tutto particolare e unica, mentre la carne si fa marmo della poesia.

E quanto i suoi respiri sono essi stessi musica, anzi la sua più alta espressione, come tacet presenti sullo spartito del copione. E’ come se trattenesse nei polmoni il tempo suo e degli spettatori. Ansima l’attrice, fatica, ma sempre con gioia e serenità; si lascia attraversare da questa corrente impietosa e tumultuosa, abbandonandovisi con la grazia angelica di un’Ofelia adagiata nel suo letto liquido. Trasforma il sudario nelle fasce di un bimbo, e poi nel tableau vivant della Pietà michelangiolesca. E c’è buono, come canta Mina, che al momento giusto sa diventare l’altra, e abbraccia selvaggiamente, con la sua voce, con il suo sguardo, l’intera platea. E alla fine torna, sui generosi applausi, quel sorriso che si mangia tutto il mondo in un boccone, che è tutto il senso di una vita, al pari del fiore di Loto mostrato dal Buddha, come miglior risposta a qualunque dubbio.

Immagine della recensione dello spettacolo Mater

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La Lupa – Recensione teatro

in Teatro
Immagine della recensione della Lupa

Nell’ambito della rassegna teatrale di STN-Studionovecento, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo La Lupa, con Ailin Tracchia, Allegra D’Imporzano, Andrea Bonzi, Andrea Pella, Angelica Topolino, Bianca Cerro, Bianca del Basso, Giacomo Piseri, Lorenzo Fonti e Valentina Sangalli. La drammaturgia (liberamente tratta da Giovanni Verga) e la regia sono a cura di Marco. M. Pernich.

La Lupa non è un semplice personaggio, non è soltanto l’estrema incarnazione dell’ennesima Medea: è una categoria dell’anima, uno stato dell’essere, la quintessenza di Dioniso e, quindi, dello spirito del teatro. E Dioniso è, a sua volta, quello che si potrebbe definire una sorta di anti-divinità, nel rifiuto di adeguarsi passivamente al Fato, all’ineluttabile metafisico. Insomma, la Lupa è quanto di meglio si possa trovare, per ricreare lo spirito della stessa tragedia che viveva nel teatro di Dioniso. Il regista, Marco Pernich, trasforma la scena in un’orchestra e crea una skenè, ritrovando la parola che, con la propria libertaria divinità, sfida quella degli altri Numi. La protagonista si muove come una creatura a quattro zampe, aracnica, vissuta da un divino irriverente che si esprime, in pieno, nella carne. Sembra vivere, pervasa da una forza irresistibile, in una cerimonia di Candomblè, i cui partecipanti, danzando e muovendosi  freneticamente, sono abitati dalle divinità.

Come sarebbe piaciuto a Fersen, questo lavoro teatrale. Non più un approccio teologico alla scena, bensì teurgico, in cui i cieli siano dichiarati disabitati, e l’umano si apra a un disperato e disperante fiato “numinoso”.  La Lupa è una dea madre, un’Ecate, un’Astarte , un’Iside, una Kali: è l’eterno femminino, necessariamente umorale e carnale. Scopre i seni come gesto rituale, apotropaico, che la trasforma in un archetipo, in un segno di una poesia profondamente sensoriale, percettiva. Fa l’amore non solo con il corpo, ma con i pensieri, con i gesti, con le parole, rivendicando un approccio “orgasmico” con la realtà; se gli dèi condannano alla fine, che sia, come la definiscono i francesi, una douce mort. La figlia, apparentemente passiva, è, in realtà, l’elemento in grado di scardinare i meccanismi classici della tragedia. La sua inazione è più una rivendicazione esistenziale, volontà di porsi all’estremo opposto rispetto alla madre.

