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I mali minori – Recensione Teatro

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo I mali minori

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo I mali minori, una storia liberamente tratta da “L’immoralista” di Gide. L’autore del sapiente lavoro di alta sartoria drammaturgica è Antonio Mocciola, la regia è curata da Diego Galdi, gli interpreti sono Alessandro Grima e Valeria Bertani.

Due solitudini si incontrano, sul cuscino delle nozze, pronte fin dall’inizio a nascondere la spazzatura bergmaniana sotto il tappeto della loro unione. Un uomo e una donna respirano l’odore della paraffina spirituale scandinava di Strindberg e di Ibsen, una si convince che quell’odore le piaccia da sempre, l’altro preferisce quello acre della carne di giovani. D’altra parte, Nietzsche l’aveva scritto, l’uomo non può facilmente credersi un dio a causa del bassoventre, ma forse a un dio pagano può avvicinarsi a quello che, più degli altri, ne rappresenta il più scomodo ed incontenibile istinto, Dioniso. E proprio come un Dioniso appare l’uomo, un dio malato, che ha bevuto la pozione cristiana che ha cercato di avvelenare Eros, ma l’ha  trasformato fatalmente nel suo doppelgänger, nel vizio. Ancora una volta ci soccorre il filosofo tedesco della volontà di potenza per trovare la chiave di lettura psicologica in grado di svelare i personaggi.

L’aforisma che esprime tutto questo è il seguente: “gli istinti che non si scaricano all’esterno, si rivolgono all’interno”. Questo capita prima al marito che si ammala di tubercolosi, e poi alla moglie che sarà colpita dallo stesso male. Come per l’acrobata sul trapezio di Wenders, forse il tempo stesso per i personaggi è la malattia, la condanna a trovare nella loro carne tutta l’urgenza e la causticità della questione esistenziale. La felicità ha tutta l’impressione di essere uno degli istinti repressi, anzi il più nascosto, e la vita rimane in una sorta di cattività babilonese, lo spirito si trova in una prigione ben angusta. Il tentativo di una fuga rimbaudiana verso l’Africa, verso un sud, insieme dei sensi e dell’anima, pare sortire l’effetto desiderato sull’uomo, che guarisce, e sembra riconciliarsi con la sua vera natura, ma l’Eden dura giusto un attimo, e le stagioni all’inferno ritornano con il menage familiare.

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Si ripresenta l’angusta maschera di ferro della morale comune, di quelle che il poeta Blake definiva mind-forged manacles. Il drammaturgo Antonio Mocciola accende decisamente la miccia del materiale dinamitardo di Gide, offre allo spettatore, idealmente, le rose di Tennessee Williams, e sta ben attento a lasciare le spine sui gambi perché nel pungersi si avverta tutta la crudeltà della bellezza. La zona dell’Altro lacaniano, dell’ombra junghiana, di quel regno oscuro di significati vischiosi come la pece, appartenente ad Ade, alla psicologia del profondo, di certi abissi inconsci, che non conoscono luce, è espressa, attraverso la sua attenta scrittura. La parola è una Justine che deve necessariamente subire la tortura di Sade, dal momento che nel farsi male, nel danneggiarsi, esprime il sangue fonetico della verità. Il regista, Diego Galdi, ci mostra le inquietudini dei corpi, gli atti mancati, le intenzioni devianti, quel desiderio inibito, che si fa sudore, sofferenza.

Si esprime in un grido di guerra, il grido dell’animale ferito con la zampa imprigionata nella tagliola del “tu devi”. Ci sono dei primi piani che non sono semplicemente primi piani, sono paesaggi di un cielo umano, sono orbite vuote, ma piene di un luccicante buio. Gli occhi trasmettono la luce di un astro remoto, di un’anima remota che comunica da chissà quale passato, o quale futuro, nell’istante, nell’immagine in movimento dell’infinito. Brillano come se non ci fosse un domani gli occhi di lui e gli occhi di lei, sono degli dei piantati nel viso dei due protagonisti, due divinità che respirano male nella carne del compromesso. Alessandro Grima è un Cavaradossi che non hai mai amato così tanto la vita, e ce lo dimostra con certi sguardi, con certi gesti, con delle parole che ostinatamente portano con sé il profumo impossibile, il profumo dell’invisibile.

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Si impone la presenza di ciò che stenta a vestirsi con i poveri cenci delle parole. La nudità a cui arriva è catartica, pura, innocente come quella di un bimbo. Riesce a rendere tutta l’incontrollabile potenza di una cerimonia pagana, di un rito misterico, in cui si rinasce dopo aver attraversato il proprio inferno. Inspira il fuoco e lo gela nell’ombra della sua inquietudine. Valeria Bertani è una moglie cristianamente devota e abitata da una baccante, da una sacerdotessa di Dioniso. Ci mostra tutto il dolore, il sangue, la saliva, di una mordacchia della morale che intrappola le parole che deve ingoiarsi dentro, o meglio nei suoi scritti. Si ammala fatalmente anche lei dell’istinto che non trova modo di esprimersi, e proprio questo è il momento in cui esprime lo spirto guerrier che dentro le rugge. Incanta il suo canto del cigno, quel corpo pittoricamente abbandonato sulla poltrona.

