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Danilo Caravà - page 4

Danilo Caravà ha 80 articoli pubblicati.

Simone Weil, Il Pensiero e l’Azione

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Immagine della recensione di Simone Weil, Il Pensiero e l'Azione

Nell’ambito della rassegna Spiritualmente Laici, presso lo Studio Museo Francesco Messina vi presentiamo la nostra recensione di Simone Weil, Il Pensiero e L’Azione, testo scritto e diretto da Ombretta de Biase. Interpretato da Domitilla Colombo e Sergio Scorzillo.

C’è una frase che calza come un guanto alla vita di Simone Weil, ed è una frase che viene da lontano, da un commediografo latino, Terenzio: “sono un essere umano, niente di ciò ch’è umano ritengo estraneo a me.”  Se esiste, nel ‘900, una filosofia che abbia tutto il sapore, la sostanza del più sincero umanesimo, è quella di questa grandissima intellettuale. Esprimere il suo pensiero che traguarda nell’impegno, nell’esserci in un senso ancora più profondo da quello espresso da Heidegger, nel vestire i panni della più umile e proletaria umanità, non era facile, ma la drammaturga, regista e docente Ombretta De Biase ha vinto la sfida. Ha raccontato, all’interno della rassegna Spiritualmente laici presso lo Studio Museo Francesco Messina di Milano, domenica 27 marzo alle ore 12.00, la vita di questa donna straordinaria, attraverso un geniale coup de théâtre:  mettendola all’interno dell’eterna dialettica del dialogo e dello scontro/confronto.

Immagine della recensione dello spettacolo Simone Weil, Il pensiero e l'Azione

La Weil è stata interpretata da un’efficace Domitilla Colombo, in grado di donarsi con sincerità alle parole del personaggio: bastavano un paio di occhiali e un baschetto  per essere con naturalità Simone, come se non ci fosse stato il prima dell’attrice, o il durante della mera interpretazione. Ha parlato, di volta in volta, con un operaio, una maîtresse, un prete e altri personaggi, e sempre dal suo irriducibile e irrinunciabile punto di vista, candidato ad essere brechtiano; costantemente dall’altra parte, anche quando l’ideologia cerca di importi che due più due deve fare necessariamente cinque. D’altra parte, è di Brecht quel verso che potrebbe essere il bellissimo riassunto della vita di questa pensatrice, in grado di vivere tenacemente il mondo che è chiamata a decifrare con il suo pensiero:“tu non avevi nessuna debolezza; io ne avevo una, amavo”. Suo multiforme partner  è un Sergio Scorzillo in stato di grazia. Ha regalato al mattatore gassmaniano un tocco di lucida follia, giocando un finale di partita bellissimo con Simone, fino all’ultimo tie break, fino al servizio fonetico da gioco – set – partita. Tutto questo miracolo accadeva a leggio, ma non un leggio fatto per sonnacchiose laringi bronzate, che di quando in quando si appisolano come l’Omero di Orazio, e per stanchi e ripetitivi barocchismi e arabeschi fonetici. Leggio, insomma, non come limite per questi due interpreti, ma, piuttosto, come una sorta di fionda, di rincorsa per lanciare la loro interpretazione oltre la quarta parete, dritta dritta nel cuore della platea. A incorniciare e arricchire ulteriormente evento e drammaturgia, insieme all’autrice-regista, il sobrio e caloroso contributo di Marco Pernich, responsabile della rassegna e direttore dell’Associazione Studio Novecento, e una limpida, emozionante introduzione-monologo, a cura dell’attrice Stefania Lo Russo.

Immagine della recensione dello spettacolo Simone Weil, IL Pensiero e l'Azione

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I 7 amori. Il Simposio di Platone

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Immegine della recensione di I 7 amori. Il Simposio di Platone

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo I 7 amori. Il Simposio di Platone, una versione teatrale dell’omonima opera del filosofo greco, adattata e interpretata dall’attore – filosofo Federico Leonardi.

C’è un libro di poesie di Auden, dal titolo che sembra essere fatto apposta per dare la visione più immediata, più sintetica del Simposio: La verità, vi prego, sull’amore. Federico Leonardi, attore – filosofo, ha preso questo testo di Platone intuendone tutta l’emergenzialità del quesito posto,sentendo tutto il calore ustionante dell’interrogativo. I dialoghi platonici sono detonatori pronti a far esplodere la phoné, la parola pronunciata: devono essere necessariamente incarnati nei corpi. L’attore tutto questo lo fa, e dipinge con mani fonetiche questo testo scenico; la sua è una pittura materica viva, sembra di osservare un Pollock che disegna una grande tela con le mani, facendo gocciolare il colore dalle dita. Ecco, Leonardi fa letteralmente gocciolare il colore dei fonemi dalle sue dita, e invita la platea fare lo stesso. Con lo spirito marinettiano uccide certi chiari di luna della traduzione accademica, che aumentano soltanto la polvere sui grandi classici.

Veste i panni dei 7 personaggi del Simposio, donando a loro in prestito, senza usura, la sua anima. Il suo è un magnifico one man show, un talking blues, un uno contro tutti (o con tutti) in cui l’umano si racconta di fronte all’umano, ritrovando la dimensione più autentica, più immediata, del fare teatro. Ed è bello  vedere quel viso, madido di sudore, e della fatica della carne nel portare il peso di parole importanti, parole fondamentali, che hanno ancora il profumo della carne sacrificata agli dèi sull’ara dello spazio scenico. Sembra, anzi è, posseduto da un daimon socratico, da un pungolo interiore, dal tafano evocato da Socrate dell’apologia. Crede a tal punto a quello che dice, che, alla fine, sono le parole stesse a credere a lui, a farne essere vivo e palpitante sul palcoscenico. Ogni verità pronunciata dai personaggi sull’amore, diviene di volta in volta protagonista.