Immagine della recensione dello spettacolo La Lupa

Ecco perché rifiuta il rito del capro espiatorio da compiere sulla madre; ecco perché, con la potenza di un Bartleby melvilliano, dichiara il suo inemendabile “avrei preferenza di no”. L’uomo della Lupa è il classico eroe tragico sofocleo, giocato a dadi dagli dèi: ora libero, ora prigioniero, ora ateo materialista, ora credente penitente, pronto a sfilare in processione. Sua sorella e il rispettivo compagno cercano di sfuggire all’irresistibile forza centripeta di questa storia, all’Ananke che si stringe intorno alla gola della Lupa; riescono ad accomiatarsi nel finale, sparendo dalla storia. Escono dalla luce del cerchio di Dioniso, perché si prepari il woyzeckiano finale, illuminato dalla luce rossa di un coltello. Il coro delle tre Parche, intanto, fila la storia, la osserva, la metabolizza, la normalizza nel filato delle parole e del testo scenico. Si animano in un rito arcaico, profondamente e deliberatamente pagano.

Rappresenta la loro luna nera, la parte oscura delle comari, che guardano la storia intorno a loro come regine del tua culpa. Niente è davvero come sembra: tutto scorre, i sentimenti, le personalità, ed Eraclito regna incontrastato. Il prete cerca di rivestire i panni di uno stanco raisonneur, che proprio fa fatica a far stare il quadrato della razionalità apollinea nel cerchio di Dioniso. Mentre, sul fondo della scena, il punto di fuga è rappresentato da due mezzibusti bianchi: vestigia di una metafisica pittorica, dechirichiana, simboli del maschile e del femminile che hanno abbandonato il tao del nero contrapposto al bianco. Ogni scena è un tableau vivant, un quadro in movimento; una ricca  iconografia fatta, prima di tutto, di immagini, di distanze e vicinanze che si giocano, ogni volta, in forma differente. Gli dèi si negano e si abiurano, sconfessandosi, perché possano nascere in altre forme.

Immagine della recensione dello spettacolo La Lupa

Si tiene conto della lezione di Dioniso, pronto, come la fenice, a rinascere dalle proprie ceneri. La tragedia è una summa del grande triumvirato greco: Eschilo nel dinamismo irresistibile dei personaggi; Sofocle nel terribile gioco del gatto col topo, compiuto dal Fato nei confronti dell’umano; Euripide, infine, nella dialettica, nella scoperta delle voragini psicologiche dei personaggi, nel comprendere che ci sono più cose nell’umano che in cielo e in terra, rovesciando l’assunto di Polonio. Le luci tagliano, delineano, questi marmi umani, viventi. Una vampa di irrazionalità, di passione, splendidamente valorizzata, nei pieni orchestrali, da una luce rosso sangue. I luoghi deputati dell’azione hanno la caratteristica della circolarità, dell’eterno ritorno; raccolgono i personaggi come i numeri sul quadrante dell’orologio, mentre i corpi tagliano come lancette il tempo, lo sfibrano, lo accorciano o lo allungano.

Sono come le gambe di Woyzeck, un rasoio pronto a tagliare la gola al placido scorrere delle cose. Il maresciallo tenta di trovare una normalità che non esiste, e non ha nemmeno un soldato con cui lagnarsi, mentre si fa fare la barba. La processione religiosa è un istante meravigliosamente congelato nella calura siciliana: un falso movimento, un’immagine che sta per muoversi, minaccia di farlo, ma non lo fa. La rappresentazione iconica del sacro non riesce a muovere un passo, mentre la Lupa ne muove molti, uno dopo l’altro. Incarna la convinzione granitica di un’Antigone, la sensualità magico-misterica di una scatenata Medea, e porta in sé un’intera legione di Baccanti, pronte a consumare d’amore la carne, fino allo smembramento. E, proprio come Bocca di rosa di De Andrè, porta a spasso per il paese l’amore sacro, esattamente coincidente con quello profano. Signore e signori, la tragedia è servita!

Immagine della recensione dello spettacolo La Lupa

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La Monaca di Monza alias Suor Virginia Maria alias Marianna de Leyva – Recensione Teatro

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo La Monaca di Monza

Nell’ambito della stagione teatrale 2022/2023 di PACTA. dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo La monaca di Monza alias Suor Virginia Maria alias Marianna de Leyva. La drammaurgia e la regia sono a cura di Annig Raimondi, che interpreta anche la parte della protagonista. Con lei, in scena, Alessandro Pazzi ed Eliel Ferreira de Solusa. Il testo comprende scritti di Manzoni, Diderot, Stendhal e Testori, nonché atti del processo.