È l’immagine forte, potente, definitiva di una vita che ha vissuto la dike, la vendetta divina, senza aver potuto gioire dell’hybris, del tentativo di superare se stessa, i limiti imposti. È la tragedia doppiamente tragedia, quella che manca a se stessa, è l’ancilla domini la cui promessa di gravidanza viene tradita, è la luce che sfuma da chissà quale orizzonte. Lo spettacolo rende omaggio a questo Gide che si siede brechtianamente dalla parte del torto, che si muove nel territorio al di là del bene e del male, che esprime quanto la fame umana di assoluto sia eternamente insoddisfatta al pari di quella del mitologico Tantalo. Alla fine, proprio un momento prima che si sciolga la catarsi degli applausi, si affaccia un’intuizione definitiva, in grado di diventare l’essenza dello spettacolo: “ L’inferno è abitato da struggenti amori equivocati, da esseri che almeno hanno avuto il coraggio di provare ad amare”.

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Fracassi: Paint it red

in Teatro
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Ph Fabio Lovino

Vi proponiamo un articolo che rende omaggio all’interprete Federica Fracassi, l’attrice che incarna il “paint it red” del nostro teatro. Troviamo in questa interprete una di quelle ultime sacerdotesse di Dioniso che abbiamo evocato nel nostro articolo precedente.

Federica Fracassi è un cerino di carne marmorea acceso, è la vampa dei capelli che si muovono perpetuamente, danzano nell’aria quei palmi di fuoco crinito che si congiungono in una preghiera antica, capace di scaldare la platea. È immagine vivente pre-raffaellita, donna rinascimentale, che di quel tempo porta il meraviglioso equilibrio eracliteo degli opposti, i Borgia e Michelangelo. Il suo segreto sembra essere compreso nel cerchio di quella fertile ed incredibile contraddizione, l’essere ancilla domini sovrapposta ad una baccante, con il muso ferino ancora sporco del sangue e dell’orrore di un pasto antropofago. A vederla in scena si ha l‘impressione di guardare il teatro stesso che cammina e incede ieraticamente. Si osserva una Pizia, una sacerdotessa di un dio, una Cassandra scossa dai brividi dell’incontenibile immortalità di Apollo. Sembra una bacchetta di rabdomante che vibra tutta, quando individua, nel testo scenico ,l‘acqua della vita poetica che, incessante, scorre nei personaggi.

Il suo viso senza tempo, si presenta nell’ovale canoviano, e a ogni espressione, a ogni movimento del capo, per un attimo, per un infinito attimo, disegna un tempo definitivo che va ben oltre lo stretto confine dell’istante, e si fissa lì, nel desiderio del per-sempre. Gli occhi sembrano illuminati da un’intuizione ben oltre il recinto della dicibilità, portano il riflesso di chissà quale luce metafisica. Ci offrono lo sguardo della mistica, di un’estasi, di un trasumanare di cui lo spettatore può avere notizia riflessa attraverso il bagliore delle pupille. Guardare in essi significa accorgersi dei fuochi dei bivacchi di un esercito pronto per la prossima battaglia, per scriverla alla Chopin, nascondono tonitruanti cannoni dietro ai fiori. Hanno ancora impresso lo stupore insieme dell’umano e del divino, che guardano e, allo stesso tempo, vivono. Il naso si inchina in una delicata reverenza verso il pubblico.

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Ph Laila Pozzo

E porta le vestigia di un’antica e fiera nobiltà, quando si affaccia sul balcone dello sguardo. Le labbra sfuggono ai limiti, chiamano il rosso, come una rosa chiama quel colore per i suoi petali, munchianamente dotate della smorfia dell’urlo, della passione e della tragedia. Sono pronte a inarcare, piegare la loro linea azzimata in un esercizio ginnico al di là dei limiti umani, creano geometrie diverse, dove la linea curva, il cerchio dionisiaco, prende decisamente il sopravvento. Tutto il suo corpo è una lettera di una scrittura carnale, un grafema e poi un altro e un altro ancora, in grado di scrivere frasi viventi. Vive immediatamente un’affinità elettiva di goethiana memoria con i personaggi che interpreta, ha l’indispensabile ansia di Woyzeck nella sua vita scenica, e sa torreggiare come una regina capace di comandare con uno sguardo. Quanti mortali coltelli dal filo incredibilmente tagliente sa nascondere un suo sorriso.