Immagine della recensione di I 7 amori. Il simposio di Platone

I vari discorsi non sono un corollario di quello di Socrate, ma entrano in competizione tra loro e con esso. E il tragico Alcibiade sembra essere fatto apposta per sparigliare le carte, per alzare ancora di più il tiro, per non accontentarsi dell’ultima soluzione, per lasciare sempre aperta una porta dialettica verso altre soluzioni. Si ha l’impressione di vedere, idealmente, in questo spettacolo, lo stesso magma che Ferreri aveva scelto di montare attraverso la sua versione cinematografica del Simposio. L’equazione uomo rimane lì, come un mistero terribilmente affascinante, nella sbronza di Alcibiade che vede, in uno stato sciamanico, in una possessione teurgica, oltre l’ultima ipostasi plotiniana: quella che non può essere espressa a parole, ma è lì, dietro un assordante silenzio, un pianto, un urlo pre-verbale. Si ragiona di dio, certo, ma di un dio che nasce da una contraddizione, figlio di Penuria e Abbondanza; sicuramente è questa contraddizione a rendercelo più vicino della nostra stessa giugulare.

È, per rubare un’espressione del drugo di Arancia Meccanica, piacere impiacentito quello a cui si assiste da questa parte della scena, vita pulsante, divina e terribilmente umana, è un angelo caduto dal cielo che non ha paura di mostrare tutto il fango che appesantisce le sue ali. Ride, si dispera, salta in un balzo i secoli che ci dividono dal racconto; ci porta lì con convinzione, ci tiene inchiodati a quegli esseri che si interrogano disperatamente sull’amore, capendo quanto sia importante e fondamentale la questione. Passano dai loro gironi, indossano la maschera del tragico e del comico, ma sempre mostrano l’onestà di una luce che accende le pupille, ed è sempre la stessa luce, quella del daimon. Quanto è esistenzialista questo spettacolo, quanto guarda in faccia tutta la speranza e l’orrore dell’uomo, quanto non teme di mostrare non l’oscenità del corpo, ma quella ancora più estrema, quella dell’anima, che s’agita e spesso si manca.

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Ma è sempre in cerca di se stessa, di un modo di dirsi, di dichiararsi al mondo. Le parole corrono veloci, più veloci di Achille e della sua tartaruga, più veloci dei paradossi, dei significati pre-cucinati da scongelare nel forno a microonde. Sono lapilli incandescenti lanciati dal cratere di una laringe vulcanica, che bruciano giustamente, al contatto con la platea. Leonardi ci scuote idealmente per il bavero, ci schiaffeggia con Platone per risvegliarci dal torpore per smentire quella vita adorniana che non vive. La filosofia è prima di tutto, etimologicamente, amore per il sapere, dunque deve transitare necessariamente dal Simposio. La filosofia non vive in un gioco intellettuale, in un grafico da piano cartesiano, in disfide logico-matematiche pronte a dimostrare o confutare una tesi, ma è qualcosa di umano, che ci appartiene: è quel daimon che cerca sempre di risvegliarci dall’interno, che ci chiede sempre di spingerci più oltre.

Questo lavoro è, sostanzialmente, un atto d’amore non solo nei confronti del teatro e della filosofia, ma anche, e soprattutto, nei confronti dell’uomo, dell’irripetibilità, dell’unicità di ogni singola presenza umana, che si candida a essere così, immediatamente, simbolo d’amore, significante e insieme significato. E tutto ciò l’attore lo vive per il pubblico, lo dona con generosità: diamante purissimo, umanità che ti scalda la testa e il cuore come un vino forte, tannico. La sua voce è un continuo, struggente, disperato abbraccio, è fatta di due mani che muovono al pianto l’aria stessa che fendono. Tutto ciò che esprime sula scena siamo noi tutti, i nostri personaggi interiori, le nostre debolezze e le nostre speranze, i nostri momenti di lucidità e di irrazionalità. Parafrasando una canzone di Battisti, sette personaggi platonici ancora non bastano, ancora altri ne aspettiamo da parte di questo meraviglioso interprete.

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L’uomo,la bestia e la virtù

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Immagine della recensione L'uomo la bestia e la virtù

Nell’ambito della rassegna teatrale 2021/2022 del Teatro Oscar vi presentiamo la recensione dello spettacolo L’uomo, la bestia e la virtù di Luigi Pirandello. La regia è curata da Alberto Oliva. Gli interpreti sono Mino Manni, Rossella Rapisarda, Gianna Coletti, Andrea Carabelli, Riccardo Magherini, con la partecipazione del baritono Angelo Lodetti.

Il circo è un meraviglioso modo di dire il mondo, di tingerlo con i colori forti, violenti, della pittura espressionista, per rendere le sue storture ancora più storte, come le scenografie del gabinetto del dottor Caligari. La vita mette in mostra se stessa nella maschera più estrema, quella del clown, in grado di sovraimprimere in se stessa il tragico e il comico. Tutto questo il regista Alberto Oliva lo sa, e ambienta la commedia pirandelliana in una pista da circo dove possono sfilare, oltre i cavalli astronomici del Woyzeck, le bestie, gli uomini e le virtù del drammaturgo pirandelliano. Può succedere, dunque, che la moglie del capitano diventi una sorta di attrazione circense, una Lola Montès ophulsiana che veste la giubba, la faccia infarina, e tramuta in lazzi lo spasmo e il pianto. Nel clown la maschera è dichiarata, volutamente esagerata, un po’ disturbante.

Si impregna dell’odore della tragedia e della paura, nascosto dai belletti e dai profumi. Già Pirandello sapeva che la borghesia aveva un fascino irresistibile, un laboratorio antropologico, morale, spirituale, nel quale sperimentare la quiddità umana. Riecheggia idealmente la voce di Bowie a ricordarci che questo è il freakiest show, e si può mettere un bel sorriso sulla faccia del dramma di una moglie, facendolo apparire quasi come il sangue di un Glasgow smile. La risata è irresistibile, trascinante, è un meccanismo a orologeria, una clockwork orange, in cui ogni ilarità della platea è una spietata ultraviolenza psichica, trascinata vorticosamente dal direttore di questo circo. Portando idealmente in tasca la frase felliniana “la vita è una festa, dunque viviamola” gli interpreti, sul laboratorio alchemico del palcoscenico, trasformano il piombo della quotidianità dolorosa della middle class nell’oro dell’ilarità. La clownerie è l’atto più estremo, più rivoluzionario che si possa compiere in scena.