C’è un’implacabile geometria di spazi e di luci, ad attendere lo spettatore. Un Mondrian essenziale, volto a carpire i segreti pitagorici, matematici di un’ineffabile vicenda umana. L’intuizione iniziale di questo spettacolo è, già di per sé, oltremodo efficace: lo spirito apollineo della scenografia e dell’illuminotecnica si incontra, e si scontra, con lo spirito dionisiaco, ovvero l’alta temperatura emotiva espressa nel processo della Monaca di Monza. il mos geometricus delle regie di Bob Wilson si fonde, felicemente, con la lava della parola testoriana. Nei fatali tableaux vivants che si formano, l’uno dopo l’altro, con precisione millimetrica, nell’ideale galleria pittorica di un martirio volutamente deviante e deviato, le parole della protagonista sfuggono dalla tela, la imbrattano, la tagliano, come rasoiate di un Fontana terribilmente inferocito. L’attrice usa il cappuccio come una maschera, o meglio come le maschere di un personaggio, ben al di la’ delle latitudini pirandelliane.

E, per scriverla alla Oscar Wilde, la verità è una menzogna che non è ancora stata scoperta. I volti, le espressioni, i toni della voce sono molto più che maschere: rappresentano le sovraimpressioni continue di una personalità, che scorre più fatale ed implacabile del fiume di Eraclito. Come la Regina degli scacchi, la Monaca si muove in ogni direzione, violando la severità geometrica dei passi e dei vettori. Il fondale diviso, in forma manichea, tra luce e ombra, tra puro colore e forma, sintetizza, anzi arriva a costituire, una panorama astratto, metafisico; esprime l’enigma di un essere umano in cui la cartina di tornasole del giudizio terreno, sia esso etico, giuridico o canonico, letteralmente impazzisce, mostrandoci ora il rosso di un ambiente acido, ora tinte bluastre di un ambiente alcalino. A Suor Virginia Maria viene, in questo lavoro, pienamente, visibilmente riconosciuta la patente di personaggio tragico, generato da un ideale Euripide.

Il destino la lega, e, con la stessa velocità, lei inganna i nodi che la stringono, giocando una partita contro la dike, l’antica giustizia divina, e tutt’altro che da perdente. Il processo ha tutta la parvenza di un tentativo di lunga seduta psicanalitica, in cui si cerca di arrivare all’impossibile inconscio della protagonista. Freud diceva che l’inconscio è quel signore davanti a me, di spalle, di cui posso vedere solamente la nuca; e non a caso l’attrice, durante il processo, dà la schiena ai suoi giudici, che non riescono a coglierne l’ineffabile essenza, e la condannano ad essere murata viva. Ma anche questo è un falso finale: la Monaca di Monza avrà il suo riscatto, e riuscirà, a distanza di anni, a farsi liberare. Ancora una volta dà scacco matto, o, almeno, arriva a patta con il dio della tragedia. La drammaturgia riesce a creare una riuscita policromia.

Immagine della recensione dello spettacolo La Monaca di MOnza

Si attinge ai colori storici del Manzoni, alla carne, febbricitante di passione, di Testori, ai paradossi attoriali diderotiani e alla profumata essenzialità stilistica di Stendhal. Annig  Raimondi, che cura anche la regia e la drammaturgia, è letteralmente un mistero che cammina, anzi, incede con solennità sulla scena. I suoi fonemi sono presi giù, nel profondo ventre di Gea; le sue parole, come le pietre di Meister Eckhart, sono Dio, ma non sanno di esserlo. Suona secondo tutti i registri, tutte le partiture di un personaggio che sfugge decisamente a qualunque categorizzazione. Annig suona la sua anima come farebbe l’orchestra psichica di Pessoa, donando una persona per ogni singolo stato d’animo. Alessandro Pazzi è un Vicario che domanda, interroga con la caparbietà e con la curiosità di un Orazio shakespeariano: e non può non concludere che c’è del metodo, in questa apparente follia.

