Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Angiulina la Mula, un monologo dal sapore testoriano e ruzantiano, scritto e interpretato da Rossella Raimondi.
E’ una reine, una regina, la protagonista di questo spettacolo: un’attempata sovrana, seduta su una comoda, così come l’avrebbe declinata Testori. Una donna rimasta sola a tirare sassate contro il cielo, a dialogare con gli dei dell’antica tragedia, diventati, qui, il variegato pantheon dei santi cattolici. Un grammelot col sapore della sbrisolona, o di certi salami mantovani (fatti quasi apposta per ricordarti, nietzschianamente, che siamo un po’ meno divinità per colpa del bassoventre) accompagna lo spettatore nel sentiero monologante di questa Molly joyciana, che si è rotta l’anima, e si è spaccata la schiena, per tutti i sì che ha pronunciato. Eccola qui una novella, brechtiana, Madre Coraggio, che cerca di sopravvivere, insieme alla sua prole, in mezzo alla guerra perpetua dell’esistenza. La sua voce viene direttamente dalla terra, rubando il suono blobbeggiante di certe polente, cotte a fuoco lento nei paioli di rame.
E’ una pianta umana, ostinata, che ha messo radici nella terra più difficile, come la ginestra di Leopardi. Rappresenta una sorta di Calibano al femminile, costretto a una forzata immobilità, che si deve inventare da solo le magie di un Prospero parecchio latitante e discutibile. Ma, prima di ogni altra cosa, sulla retina della platea si imprime l’immagine di una bocca, una bocca rossa, carnosa, che sembra uscita da un quadro di Ensor, sì, di un pittore espressionista: una bocca che ha tanto di quel vento dionisiaco da soffiare, in grado di scuotere anche lo spettatore più inerte. Si mettono le mani nella terra dei fonemi, ci si sporca le dita, ed è bellissimo tutto questo. Ci immergiamo nel ventre stesso di una madre archetipica, nel suo sentire più profondo, autentico, sincero. Ancora è la carne a vincere la partita, con ragioni che l’anima non conosce.
Anzi, quest’ultima può vivere attraverso squarci di luce, nel racconto della fatica, dello strazio, di una Mula che si è portata il peso del suo mondo sulle spalle. La sua ira, la sua voglia di revanche, non ha niente da invidiare a quella del Pelide Achille, o di altri eroi omerici. L’eroina tragica, invecchiata, portata fuori dalla reggia e catapultata tra noi, sarebbe esattamente così, senza freni inibitori, senza auliche sordine testuali. Ma sa anche esprimere la più alta e struggente poesia quando impara il gesto della carezza, quando trasforma in un’ala d’angelo la sua mano callosa, ruvida. E poi c’è quella tematica scatologica, quella merdra di Jarry che ritorna, come una sorta di ribellione, di vessillo rivoluzionario, originato dalle cose più basse; una fissazione freudiana diventa la riuscita metafora di un’anima costipata, che non vede l’ora di liberarsi, applicando quella necessità igienica del raccontare, teorizzata da Svevo.
La drammaturgia rispecchia l’accurata stenografia di un flusso di coscienza, di un’affascinante incontro, e sintesi, tra Aristofane e Euripide. Questo parlamento di una femminile Ruzante, che iera vegnù de campo, arriva direttamente nelle viscere dello spettatore, le scuote ben bene, e arrossa le gote come certi vini rustici che, già al secondo bicchiere, ti fanno sentire la testa leggera. Rossella Raimondi è una fedele, convinta, sacerdotessa di Dioniso: vibra ed è scossa da ogni fonema, non tralascia, non trascura, alcuna emozione. Esprime un Hamm beckettiano e il suo finale di partita, e trasforma il suo dire in Clov, nella parte perennemente in piedi e in movimento. Ha, del giullare, la vocazione al racconto vero, vivido, in prima persona; racconto costruito con una lingua che sa non solo adattarsi alle emozioni da esprimere, ma è in grado di far sentire l’odore, persino il sapore, di questi sussulti interiori.
Non si limita a dire una vita, ma lo è, in tutta la sua verità, in tutti gli aspetti, dai più bassi ai più alti. Rende le braccia scenografia, palcoscenico: due creature dotate di vita propria, in grado di farsi altrettanti personaggi. E come riesce a muovere, ad agitare le parole, trasformandole in una frusta, il cui segno brucia tremendamente sull’anima. I suoi J’accuse, la sua immediata concezione di vita, di un Sisifo stufo di portare lo stesso sasso avanti e indietro, valgono quanto un intero trattato di filosofia esistenziale. Di nuovo, fatalmente, ritorna Testori, col rinnovarsi della storia dell’ennesimo martire, della santa apocrifa, che rovescia tutto, coi piedi sporchi dei santi caravaggeschi: umana al massimo grado. La scena si colora di blu, per un mare evocato che si mescola con il rosso, e con la luce dei fari.
Si realizza un perfetto tableau vivant; quadro, insieme baconiano e rinascimentale, di una perfetta contraddizione, che è la vita stessa. E la catarsi è sempre lì ad attendere la protagonista, nell’agognata deiezione, rovesciamento surreale, irrispettoso della purificazione della tragedia, come solo un Aristofane, un Plauto potevano ideare. In coda al racconto, accade che il rifiuto organico diventi l’offerta luminosa e numinosa di un essere unico e speciale, che sa, come De André, che dai diamanti non nasce niente, e dal letame nascono i fiori. Questo è l’ultimo dono scomodo che la carne può fare a se stessa e al mondo, svuotandosi le viscere, diventando quella sorta di corpo inorganico teorizzato da Artaud; mummia eterna, soggetto poetico, in grado di trovare la luce della poesia persino nella padella destinata a fertilizzare quella stessa terra di cui è fatta questa meravigliosa Mula, che si merita tutti, ma proprio tutti, gli applausi generosamente tributati.
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