Immagine della recensione L'uomo,la bestia e la virtù

Le dinamiche sociali sono spietatamente portate sul piano cartesiano della pista del circo. Bambole e bambolotti biomeccanici mantengono la carica anche oltre ai giri della loro chiavetta, sono esseri che hanno ancora una coscienza a illuminare il loro sguardo, disegnano una simbolica lacrima di Pierrot sul loro viso. È sempre un’esperienza incredibile, stupefacente, quella di assistere alla dimostrazione, more geometrico, di una commedia, di un’architettura vertiginosa che sale con l’arditezza delle cattedrali medievali verso il cielo dell’umorismo. Il susseguirsi dei teoremi delle battute, dedotti uno dopo l’altro, le pause che si incastrano come il giusto pezzo di un puzzle, le voci che si arrampicano verso la testa, sono la testimonianza più vive di questo. E mentre il ventre si gonfia di un’epa falstaffiana, mentre i costumi si colorano della magia circense, l’irrealizzabile libertà dell’io pirandelliano, l’impossibile guardare il proprio guardare, è ben visibile dietro i ceroni e le iperboli.

Oliva ha scrollato di dosso l’accademica e polverosa pirandellinità a Pirandello, rivivificandone il senso  nella musica trascinante, furba, chiassosa,vitale del circo. Il bambino diventa un adulto figlio di qualche dio minore, che ha trovato un improbabile insegnante di sostegno nel professore. Il capitano non è più semplicemente l’orco grottesco che appare nella storia, ma porta in dote, con la sua apparizione, tutta la bestialità di un certo quotidiano, dei brutti, sporchi e cattivi del XXI secolo. Diventa un Popeye che ha preso tutti i vizi di Bruto, che al posto degli spinaci mangia la torta al cioccolato. Mino Manni è un professore, direttore, presentatore di questo circo sociale, ha una sorta di stato di grazia attraverso il quale trova un sorriso che va ben al di là delle categorie dei sorrisi. Si mostra, allo stesso tempo, grottesco, agghiacciante, seduttivo. Porta su di sé tutti gli odori sulfurei delle trasposizioni dostoevskiane.

Immagine della recensione L'uomo,la bestia e la virtù

Gioca febbricitante, senza risparmiarsi, in questa nuova Roulettenburg. Punta tutte le sue fiches esistenziali, vincendo, e facendo saltare il banco. Il demone ben si sposa con la commedia, e mostra ancor più l’evidenza del lato osceno, bestiale dell’animo umano, con la stessa lucida spietatezza con cui viene presentato nel baraccone l’elephant man di turno. Rossella Rapisarda è una moglie al di là del comico e del tragico, un essere molto più a sud degli ultimi santi di Bene, una bambola in cattività nella sua ibseniana casa di bambole, il pagliaccio che ha sempre quel retrogusto un po’ amaro, un po’ triste, che rimane sul palato come il più persistente dei tannini. Gianna Coletti è la duplice serva, stufa del suo ruolo meccanico, della sua fatica sisifesca, che è comica suo malgrado, porta una voce che si fa pietra, profonda, irresistibilmente comica per una platea che vede la sua critica puntuale.

È fatta di poche frasi, di camminate straniate, brechtiane. Oltre a sedersi dalla parte del torto, ha imparato ad accomodarsi dove vuole. Andrea Carabelli nel ruolo duplice del farmacista e del medico, due facce opposte della stessa medaglia, il dionisiaco e l’apollineo, è il perfetto clown bianco, quello che ci prova ancora a misurare e controllare il mondo con la ragione, ma non ha un metro abbastanza lungo per farcela. Riccardo Magherini è un capitano perfetto, una nuova maschera del terzo millennio della commedia dell’arte, un capitan Fracassa in pieno disarmo civile e morale, che riesce a fracassare giusto la sua tavola. È un po’ come una spezia in grado di regalare un gusto inconfondibile a questa ricetta teatrale. E infine il bambino adulto, il baritono Angelo Lodetti, è capace di lasciarsi giocare da questo gioco, conservando un’innocente lucidità, e cantando quello che le sue parole non potrebbero dire.

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Guardie al Taj – Recensione Teatro

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Immagine della recensione dello spettacolo Guardie al Taj
Ph Laila pozzo

Nell’ambito della stagione 2021/2022 del Teatro Elfo Puccini vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Guardie al Taj di Rajiv Joseph, traduzione di Monica Capuani. La rappresentazione è ideata da Elio De Capitani. Gli interpreti sono Enzo Curcurù e Alessandro Lussiana. Questo lavoro teatrale è una coproduzione del Teatro dell’Elfo e del Centro Teatrale Bresciano.

La bellezza, ci ricorda Thomas Mann, è qualcosa che può trafiggerti come un dolore, e lo sanno bene Humayun e Babur, posti  a guardia del Taj Mahal proprio alla vigilia della sua inaugurazione. C’è sempre qualcosa di crudele in ciò che è estremamente bello, dietro  un monumento meraviglioso si nascondono storie di estremi sacrifici, violenze, sopraffazioni. Ci vuole il Caligola di turno che voglia tirare giù la luna del cielo, e offrirla al mondo in forma di marmo. Ma il punto di vista brechtiano, in questa storia, è quello di due piccoli Vladimiro ed Estragone asiatici che, stufi di attendere Godot, immaginano di raggiungerlo con una macchina volante, o di avere un buco portatile per andare chissà dove. Si vede idealmente, sul loro volto, la lacrima hegeliana della coscienza infelice; e le stelle di Kant, che ritornano, insistentemente, sulla parete, in un riuscito gioco di luci, non riescono proprio a consolarli.