Incarna, simbolicamente, una ragione che si sforza, invano, di sciogliere questa sciarada, questa irrisolvibile equazione umana. Eliel Ferreira de Sousa porta con sé, nell’accento latino, il caldo brivido di paura, prima di tutto fonetica, di un Inquisitore, di una legge che alza la voce perché, troppo spesso, è dura d’orecchi. Insieme, hanno la capacità di inserirsi nel paesaggio geometrico della scena, dove le luci battagliano continuamente con il buio, e scorrono sicuri, come le biglie sul tappeto verde di un biliardo. Nella distanza tra i personaggi che colonizzano ogni punto di questa scenografia, si giocano partite verbali incredibili, dove le parole descrivono curve, rotondità, cerchi dionisiaci, in grado di mettere in discussione continua la rigidità geometrica. Imperiale il momento in cui viene trasportata sulla sedia dotata di rotelle, metafora di una dea in machina: un destino diversamente abile, che si cerca, meccanicamente, di istradare sui binari del cosiddetto buonsenso, e della morale comune.

La vita, in questa Monaca di Monza, decisamente vive, dando mostra di sé e del suo cercarsi, trovarsi, inventarsi di volta in volta. Ora spaventata, ora severa e azzimata, ora combattiva e pronta ad infiammarsi, ora avvocatessa della sua causa, ora giudice: sempre, riesce a cogliere l’adesso, il singolo istante psichico del personaggio, Rispetto al basso continuo dei suoi interlocutori, esprime una melodia complessa, una fuga bachiana, un canone in cui le voci di una stessa coscienza si sovrappongono, per formare un coro tragico. Si staglia, unica ombra viva, di fronte a una moderna caverna di Platone; insieme apparenza e sostanza, oscurità e luce, che parla, nell’ultima fatale dissolvenza in nero alla platea, come essere vivo e vitale, in grado di aprirci varchi di dubbio e di emozione sincera . Sono tutti meritati i generosi applausi.

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Incontrando il signor G. – Recensione Teatro

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Immagine della recensione dello spettacolo Incontrando il signor G.

Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Incontrando il signor G. L’omaggio all’originale, e unico, teatro-canzone di Gaber è portato in scena da Enrico Ballardini e Riccardo Dell’Orfano.

Ci vogliono due polmoni speciali, per portare in scena il signor G; anzi, occorre anche un diaframma che si gonfi di generoso vento interpretativo, come a condurre un veliero. Sì, perché Gaber va oltre Brecht, e crea uno sprechgesang tutto suo, un meticciato unico e incredibile tra parola e canzone, tra prosa e poesia. E i protagonisti di questo spettacolo hanno tutte le carte in regola per vincere questa sfida. Come i due legionari del De bello gallico, si danno la mano l’un altro, si sostengono a vicenda, si passano la palla verbale come fantasisti brasiliani, maestri nel gioco carioca. E, sin dalle prime battute, in platea si ha l’impressione di bere un vino forte, tannico, corposo, uno di quelli che ti scaldano subito le guance, il cuore, la testa. Mettono entrambi l’anima, e tutta la loro carne, nell’interpretazione.

E questo fa, di gran lunga, la differenza. Dionisiaci per vocazione, apollinei al momento giusto, quando la carrettella teatrale deve arrivare in cima ed esitare un attimo, giusto prima di un meritato applauso. E poi, c’è la musica del signor G; anche qui, gli interpreti danno gran prova cantando nell’unico modo possibile, ossia con sincerità, e mettendo nella voce quella luce che va trovata giù, giù, nel fondo di ogni possibile intenzione. Una fisarmonica diventa tutto un mondo, un girotondo, una giravolta, un’intera sala da ballo gioiosa e chiassosa. Si presta meravigliosamente a raccontare le emozioni umane a tutte le latitudini, coprendo l’intero spettro cardiaco: dalla malinconia, alla risata piena, di pancia, divertita e goduta. Qui non si “deliba” uno spettacolo con forchettine, coltellini e posateria varia; qui, signore e signori, si mangia con le mani, si sente il gusto, si tocca, si percepisce.

Immagine della recensione dello spettacolo Incontrando il signor G.

