Nell’ambito della rassegna Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Vietato sporgersi dentro, omaggio a Monica Vitti, di e con Alice Gagno. La regia è curata da Alessandra Casella.
Stanislavskij, secondo le testimonianze dei suoi interpreti, aveva un metodo eccezionale, una prova del fuoco efficacissima per misurare l’efficacia delle attrici e degli attori: il fatto di avere, o non avere, naturalmente, fede in quello che ascoltava. Il “non ci credo” era il suo, irrevocabile, pollice verso nei confronti di una scena. Alice Gagno, al contrario, avrebbe sicuramente raccolto il suo placet. L’attrice è la prima a credere in questa impegnativa trasformazione, essere Monica Vitti; e ci riesce affrontando da dentro il personaggio, mettendo a disposizione gli spazi dell’anima per ricostruire le dinamiche, anzitutto psichico-emotive, e poi esistenziali, di questa meravigliosa donna. Vi entra in punta di piedi, portando idealmente in tasca la didascalia che accompagna il personaggio del Padre pirandelliano, “con dignitosa umiltà”. A passo leggero e convinto, con un sorriso accogliente, si dichiara apertamente al pubblico.
Va al di là delle frontiere dell’immedesimazione e dell’epicità brechtiana; è la sintesi, la riuscita sovraimpressione di due anime che diventano una, che parlano in perfetta risonanza. Evidentemente, ha ragione il buon vecchio Jung, c’è sempre un serbatoio comune, metaindividuale, un inconscio collettivo cui attingere. Alice scava, scava, va dentro, si sporge, e non ha paura della vertigine di osservare e di raccontare, in prima persona, la profondità di questa donna. Lo si sente distintamente dalle armoniche di una voce che risuona di interiorità, che ha l’urgenza del racconto, e, per questo, comunica la necessità inderogabile del dire e, insieme, dell’essere. I suoi fonemi restituiscono quella matericità della Vitti, quella voce piacevolmente scartavetrata, arrochita, eternamente costipata di vita, attraverso pennellate grumose, che ti viene voglia di toccare con l’ascolto. Utilizza generosamente i colori dell’interiorità, come certi pittori naїf.
Esprime la forza gestuale del pennello, il vortice, il prendere sostanza della tinta cromatica. Diventa ora la Ragazza con la pistola, ora l’interprete in grado di fare un riuscitissimo sfottò alle laringi bronzate del tragico, nel pezzo : “Io non capisco la gente che non ci piacciono i crauti..”. Diventa, ancora, Teresa la ladra, che vive con un racconto naturale e, insieme, leggero, leggerissimo, come il piede di una ballerina classica, sempre sul punto di uno slancio, sincero e metafisico, verso le tavole del palcoscenico. Ha una joie de vivre che la attraversa, la fa vibrare, apparentandola, in un vincolo inscindibile, al personaggio interpretato. Anche quando fa rivivere Ti ho sposato per allegria, si destreggia con agilità dalla suocera alla moglie; trova un’irresistibile freschezza, applicando un rasoio interpretativo di Occam, che arriva a eliminare il superfluo, e tenere il necessario.
E, soprattutto, tiene sempre ben stretto il filo con la platea: il suo rapporto con il pubblico non si interrompe mai, nemmeno per un istante. Lo spettatore diventa la necessaria cassa di risonanza, specchio in cui osservare e moltiplicare la verità della sua risata. E lei se lo mangia allegramente, insieme alle sue battute, come in un rito collettivo gastronomico; una grande abbuffata, in cui potersi prendere in giro reciprocamente per la bocca rimasta sporca di panna. I suoi capelli -criniera incontenibile, raggiante e vivace come il cespo di sedano di una crudité– sembrano l’estrinsecarsi del suo spirito recitativo, la materializzazione di un’anima che si fa cosa salda di fronte al pubblico. Si impone una menzione d’onore anche alla regista dello spettacolo, Alessandra Casella, che ha dimostrato di essere una brava maieuta, levatrice del personaggio.
E’ riuscita, pienamente, nell’impresa di mettere l’attrice-autrice nelle giuste condizioni, per esprimere tutta la gioia e la spontaneità di questa particolarissima interpretazione. Limitarsi ad uno sterile e superficiale esercizio mimetico della Vitti sarebbe stata un’operazione persa in partenza, monotona, potenzialmente seriale quanto i prodotti di una catena di montaggio. Invece, questa pièce si è data il meraviglioso obiettivo di restituirci la piena tridimensionalità del personaggio; tridimensionalità che comprende la dimensione interiore, la ragion d’essere di certi sguardi, di certe sottili e immancabili malinconie, che accompagnano tutte le grandi personalità comiche. Recitare è stato, per la Vitti, vivere più intensamente, doppiamente, trovando un’altra tavola, ancor più abbondante e generosa, presso cui soddisfare il proprio appetito esistenziale. Non c’è film, non c’è inquadratura, dove non conceda quell’esatto momento dell’anima.
In ogni singolo fotogramma, aveva la capacità di travasare tutto, ma proprio tutto, il suo modo di vivere, gonfiando fino allo stremo un singolo istante. La Vitti era, soprattutto, il modo con cui percepiva il mondo, il modo con cui ci metteva i suoi perché, i suoi punti esclamativi, e i suoi puntini di sospensione. Quello sguardo intenso, che lei amava demitizzare, attribuendolo alla forte miopia, era permeato, in realtà, di un’ulteriore percezione sensoriale: una forma di fiuto o, meglio ancora, di tatto, con cui riusciva a leggere le situazioni intorno a lei. Grazie, davvero, a questo spettacolo, per aver reso omaggio ad una grandissima interprete; e anche per aver mostrato la fenomenologia di un’attrice, il dipanarsi del filo di un’interiorità, anzi di un’anima di donna, che si mostra in tutta la sua naturalezza, e che merita ogni applauso raccolto nel finale.
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