Due esseri hanno già tutta la potenzialità per far esplodere la più riuscita delle drammaturgie, giocandosi alternativamente il ruolo di coscienza e specchio, cercando reciprocamente un riconoscimento che stenta a venire. Ne è  conscio l’autore, Rajiv Joseph, che crea due personalità complementari: uno ligio al dovere, l’altro scalpitante e recalcitrante nei confronti del giogo della disciplina. Sembrano due momenti diversi di una stessa anima, due fotogrammi tra loro distanti sulla pellicola, resi vicini dal montaggio drammaturgico. Sono piccole cose di gozzaniana memoria, che osservano la meraviglia del mondo come un bambino guarderebbe per la prima volta la luna. Rappresentano due clown tristi che hanno un momento fatale di autocoscienza, che li allontana dal loro stesso sorriso. Il Taj diventa una efficace lente di ingrandimento per guardare dentro due esseri umani, per restituirci i loro dubbi, le loro ansie, le loro aspettative,

Immagine della recensione dello spettacolo Guardie al Taj
Ph Laila Pozzo

Permettono allo spettatore di scoprire che non solo alla corte di Elsinore nascono gli Amleto, ma anche fuori, in una casa del popolo, da chi quel mondo reale lo vede a un passo di distanza. Sono obbligati a fare una cosa orrenda i due soldati, a inventarsi nelle mani la tragedia di Seneca, a vivere l’orrore per poi cercare di lavarselo via disperatamente, come Lady Macbeth. La tragedia, come insegna il buon vecchio Aristotele, nasce così, dal cambiamento di stato di un uomo comune, dalla buona alla cattiva sorte. E uomini comuni sono Humayan e Babur, quelli su cui la storia cammina sopra, quelli che silenziosamente, metodicamente, con pazienza certosina, come bravi amanuensi la scrivono, ma il cui nome, da essa, non è scritto. Elio De Capitani riesce a trovare, nel buio del palcoscenico, questi corpi caravaggeschi, questa carne che cerca selvaggiamente un proprio riscatto spirituale. Si cercano, si stringono,si combattono.

Ma, sempre, il senso che sembra trionfare è il tatto: a un certo punto, le parole hanno bisogno di sentirsi vive reciprocamente, di toccare la propria fisicità. Il regista riesce a portare il marmo bianco del Taj in ogni fonema degli interpreti, non c’è battuta o monologo che non porti in sé l’ipoteca di quella bellezza che incombe, quasi minacciosa, sui due personaggi. All’inizio sono apparenze, la platea li scopre in forma di ombre, siamo ancora nella caverna di Platone; ma poi il velo di Maja cade, e i due personaggi si mostrano, fanno parlare il loro corpo, rendono l’immediato indeterminato della loro esistenza con l’immediatezza della loro carne. E, dopo un po’, ci si  dimentica del Taj come ci si dimentica di Godot, e quello che importa è la loro storia, il loro scontro, che non si sa mai se finirà in una lotta con spade o con uno struggente abbraccio.

Immagine della recensione dello spettacolo Guardie al Taj
Ph Laila Pozzo

Enzo Curcurù e il soldato scalpitante, ribelle; i suoi fiati scuotono ben bene le catene invisibili che lo legano alla sua posizione sociale. Gonfia il petto come un mantice, e soffia tutti i suoi desideri in faccia al compagno; agita il diaframma come un tamburo di guerra, usa il suo corpo come grafia di una lingua esistenziale scritta sul foglio della vita. Alessandro Lussiana incarna una sorta di clown bianco, l’augusto, l’anima portatrice dell’ordine, del redde rationem; cerca di richiudere il vaso di Pandora dell’amico, ma lo fa restituendoci la segreta consapevolezza che l’altro personaggio rappresenta il suo stesso inconscio, i suoi desideri repressi, l’eterno amico immaginario con cui si possono fare i giochi migliori. In fondo, i due amici guardano le stelle con gli stessi occhi di James Dean in Gioventù bruciata, con gli occhi di chi sembra domandarsi se possa esistere, sotto un simile cielo, gente cattiva.

E poi c’è a bellezza del Taj, che chiede, sul suo altare, il più tremendo dei sacrifici: è carnefice spietata come una Erinni, una divinità che vuole il prezzo della dike per la hybris di quel marmo bianco. Ma di tutto questo i due soldati sono vittime, sembrano militi sconosciuti messi a guardia di un monumento, più soli di un dio; ingannano la loro solitudine parlando, stuzzicandosi, trovando nelle parole quell’estrema difesa del credersi vivi. Se si fosse chiamati a condensare questo spettacolo in una espressione, la più corretta sarebbe il tragico confronto tra il marmo e la carne, tra l’universale e il particolare; il mortale  sacrifica se stesso, suo malgrado, per permettere che la poesia di pietra perpetui il suo canto secolare. Come si fa a non affezionarsi, a non aver voglia di abbracciare queste piccole anime, che brillano sulla scena non meno delle stelle che osservano?

Immagine della recensione dello spettacolo Guardie al Taj
Ph Laila Pozzo

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Sindrome Italia – Recensione Teatro

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immagine della recensione dello spettacolo Sindrome Italia

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Sindrome Italia, la storia della badante rumena Vasilica che, dopo aver curato le persone, cerca di curarsi l’anima. L’interprete, che è anche autrice della drammaturgia, è Tiziana Francesca Vaccaro. Le musiche sono a cura di Andrea Balsamo.

Certe volte le parole ci provano a tenere il passo con la vita, ma da sole non ce la possono fare; allora ecco che c’è un attrice pronta a spremere tutto il Dioniso che ha dentro di sé, come un profumato limone di Sicilia, permettendo così al miracolo di avvenire. Il personaggio della badante rumena Vasilica, con in tasca pochi spicci, e uno Ionesco, tutto l’assurdo possibile di un’esistenza al servizio di altre esistenze, pronto a esploderle nelle parole e nei gesti, persino nei silenzi. Ha lo stesso sguardo di Cioran questa donna, lo sguardo triste di una filosofa della vita che, per citare questo pensatore, ha cambiato disperazioni così come si cambia la camicia. Anzi se li  cambia proprio gli abiti, se li infila su, ancora bagnati della placenta dei significati, tutti insieme, strato dopo strato, come la cipolla del Peer Gynt.