Nel teatro più riuscito, come questo, avviene un particolare miracolo, per cui è come se ci fosse una sorta di ipoteca tattile, ovvero la possibilità che, prima o poi, l’interprete tocchi, letteralmente, lo spettatore (e anche questo accade). E’ unica e irripetibile la magia di questo spettacolo, in grado di farti sentire la carne, i corpi, prima ancora che possano, in qualche modo, sfiorarti. E, ancor più, è un miracolo il farsi cosa salda della parola, recitata e cantata, essa stessa interprete del corpo; cosa viva e vitale, pronta a esplodere, come una supernova, in faccia a ogni spettatore. L’operazione è più che riuscita, visto che riesce davvero a toccare gli atri ed i ventricoli del teatro-canzone di Gaber. Non si limitano ad imitarlo, a farne una copia fotostatica, un cliché stanco e ripetitivo; piuttosto, lo elettrificano con la loro interpretazione, lo innervano.

Lo riempiono di quello spirito caustico, satirico, mordente del signor G, che sapeva leggere la società, e l’individuo, con una capacità di penetrazione ineguagliata. E’ talmente entrato nell’immaginario collettivo, che è irrinunciabile, da parte del pubblico, unirsi al coro della canzone La libertà. A dimostrazione che la parola di Gaber ha il potere di risvegliare qualcosa, in noi, di sonnecchiante ma non intontito, pronto a rivitalizzarsi con gli stimoli giusti. Enrico Ballardini, col suo viso antico, la barba da eroe omerico e il fuoco nello sguardo, è in grado di mesmerizzare immediatamente la platea, e un suo gesto potrebbe essere la formula canonica dell’ipnotizzatore: a me gli occhi, please. Nuota, letteralmente, nel testo e nelle canzoni, e non ha paura di andare dove non si tocca, di bagnarsi, di sporcarsi di parole, di farsele risuonare dentro, di spremerle fino a coglierne l’ultima goccia di senso e di vitalità.

Immagine della recensione dello spettacolo Incontrando il signor G.

Con la chitarra blueseggiante, e una tastiera vintage moogheggiante, costruisce un tessuto sonoro, in grado di donare un valore aggiunto alle canzoni. Riccardo Dell’Orfano, come un guascone dal cuore buono, porta con semplicità il pennacchio cyranesco della sua recitazione; è un Sancho Panza illuminato da un senno speciale, un raisonneur rorido di emozioni. E la sua fisarmonica sembra il naturale prolungamento della sua stessa voce, di tutte quelle emozioni che non ci stanno nelle parole, ma sono immediatamente espresse sui tasti dello strumento. Entrambi respirano con il diaframma, quasi tamburi di guerra, e come respirano; sembrano voler inghiottire il mondo, per poi restituirlo tutto, insieme a loro stessi. La fronte bagnata di sudore, la fatica che si mostra sulle loro camicie, sono testimonianza di un impegno che non viene mai meno per l’intero spettacolo, di una generosità assoluta.

Tutte le cellule dell’interprete, biologiche o spirituali che siano, devono fare la loro parte, per la riuscita dello spettacolo. Tutto il corpo è strumento, anzi orchestra, in grado di aggiungere la propria voce a quella dei due attori. Questo omaggio a Gaber profuma, decisamente, di cuore; si candida ad essere uno spettacolo diverso, altro, capace di risvegliare il senso più profondo di questa particolare forma d’arte scenica. Basta vedere, ascoltare la naturalezza con cui, da un monologo, si passa a una canzone, con una soluzione di continuità in cui non è possibile determinare dove finisca uno, e inizi l’altra. E quel particolare grassettato, quell’umore caldo che anima i fonemi di Gaber, è presente, come non mai, nei due interpreti, che si meritano tutti, ma proprio tutti, gli applausi con cui il pubblico può, catarticamente, tributare loro il giusto riconoscimento.

Immagine dello recensione dello spettacolo In contrando il signor G.

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Stasera si va accapo -Recensione Teatro

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Immagine della recensione dello spettacolo Stasera si va accapo

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Stasera si va accapo, con Marilina Giaquinta e Anna Nicoli. L’azione artistica è curata da Paola Brusa, e le musiche sono realizzate da Marco Pagani.

