Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Ago capitano silenzioso, Lo spettacolo è scritto, diretto e interpretato da Ariele Vincenti.
Agostino Di Bartolomei è stato uno di quei calciatori che non avevano paura di battere un calcio di rigore: un eroe silenzioso, capace di far rivivere tutta la forza sociale, antropologica, umanissima di un mito in cui, ancora e per sempre, rivive l’eterna battaglia dell’uomo per superare i propri limiti, e la barriera posta dagli dèi. Ma Ago sapeva aggirare quella barriera, e far arrivare la palla giusto in quell’angolo imprendibile della porta. Per scriverla in maniera aristotelica, eccola qui la tragedia, nella forma di un uomo che passa dalla buona alla cattiva sorte; come coro tragico, c’è la curva dello stadio, e, per corifeo, il racconto di un tifoso della Roma. E qui entra in scena il protagonista, l’attore-autore Ariele Vincenti. Con quel suo viso da fauno, elfico, si candida ad essere, egli stesso, una sorta di creatura mitologica: l’unica in grado, come gli antichi aedi, di raccontare, ed emozionare facendolo, la storia dell’eroe che infiniti addusse lutti (calcistici) agli achei delle tifoserie avversarie.
L’interprete, con i suoi fonemi, è come srotolasse, di fronte agli spettatori, i fotogrammi di un film, che racconta la storia delle borgate, di una realtà quasi magica, in cui, tra due ragazzi, chi sarà il campione già si capisce. A esaltare la potenza evocatoria del racconto contribuisce, in maniera determinante, il romanesco: una lingua che sembra fatta apposta per mostrare tutto lo stupore di un Ciàula che scopre la luna in un campo di calcio, in un’avventura di fanciulli. Tutto è reso con un’autenticità straordinaria, restituendo alla platea un’esperienza sensoriale, olfattiva, tattile di questa storia. Ariele – nomen omen verrebbe da dire, visto che Ariel è un personaggio fatato del mondo della Tempesta shakespeariana – toglie tutta la tara al suo racconto, evitando la fin troppo scontata laccatura che certe laringi bronzate danno alla storia che narrano. Lui la restituisce con tutto il cuore che ha, con i polmoni, le braccia, le ginocchia.

Ha tutta la sostanza di un calciatore generoso che non molla su nessun pallone, pronto a far partire un contropiede fulminante. E si emoziona, l’attore: mostra senza vergogna alcuna i suoi occhi lucidi, restituisce un lavoro certosino di ascolto delle storie di chi ha conosciuto Ago, tramite una perfetta opera di sartoria drammaturgica. Le parole, i gesti, le posture sono tutti lì, uno in fila all’altra, e sfrecciano come una Lamborghini su un rettilineo. Ariele ti abbraccia con la sua vocalità, ti porta a spasso per una Roma nascosta, ma viva, come la Milano di Stendhal; la scopri dentro un portone, cercando quello che è fuori dagli itinerari turistici. Questa pièce è un bel piatto di carciofi alla giudìa, una porzione generosa di amatriciana, con cui è impossibile non imbrattarsi la camicia. Anzi, bisogna gustare così il piatto, come suggerisce l’interprete, in maniera godereccia.
Si entra in un mondo dove i sorrisi non sono falsi come Giuda, ma sono un’apertura alla vita, una continua scoperta. Si esce decisamente dalla narrazione, fin troppo scontata e stereotipata, di una tifoseria, che si ridurrebbe ad una lunga serie di manifestazioni di violenza, in favore di un calcio come atto socialmente rilevante, catartico, tanto quanto una tragedia greca; emozionante, in grado di coagulare, concentrare l’energia emotiva positiva e farla scoppiare tutta insieme, nel boato che segue un gol del capitano. E’ tutto questo, l’interprete: diventa un Ninetto Davoli che scopre le nuvole pasoliniane. Non recita, semplicemente è quello che dice, il vero segreto di una recitazione che assume, come coach, uno Stanislavskij trasteverino. Anche Tomas Milian, per entrare nel famoso personaggio del Monnezza, ricordava l’approccio con questo ambiente, la cui fascinazione è trascinante, fa girare la testa, come un vino traditore de li Castelli.

Poi c’è anche la tristezza, la struggente malinconia per il suicidio del calciatore: troppo puro, per stare in quella che già il buon vecchio Cicerone definiva la faex Romuli. Il generale caduto in disgrazia, che riceve l’ordine di farla finita dall’imperatore di turno, questo sembra Ago. E l’amico, nel raccontarlo, costruisce la partita ideale: quella in cui tutti i palloni sembrano, magicamente, arrivare al momento giusto e al posto giusto. Non un cross, non un assist verbale mancano i piedi del capitano. L’attenzione degli spettatori si rinnova, parola dopo parola, frase dopo frase. E quello striscione, frutto della potente intuizione di un clochard romano, sembra restituire il succo concentrato di questa storia, la sua quintessenza: il silenzio, il tacet musicale. L’omaggio più potente, un vuoto pieno di parole in potenza, di sentimenti tutti concentrati in un solo punto, in un solo sguardo.
E quando Ariele tace, fa una pausa, si lascia vivere da un sovrappensiero, mostra tutta la sua bravura, tutto quello che anche le parole più vere e generose non riescono a esprimere. E’ come se, esaurita la potenza del verbo, cominciasse a cantare, un canto silenzioso che lo spettatore può avvertire nella sua testa e nel suo cuore. Si affanna, si fa letteralmente in quattro il protagonista, per restituire a questo Ettore l’omaggio funebre più potente, più efficace. E l’attore sembra davvero essere cosciente che quello che va a costruire: nel suo monologo è il racconto di una sorta di Iliade calcistica, dove i nomi si fanno mito, diventando, idealmente, quelli delle stelle. Ecco, dunque, l’uomo sorrentiniano in più. Quello scomodo, con un’etica tutta d’un pezzo, come Antigone, che vuole l’intero oppure il nulla; un personaggio che, per forza di cose, respira male in una realtà calcistica fatta di inciviltà, compromessi, trame, intrighi, dove, per sopravvivere, bisognerebbe tenere in tasca Machiavelli.

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