E dalla parte della platea, non si assiste semplicemente a uno spettacolo, ma l’odore dei suoni, delle parole, è quello di una cucina irresistibile, una di quelle per cui si rompe volentieri ogni etichetta, e si comincia a mangiare con le mani. Il riso e il pianto non hanno un confine preciso, come certi orizzonti in cui non si riesce a distinguere dove finisca il cielo e inizi il mare. C’è un cortometraggio di Polanski in cui una povera custode di un gabinetto pubblico rivede scene del suo passato, finché appare un angelo a riscattare l’evanescenza dei ricordi; Vasilica un angelo non ce l’ha, ma si arrangia come può, cerca di diventarlo lei, spalancando quelle braccia lunghe, che abbraccerebbero il mondo intero. E a guardarle bene sembrano proprio due ali che hanno una maledetta nostalgia di un cielo che non hanno mai conosciuto. E poi c’è il sorriso, un sorriso definitivamente luminoso,

Immagine della recensione dello spettacolo Sindrome Italia

È un sorriso che viene dalle latitudini del sud, così vero, così abbagliante che ti viene da pensare da dove l’abbia preso l’interprete tutto quel bianco, per dare un avorio così  puro alla sua bocca. E’ una sorta di competizione tra la luce degli occhi e quella del sorriso, ma una competizione leale dove le vittorie si alternano, perché i gareggianti sono di egual bravura. L’io è un altro, insegna Rimbaud, è quello della protagonista si è stretto in un cantuccio, si è rifugiato da qualche parte, per far posto al mondo di fuori. Si percepisce appena Vasilika, e, come il cavaliere inesistente di Calvino conta le pietre per credersi reale, così questa donna conta i suoi ricordi, cerca di fare del suo passato cosa salda. Forse sa, come canta Modugno, che il derubato che sorride ruba qualcosa al ladro.

E proprio non riesce a trattenere in sé un disperato, tenace, desiderio di amare e di essere amata. Sembra uscita dritta dritta da una pagina di Dostoevskij, è una versione al femminile del sognatore che colora con i suoi sogni le sue notti bianche, o un principe Myskin, senza una pelle spirituale che filtri le emozioni, convinto ancora che la bellezza salverà il mondo. Questo monologo ricorda quanto sia unico e meraviglioso il racconto di un’anima, di quella piccola grande cosa che abita il corpo, e cerca di essere, e cerca di dirsi nel mondo. Non è semplicemente una badante, è una creatura pura, un fiore di loto che cresce in uno stagno, senza che l’acqua torbida possa in qualche modo contaminare la sua bellezza. I secchi che costituiscono la scenografia sembrano tre bussolotti, pronti ad invitare la platea con questa particolare versione del gioco delle tre carte.

Immagine della recensione dello spettacolo Sindrome Italia

Sotto quale secchio si trova Vasilica? La risposta è immancabilmente sbagliata, perché trovare l’anima, tenerla così, con sicurezza, nelle proprie mani, come se fosse proprio una carta da gioco, non è facile. Ma poi la risposta giusta viene, il personaggio non è sotto, o sopra, un secchio, è in tutti noi, nel senso di estraneità al mondo che ci circonda, che a volte ci fa sentire proprio come lo Straniero, il protagonista del romanzo di Camus. E quando la voce dell’attrice comincia a graffiare, quando i fonemi diventano pietre che fanno rumore quando cadono, eccome se lo fanno, allora si comprende quanto la vita abbia urgenza di ritrovare se stessa, quanto si abbia bisogno di non perdere continuamente terreno, di trovare un pavimento di certezze su cui camminare, che sia più solido del terreno che ci manca sotto i piedi, lo stesso che il personaggio pirandelliano ci ha attribuito una volta e per sempre.

Tiziana Francesca Vaccaro, autrice anche della drammaturgia, è una di quelle attrici che si fa passare il testo dal ventre, nella carne,e poi lo fa trasudare da ogni poro. Diventa tanti personaggi senza smarrire per un attimo il filo di Arianna del monologo. I vestiti bagnati sono, in realtà, impregnati di vita, e la vita non la si può lavare a secco, la si sciorina all’antica, in un secchio, si lascia che si asciughi al sole, naturalmente. Umide sono le lacrime, umido è il sudore, umida la fatica, e umido il bacio che ha sulle labbra, da donare, come un caffè sospeso, per un’altra creatura speciale. Che sfiancante ginnastica del cuore, mentale e spirituale, compie l’attrice nel dipanare dal rocchetto del proprio corpo questa meravigliosa storia. Alla fine guarda il pubblico regalando un gesto potente, un umile, gentile, sorriso che non può che trascinare la platea verso un forte applauso.

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Fool Blues – Recensione Teatro

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Immagine della recensione di Fool Blues

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Fool Blues, uno spettacolo che restituisce quello sguardo attento e di sbieco della poesia, lo sguardo degli ultimi, quello di un clochard. L’interprete è Luca D’Addino accompagnato dal chitarrista Romeo Velluto. Il dramarturg è Simone Faloppa.

Un uomo e un microfono:  è la storia di un’intimità del’anima, di una presenza fonetica e di un’attenzione da parte dell’attore che decide di fare del suo verbo cosa salda. Tutto diventa fatalmente nitido e preciso di fronte a questo strumento, dove le parole si grassettano, diventano estremamente lucide, e monologhi fanno il filo a questa lama. Quell’asta esercita una forza di gravità devastante, come quella di un buco nero, e a essa non sfugge neanche la luce dell’anima, che riverbera le parole. Tutto questo l’attore Luca D’Addino lo sa, e non manca un appuntamento con il microfono, raccontando la poesia degli ultimi dei disperati, che, prima di essere una categoria sociale, diventano una categoria dell’anima. Se a tutto questo, poi, si aggiunge la chitarra di Romeo Velluto, allora il gioco è fatto. I fonemi diventano un talkin’ blues e si lasciano andare alla danza lenta, sensuale e suadente.