C’è un meraviglioso duetto, nell’opera lirica di Delibes Lakmé, chiamato duetto dei fiori, nel quale due donne si cantano l’anima vicendevolmente, accarezzando l’udito con la seta delle loro voci: ecco, le protagoniste di questo spettacolo hanno riprodotto quelle stesso effetto. Due voci, declinate al femminile, sono la quintessenza dell’umano, con il profumo di una metafisica sottile, lirica, che riesce a intridere di sé ogni ascoltatore. Marilina Giaquinta e Anna Nicoli vivono in scena un’unica ed irripetibile affinità elettiva, un magnifico gioco di specchi della galleria di Versailles, momentaneamente spostata a Milano, in piazza della Repubblica. Sono gioiose baccanti, che vibrano ancora di un rito dionisiaco misterioso, come il terzo uomo aristotelico, che vive in loro; ma, soprattutto, sono e dimostrano, con la loro voce e la loro presenza, tutta l’urgenza, la ribollente magmaticità dell’esserci.

I loro sorrisi, che vivono, nella percezione della platea, in una mesmerizzante soluzione di continuità, riproducono la linea curva dell’arco di Ulisse, in grado di scagliare frecce che ti arrivano fino ai più remoti anditi cardiaci. La scrittura di Marilina è materica, fisica, ha una sua percepibilità da parte di tutti i sensi. La si può toccare, odorare, fiutare; ne potrebbe seguire la scia anche il Gassman cieco di Profumo di donna. Qui si fa tesoro della lezione aristotelica della Poetica: la poesia non è data dalla forma esteriore, ma da quella ipoteca, quella sfida di universalità che sa lanciare, quello squarcio di assoluto che sa trovare tra le pieghe ritorte del linguaggio. L’etologia, l’astronomia, la scienza diventano  una lucente occasione di proporre poesia. Si ritorna, felicemente, ai presocratici. Non a caso l’autrice proviene dalla Sicilia, dalla Magna Grecia, in cui la filosofia era espressa in forma poetica;

Immagine della recensione dello spettacolo Stasera si va accapo

basti ricordare Parmenide, Eraclito, Empedocle. E, proprio come quest’ultimo si getta nel ventre del vulcano Etna, così l’autrice si immerge nella lava, nella materia ancora viva e vitale del linguaggio, e la restituisce allo spettatore, in tutto il suo calore e la sua forza. L’amore che qui si canta, è quello, disperato e disperante, necessario, estremo, delle due unità separate dell’essere androgino, che, una volta ritrovate, si abbracciano selvaggiamente, nel desiderio di fondersi. Il corpo diventa la bacchetta del rabdomante lirico, in grado di vibrare decisamente, laddove si trovi una fonte di questo eterno sentimento. Lo spettacolo si arricchisce, si sdoppia, anzi si triplica, attraverso l’intervento di due artisti, che aumentano la percezione sinestetica della pièce. Il musicista e compositore Marco Pagani crea delicatissimi passi di danza sonora, tessuti serici musicali, che frusciano felicemente tra la grazia tersicorea delle parole di questo spettacolo.

La pittura di Paola Brusa è un atto totale del corpo e dell’anima: un quadro di Pollock vivo, materico, trasudante emozioni e pensieri, che si arricchisce di parole, e si lascia scorrere nel fiume eracliteo, mai uguale per due volte, di ogni singola rappresentazione. Anna Nicoli ha ragioni del cuore che nemmeno Pascal conosce: nello sguardo porta la luce del sì alla vita della Molly Bloom joyciana, la curiosità impertinente e giocosa degli angioletti di Raffaello, la tenerezza pudica nel primo bacio dei puttini di Bouguereau. Ascoltarla è come sentire lo scorrere puro di una fonte, la semplicità e l’immediatezza del rumore dell’acqua che lega, nella sua essenza, il visibile e l’invisibile. Porge ogni fonema con delicatezza, come se offrisse, idealmente, fiori eterei  al pubblico. Marilina Giaquinta porta il suo siciliano in dote alle parole che pronuncia, e lo fa liberamente cortocircuitare in un gioco gaddiano,