È un ¾ che racconta meravigliosamente che l’interprete loves his baby, ama la poesia del mondo, ma il mondo non lo ama. Si inventa una sorta di asta in cui proporre degli oggetti patafisici, degli objets trouvés di duchampiana memoria, per giocare con il reale, per ritrovare le divinità con cui, all’inizio della filosofia, Talete riempiva ogni cosa. Si divide tra il baule e il microfono questo interprete, che, al pari un metronomo, batte su stesso il proprio tempo scenico, trascinando lo spettatore verso il dettaglio di un primissimo piano. E in certi momenti in cui la bocca danza con il microfono un erotico tango, viene da chiedersi che cosa vedano quegli occhi, che cosa fissino. Al  pari di una Pizia, di un oracolo, non è più un essere che pronuncia delle parole, sono queste ultime a pronunciarlo, a manifestarsi da sé attraverso la sua bocca.

Immagine della recensione dello spettacolo Fool Blues

Un Apollo e insieme un Dioniso, persi sul ciglio di qualche strada, con la mano timida e restia di un Umberto D. nel chiedere la carità, vivono in questo attore, che fa della sua stessa voce un palcoscenico. Naviga letteralmente tra le note che lo accompagnano, cerca pervicacemente la sua Moby Dick, il suo avversario bigger than life, che si è consumato i polmoni con il catrame di qualche cicca di sigaretta. Il dramaturg Simone Faloppa è abile nel cucire questo vestito drammaturgico; ad aspirare tutto il fumo, giù giù, fino all’ultimo alveolo, di questa poesia che proprio non riesce a rinunciare del tutto al mondo che la deride. L’albatros di Baudelaire è diventato un clochard: il suo incedere claudicante è la versione umana di quel volatile che ha  ali meravigliose per volare, ma un paio troppo piccolo di zampe per muoversi agevolmente sulla terra.

Il veggente di Rimbaud, sfrattato da un monolocale di chissà quale periferia, guarda il mondo di sbieco, di lato;  ne vede distintamente tutta l’assurdità, e la racconta, per intero, senza sconti, a un microfono, a un psicanalista di metallo, che ha un setting perfetto,un distacco professionale dato dalla sua natura di essere inanimato. La poesia rimane un atto del fare, così come dimostra l’etimo stesso della parola: un pugno levato contro il cielo, un’anima che proprio non ce la fa  a stordirsi con le virtù papaveracee del quotidiano. Mentre il blues rende lo spettatore sempre più complice, gli permette di scoprire lo scomodo istinto voyeuristico di guardare dentro un’anima fino all’ultima oscenità, fino all’ultimo desiderio. Tira pugni fonetici questo interprete, tremendi, che fanno male, che ti lasciano barcollante sul ring, incerto se resistere o soccombere in un catartico ko. La verità è sulle nocche di quei fonemi.

Immagine della recensione dello spettacolo Fool Blues

Si avverte il dolore di un’esistenza che non può e non deve rinunciare a quel dio della poesia che selvaggiamente lo abita, e regala al suo sguardo dei lampi fiammeggianti che bruciano al pari di lapilli sfuggiti a un fuoco. Ma quello che stupisce è il gianobifrontismo, l’oscillare abilmente tra il dramma e la tragedia, lo sgusciare di questo testo scenico da ogni categoria drammaturgica, il giocare con la platea una partita di seduzione, di vedo e non vedo spirituale, fino alla devastante rivelazione: il personaggio è il pubblico stesso, così come Flaubert ammetteva di essere Madame Bovary. Le frustrazioni, le rivolte, i soliloqui, monologhi che vanno dritto dritto al centro del centro del proprio nascosto essere, come una biglia di metallo su un binario di un piano inclinato, sono quelli di chi guarda e ascolta. Le parole risuonano come una eco.

Sono le stesse che abbiamo respirato. L’attore gioca bene la sua maschera, le sue maschere, le toglie una a una, come gli strati della cipolla del Peer Gynt, e quello che rimane alla fine è l’odore penetrante della poesia, il ricordo di un universale che persiste ostinatamente, tra gli odori della città,tra le clacsonate e lo smog. E il blues racconta benissimo questo mood, questa voglia a metà di piangere e di arrabbiarsi. La medicina aspra fa bene, e, per una volta, non ci vuole lo zucchero per farla andare giù: basterà una chitarra che ha fatto una patto con il diavolo, oppure con Dioniso, per far scivolare le parole senza attrito, per abradere, al pari di un giocatore di curling, l’aria ghiacciata tra la scena e la platea, e permettere così alle frasi di raggiungere il punto desiderato, il cuore dello spettatore.

Immagine della recensione dello spettacolo Fool Blues

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Malagrazia – Recensione Teatro

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo Malagrazia

Nell’ambito della stagione 2021/2022 del Teatro Elfo Puccini, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo  Malagrazia. L’ideazione e la regia dello spettacolo portano il nome di Giuseppe Isgrò. La drammaturgia è curata da Michelangelo Zeno. I due interpreti dello spettacolo sono Edoardo Barbone e Daniele Fedeli. L’architettura del suono è firmata da Stefano De Ponti. La produzione dello spettacolo è curata da Phoebe Zeitgeist.

L’identità è un percorso doloroso, e la dialettica del servo e padrone, quelle pagine di Hegel, così amate dagli esistenzialisti, sono lì a dimostrarlo. Chi è chi? E, soprattutto, chi fa cosa? Esistere per se stessi è già un atto di autorelegazione. Giuseppe Isgrò tutto questo lo sa bene e, ben aiutato dalla drammaturgia di Michelangelo Zeno, mette in scena la diade perfetta: due fratelli su un’isola in uno spazio chiuso, ridotto di resistenza beckettiano, perfetto laboratorio behaviouristico, dove l’occhio dell’Alex kubrickiano dello spettatore non può fare a meno di guardare. Due esseri, nel tentativo di riconoscersi, si guardano nello specchio dell’altro, ma cadono fatalmente nell’equivoco della mano di Wittgenstein: quello che ritrovano è la propria immagine rovesciata, che è un irriducibile altro da sé. Giocano altri ruoli, prima della fine della partita, si inventano gli ultimi scampoli di identità nei gesti che ossessivamente ripetono.

L‘atto onanistico iniziale è una coazione a ripetere, un rocchetto di Hans e insieme delle Parche, che ossessivamente va avanti e indietro, condannato a riprodurre la stessa sequenza. Il regista ha preso l’aforisma nietzschiano e ne ha fatto una meravigliosa camera sadiana delle torture: “Se fissi un abisso, prima o poi l’abisso scruterà in te”. Un po’ come nella pittura caravaggesca, tutto parte dal nero, da un inevitabile “paint it black” su cui si aprono squarci di luce, sulla carne, ecco il segreto di questa ricetta scenica, luce e carne. La traduzione delle distorsioni pittoriche baconiane, della metamorfosi verso l’assurdo, è qui presente in tutta la sua meravigliosa scomodità; il perturbante, ciò che è più scomodo raccontarsi, e raccontare, il bassoventre che piomba le ali delle più alte aspirazioni, la maschera aristofanesca che fatalmente piega in una smorfia la linea della bocca, e rende assurdo il tragico.

Caino e Abele sono riscritti teatralmente, come se la mano di un Genet si fosse sostituita nella scrittura biblica. L’impossibilità di procreare si sublima nella forma di una perversa creatività. Lo spettacolo è  anche un’esperienza sensoriale, olfattiva; l’odore del polpo che bolle, che impone la sua presenza virtuale all’interno della scena e in platea, rappresenta la volontà di parlare, prima di tutto, agli stomaci del pubblico, all’organo meno equivocabile, a quello che misura il mondo dall’istinto atavico della fame. Viene servito come se fosse un cadavere di una tragedia di Seneca, e quei tentacoli raggrumati si prestano a essere l’impossibile parto dei due fratelli, la creatura cronenberghiana, prima tenuta in gestazione attraverso i gesti e le parole dei due personaggi, e poi servita come non essere, come ciò che sarebbe potuto essere. La carne, fatalmente, è sempre in ritardo sul tempo, e la sfida se la giocano ancora le ultime parole.

Immagine della recensione dello spettacolo Malagrazia

L’unica soluzione è quella di divorare famelicamente questo essere, come Crono farebbe con i suoi figli, perché il gioco ricominci da capo. Qui, più che un capitano Nemo, c’è la duplicazione del “nemo” latino, ossia del nessuno. E proprio quando l’identità comincia a sgretolarsi, quando i pensieri, le emozioni rinunciano al loro signore delle mosche, al feticcio dei feticci, l’ego, ecco che parla distintamente la voce dell’Altro lacaniano, di un inconscio che si riversa come magma incandescente sulla scena, in una scrittura automatica che non può fare a meno di trascinare gli interpreti e gli spettatori, tutti all’interno di questo buco nero. Non c’è più nemmeno un dumb-waiter, un cordone ombelicale meccanico, pinteriano, che porti notizie di un esterno: tutto si gioca in una stanza chiusa, metafora, insieme spietata ed efficace, della propria carcerazione carnale, esistenziale, e la carica esplosiva del testo scenico si moltiplica esponenzialmente.

Scoppia in faccia a una platea che ha ancora l’odore spirituale della reclusione obbligata, dei lockdown, la sensazione di un esterno che si traduce in pericolo. Edoardo Barbone e Daniele Fedeli sono dei sacerdoti ideali di questo rito dionisiaco, che più scende nella carne e più lacera l’anima. Il loro sudore diventa la testimonianza di uno sforzo di voler trasumanare, diventa il distillato del sangue di un dio impossibile, che cercano, prima di tutto, dentro di sé. Isgrò è fedele alla sua ricerca, al suo interrogativo che suona più o meno così: ”la verità, vi prego, sul dolore”. La crudeltà che ci offre è figlia di quella artaudiana; vuole essere una ricerca senza sconti, condivisa, sull’umano e sul suo senso, non astratta dal gioco mentale, intellettuale, ma vissuta anche e soprattutto nei corpi. SI vive la ricerca di quel corpo ideale di Artaud, mondato dagli organi, eternato, come una mummia egizia, nell’immagine sensoriale dell’eterno.

Ma gli organi diventano gli avversari, gli antagonisti, si tramutano nella dike, nella vendetta divina, cavalli pronti a lacerare l’integrità di un corpo che almeno vorrebbe proclamare il proprio unitario esserci. C’è il travaglio del negativo, certo, ma senza l’happy end di Hegel, nessuna sintesi, nessuna conciliazione. Quello che si può trovare, o meglio pescare, è solo un pesce–uomo, una creatura mitica, deviante dai sentieri della “normalità”, alter ego del regista, raccolto dai protagonisti  dalla platea, indossando le maschere della peste. Questo essere inerte è un simbolo esoterico dissacrato e dissacrante, una presenza spiaggiata, come le conchiglie degli esistenzialisti; la vita che non vive e che, ostinatamente, continua a vedere da quell’occhio umido, che guarda oltre la sua possibilità di poter guardare, e lo sguardo dell’altro è ancora lì, ineffabile, amato e odiato, pronto a rilanciare la sfida in un nuovo terribile gioco scenico, buio, applausi.

Immagine della recensione dello spettacolo Malagrazia

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I mali minori – Recensione Teatro

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo I mali minori

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo I mali minori, una storia liberamente tratta da “L’immoralista” di Gide. L’autore del sapiente lavoro di alta sartoria drammaturgica è Antonio Mocciola, la regia è curata da Diego Galdi, gli interpreti sono Alessandro Grima e Valeria Bertani.