Immagine della recensione dello spettacolo Stasera si va accapo

In questa dimensione il linguaggio si scrolla di dosso tutta l’accademica bronzatura, e tutta la pesante armatura del dover significare in modo univoco . La sua parola è veloce, agile: fa capriole, ha l’argento vivo dell’enfant terrible, ruba grappoli di luce al cielo della poesia, donandoli con generosità. Riesce a ritrovare la forza divulgativa della scienza nella sua poesia, colorandola e sfumandola con nuances tenui; riesce a suonare, parlando, emozionanti pianissimo. Ha, con la sua voce,  lo stesso struggente spirito di Beethoven nel film Amata immortale, che suonava il Chiaro di luna con l’orecchio attaccato al pianoforte, per “sentire” la vibrazione della sua musica. Ecco, l’autrice vuole far sentire le sue parole, vuole ricreare l’atto stesso, il terremoto emotivo che le hanno generate;  le modella, le plasma in corpi sempre cangianti.

Il senso del tatto aleggia in tutto lo spettacolo, come una forza di attrazione misteriosa e invincibile, un desiderio di voler percepire anche con la pelle la poesia, sentirne l’immediatezza corporea, così come sensazioni corporee erano le estasi delle sante e dei santi. E, di nuovo, un misterioso sorriso si palleggia da un’interprete all’altra, contagiando  i due artisti e tutti gli spettatori. Si realizza il miracolo di vedere La dama con l’ermellino condividere il misterioso arcuarsi delle labbra della Gioconda. E’ l’immediata, indeterminata, enigmatica chiosa al bisogno d’amore che viene comunicato in ogni verso poetico. Il lungo applauso finale, qui più che mai, diventa abbraccio, che il pubblico tutto tributa a ogni interprete di questa riuscitissima esperienza.

Immagine della recensione dello spettacolo Stasera si va accapo

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Sybil, Una donna divisa tra molteplici esistenze

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Immagine della recensione dello spettacolo Sybil
Ph Luca Meola

Nell’ambito della stagione teatrale 2022/2023 di PACTA. dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Sybil, una donna divisa fra molteplici esistenze. Dramaturg dello spettacolo è Livia Castiglioni. La regia è firmata da Silvia Giulia Mendola. Le interpreti sono Federica Bognetti e Silvia Giulia Mendola. La storia narrata nell’opera si ispira a un caso reale.

Il pensiero, decisamente, recensendo questo spettacolo, va a Pessoa, e a tutta la numerosa orchestra di eteronimi. Non di pseudonimi si tratta, ma veri e propri altri-da-sé, con la patente di riconoscimento di un personale pronome. Sybil, la protagonista di questo lavoro teatrale, incarna un autentico caso psicoterapeutico di personalità multipla: il primo che abbia permesso di cartografare questo fenomeno, e di inserirlo, a buon diritto, nel libro delle psicopatologie. Sybil è ben più di un’ Anna O. di freudiana memoria, Sybil incarna molti personaggi che vogliono obliare il loro autore. Corregge, idealmente, la frase rimbaudiana l’io sé un altro; in l’io sono gli altri, tutta la svariata gamma di embrioni di personalità che ognuno di noi si porta dentro. E’, dunque, fatale che  lo spettacolo si arricchisca di una dimensione profondamente metateatrale, entrando nel vero e proprio cuore di tenebra del lavoro dell’attrice su se stessa.

In quel magma ribollente di subpersonalità, fanno mostra di sé immagini archetipiche, tarocchi junghiani che vivono nella psicologia del profondo. La protagonista dimostra quanto sia vaga e, citando Hillman, vana la fuga dagli dèi, dal momento che questi ultimi sono più vicini a noi della nostra stessa giugulare; sono il nome donato a forze, energie psichiche che, altrimenti, agirebbero attraverso il codice cifrato dell’inconscio. E davvero, sfila davanti alla platea un intero pantheon di personaggi interiori che trovano domicilio in un singolo foglio. Sans papiers della coscienza vigile, clandestini nella terra che dovrebbe essere la loro patria, si raccontano con la struggente tenerezza di una foglia che per un lungo, lunghissimo, istante, prende coscienza della propria precarietà, nella terra autunnale della via verso la guarigione. Come HAL di 2001, queste identità hanno paura di svanire, di morire a se stesse e agli altri, hanno il fiore in bocca pirandelliano.