Due solitudini si incontrano, sul cuscino delle nozze, pronte fin dall’inizio a nascondere la spazzatura bergmaniana sotto il tappeto della loro unione. Un uomo e una donna respirano l’odore della paraffina spirituale scandinava di Strindberg e di Ibsen, una si convince che quell’odore le piaccia da sempre, l’altro preferisce quello acre della carne di giovani. D’altra parte, Nietzsche l’aveva scritto, l’uomo non può facilmente credersi un dio a causa del bassoventre, ma forse a un dio pagano può avvicinarsi a quello che, più degli altri, ne rappresenta il più scomodo ed incontenibile istinto, Dioniso. E proprio come un Dioniso appare l’uomo, un dio malato, che ha bevuto la pozione cristiana che ha cercato di avvelenare Eros, ma l’ha  trasformato fatalmente nel suo doppelgänger, nel vizio. Ancora una volta ci soccorre il filosofo tedesco della volontà di potenza per trovare la chiave di lettura psicologica in grado di svelare i personaggi.

L’aforisma che esprime tutto questo è il seguente: “gli istinti che non si scaricano all’esterno, si rivolgono all’interno”. Questo capita prima al marito che si ammala di tubercolosi, e poi alla moglie che sarà colpita dallo stesso male. Come per l’acrobata sul trapezio di Wenders, forse il tempo stesso per i personaggi è la malattia, la condanna a trovare nella loro carne tutta l’urgenza e la causticità della questione esistenziale. La felicità ha tutta l’impressione di essere uno degli istinti repressi, anzi il più nascosto, e la vita rimane in una sorta di cattività babilonese, lo spirito si trova in una prigione ben angusta. Il tentativo di una fuga rimbaudiana verso l’Africa, verso un sud, insieme dei sensi e dell’anima, pare sortire l’effetto desiderato sull’uomo, che guarisce, e sembra riconciliarsi con la sua vera natura, ma l’Eden dura giusto un attimo, e le stagioni all’inferno ritornano con il menage familiare.

Immagine della recensione dello spettacolo I mali minori

Si ripresenta l’angusta maschera di ferro della morale comune, di quelle che il poeta Blake definiva mind-forged manacles. Il drammaturgo Antonio Mocciola accende decisamente la miccia del materiale dinamitardo di Gide, offre allo spettatore, idealmente, le rose di Tennessee Williams, e sta ben attento a lasciare le spine sui gambi perché nel pungersi si avverta tutta la crudeltà della bellezza. La zona dell’Altro lacaniano, dell’ombra junghiana, di quel regno oscuro di significati vischiosi come la pece, appartenente ad Ade, alla psicologia del profondo, di certi abissi inconsci, che non conoscono luce, è espressa, attraverso la sua attenta scrittura. La parola è una Justine che deve necessariamente subire la tortura di Sade, dal momento che nel farsi male, nel danneggiarsi, esprime il sangue fonetico della verità. Il regista, Diego Galdi, ci mostra le inquietudini dei corpi, gli atti mancati, le intenzioni devianti, quel desiderio inibito, che si fa sudore, sofferenza.

Si esprime in un grido di guerra, il grido dell’animale ferito con la zampa imprigionata nella tagliola del “tu devi”. Ci sono dei primi piani che non sono semplicemente primi piani, sono paesaggi di un cielo umano, sono orbite vuote, ma piene di un luccicante buio. Gli occhi trasmettono la luce di un astro remoto, di un’anima remota che comunica da chissà quale passato, o quale futuro, nell’istante, nell’immagine in movimento dell’infinito. Brillano come se non ci fosse un domani gli occhi di lui e gli occhi di lei, sono degli dei piantati nel viso dei due protagonisti, due divinità che respirano male nella carne del compromesso. Alessandro Grima è un Cavaradossi che non hai mai amato così tanto la vita, e ce lo dimostra con certi sguardi, con certi gesti, con delle parole che ostinatamente portano con sé il profumo impossibile, il profumo dell’invisibile.

Immagine della recensione dello spettacolo I mali minori

Si impone la presenza di ciò che stenta a vestirsi con i poveri cenci delle parole. La nudità a cui arriva è catartica, pura, innocente come quella di un bimbo. Riesce a rendere tutta l’incontrollabile potenza di una cerimonia pagana, di un rito misterico, in cui si rinasce dopo aver attraversato il proprio inferno. Inspira il fuoco e lo gela nell’ombra della sua inquietudine. Valeria Bertani è una moglie cristianamente devota e abitata da una baccante, da una sacerdotessa di Dioniso. Ci mostra tutto il dolore, il sangue, la saliva, di una mordacchia della morale che intrappola le parole che deve ingoiarsi dentro, o meglio nei suoi scritti. Si ammala fatalmente anche lei dell’istinto che non trova modo di esprimersi, e proprio questo è il momento in cui esprime lo spirto guerrier che dentro le rugge. Incanta il suo canto del cigno, quel corpo pittoricamente abbandonato sulla poltrona.

È l’immagine forte, potente, definitiva di una vita che ha vissuto la dike, la vendetta divina, senza aver potuto gioire dell’hybris, del tentativo di superare se stessa, i limiti imposti. È la tragedia doppiamente tragedia, quella che manca a se stessa, è l’ancilla domini la cui promessa di gravidanza viene tradita, è la luce che sfuma da chissà quale orizzonte. Lo spettacolo rende omaggio a questo Gide che si siede brechtianamente dalla parte del torto, che si muove nel territorio al di là del bene e del male, che esprime quanto la fame umana di assoluto sia eternamente insoddisfatta al pari di quella del mitologico Tantalo. Alla fine, proprio un momento prima che si sciolga la catarsi degli applausi, si affaccia un’intuizione definitiva, in grado di diventare l’essenza dello spettacolo: “ L’inferno è abitato da struggenti amori equivocati, da esseri che almeno hanno avuto il coraggio di provare ad amare”.

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