Immagine della recensione dello spettacolo Sybil
Ph Luca Meola

Chiedono alla psicanalista e, tramite lei, a tutta la platea, di contare i ciuffi d’erba fuori dal teatro, e di cercare di contarne molti, perché quello è il loro tempo di vita. L’intuizione eccezionale che si accende attraverso Sybil è che i personaggi sono animule vagule e blandule, sono delicati quanto bozzoli di seta, fragili e insieme forti, impermanenti quanto e più di noi; ma raccontano, come nessun’altra forza potrebbe raccontare, la poesia definitiva, che fa male, quella rosa che ha le spine, quel dolore che si sublima in un taglio nella tela del nero esistenziale, per lasciare uno squarcio di luce dell’altro, dell’indicibile. Nello scheletro di una stanza, che vagamente richiama un rompicapo irrisolvibile di Escher, avviene un dialogo socratico, in cui Socrate, la psicanalista, deve dismettere l’inamidato setting e cercare altre strade, altre parole per guarire la sua paziente. Questo è il bello delle storie psicanalitiche.

Come aveva genialmente intuito Mishima, questi racconti si candidano naturalmente ad essere delle storie noir, thriller, delle detective story, dove la verità si nasconde dietro il fumo di una sigaretta, si lascia inseguire, depista con falsi indizi, sfugge, si dimena, e poi, catarticamente, si scioglie in un abbraccio, facendo la pace con se stessa e con il resto del mondo. Il trauma che ha frantumato il cristallo dell’io è terribile, superiore a quello che la più cupa tragedia può nascondere dietro la parete della skenè. Gli anticorpi per un male assoluto non possono che essere radicali quanto lo è la malattia: e allora, ecco la fuga dagli dèi, il rocchetto di Hans che si moltiplica in più fili, nel gioco dell’avanti e indietro di molteplici personalità. Se l’io, come ricorda Freud, è un precipitato di cariche oggettive, ha già un’origine nevrotica.

Immagine della recensione dello spettacolo Sybil
Ph Luca Meola

Nasce da una frustrazione; a maggior ragione, ciò vale per gli ego nati allo scopo di sopportare un dolore intollerabile, che non potrebbe essere sorretto da una sola, fragile, identità. Silvia Giulia Mendola è una Sybil in stato di grazia, un essere proteiforme, che modella la sua anima su quella delle varie personalità, e non trascura alcun fonema, gesto, intenzione per costruire al meglio ognuna di esse. Silvia va dove non si tocca, e nuota meravigliosamente. Suona con maestria ogni strumento di questa particolarissima sinfonia interiore, e ha una speciale seta nei suoi sguardi, , così sottile e leggera che si ha quasi paura che basti un fiato, dalla parte della platea, a stravolgerla. Silvia ha certi occhi che ti abbracciano delicatamente, perché hanno paura di farti male; dice sì, come la Molly joyciana, alla vita di tutti i personaggi, e tutto questo si sente.

Federica Bognetti riesce a condurre se stessa e, insieme, gli spettatori, nel viaggio pieno di stupore e sgomento, che conduce, dal freddo approccio terapeutico della mente scientifica e speculativa, all’incontro che si contamina piacevolmente dell’irrazionale, che deve letteralmente inventarsi una via altra per trovare la soluzione dell’enigma. A poco a poco, spezza la sua verticalità, si piega, dando al gesto uno stupendo valore metaforico. Forma, naturalmente, la scultura vivente di una Pietà del Bernini, l’immagine corporea dove far traguardare questi torrenti impetuosi dei vari flussi di coscienza. I suoi fonemi hanno il tepore confortevole di certe mani femminili, capaci di cambiarti il colore dell’anima accarezzandoti appena il viso. La sua voce abbraccia la dimensione ventrale, è sicura e confortante: un mantra terapeutico che ti entra sotto la pelle, e che accoglie senza giudizio o senza incertezze. Gli applausi, generosi, sul finale dello spettacolo, sono tutti meritati.

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Ph Luca Meola

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