Quanto riesce ad essere l’archetipo del femminile nella duplice veste dell’amore e dell’odio, della madre e della morte, della pietà e del disprezzo, del filo della Parca Cloto, e del taglio netto di Atropo, del generoso abbraccio, e del gesto crudele, distante, brechtianamente straniato, dell’assassino. La Fracassi riesce ad essere tutto questo, riesce ad accumulare sovraimpressioni di ogni possibile sé, a mostrare come le contraddizioni siano quello che si definisce io, a evidenziare il prevalere ora dell’uno ora dell’altro personaggio della personale popolazione interna. La carica poetica nascosta nell’umano è mostrata in questo corpo femminile, che riassume in sé tutto il percorso dantesco, dal ghiaccio in cui è sepolto Lucifero all’amore che muove il cielo e le altre stelle. C’è un personaggio, in particolare, che rimane impresso nella memoria come una persistenza retinica degli occhi interiori, quello di Blondie, il cane di Hitler.

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Ph Lorenza Daverio

Si tratta di un essere più umano dell’umano, un cuore di cane di bulgakoviana memoria che batte come e più del nostro muscolo cardiaco. Si tratta di un miracolo della drammaturgia e dell’interpretazione, regala una voce, un riuscito grammelot a un essere che guarda le sue stelle biscotto come il pastore errante di Leopardi guarda la sua Luna. Alla platea si offre la struggente consapevolezza di un’esistenza che racconta la vita dal suo particolare punto di vista, che riesce a fare degli astri qualcosa di più degli astri, anche con un semplice sguardo, un verso che si colloca prima delle parole, ma decisamente dentro all’anima. La Fracassi trova poi un’ulteriore intuizione, che rende unica la sua interpretazione, la certezza che per ogni tensione lirica, in ogni momento umano che si candidi ad incarnare l’eternità della poesia, si debba pagare un prezzo di tragicità.

Si debba pagare un debito fatto di dolore, di sforzo sovrumano, di potenza erculea, trovata in una zona del ventre in cui il diaframma batte come un tamburo di guerra. Allora a mostrarsi è una lupa verghiana, un essere che fiuta la carne del divino nella nostra selva oscura, e dà l’impressione di masticarla ad ogni fonema. È un Prometeo che dona la fiamma del teatro agli spettatori tutti, che sente e fa sentire il dolore del fegato beccato dall’aquila di Zeus, punizione per quel gesto. Fa recitare il dorso, la sua schiena, la fa diventare una splendida espressione di un viso, si offre tutta con generosità alla platea, cosciente, istante per istante, di essere sacerdotessa di un rito sacro, dionisiaco, un rito che richieda il sacrificio di un’anima che ad ogni replica si brucia e rinasce, come l’Araba Fenice, come il carretto nel finale della versione strehleriana dei Giganti.

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Ph Attilio Marasco

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Rudy. L’ultimo Valentino – Recensione Teatro

in Recensione
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Ph Fabio Spagnoletto

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Rudy L’ultimo Valentino, la storia del mito del cinema raccontata attraverso le sue parole, i suoi pensieri. La drammaturgia, la regia e l’interpretazione si raccolgono nel nome dell’interprete Gianpiero Cavalluzzi, che regala un assolo intenso e struggente.

Rodolfo Valentino, già in forma calligrafica, così, immediatamente, assurge al mito, già nelle parole si sente il profumo di un’idealità che persiste come l’Arpege di una grande diva. Ed eccolo apparire, sul palcoscenico, nell’unico modo possibile di rappresentarlo, nella verità della sua anima, nelle sue confessioni agostiniane, nel flusso di una coscienza che capisce quanto sia difficile essere divinità per gli altri ed essere umano per se stesso. Se si immagina una trasposizione contemporanea di un personaggio della mitologia greca, un Adone, un Apollo, non si può che pensare che a lui, a quei fotogrammi che hanno strappato all’impermanenza di una singola vita l’universalità, se non l’eternità, del cinema. La drammaturgia, a cura di Gianpiero Cavalluzzi, anche interprete, è il risultato di un lavoro di alta sartoria drammaturgica delle parole di Valentino, vere quanto la realtà che ci aspetta appena svegli.

La freschezza di questo lavoro, il suo principale merito, è quello di evitare la trappola agiografica, di non creare piedistalli marmorei al personaggio, ma di offrircelo così, senza un filo di grasso retorico, senza rimaneggiamenti o glosse. Ecce homo, sta davanti al Pilato della platea, pronto a raccontare i dietro le quinte, i fuori scena, il veleno di qualche giornalista, che proprio non sopporta il serto di bellezza con il quale il suo pubblico lo ha impalmato. A vederlo così, nel suo costume iconico, figlio, più che dello sceicco, di una bellezza difficile da portare, ci si rende immediatamente conto di quanto sappia di sale, spesso, la fama, la notorietà. E quando si cambia indossando una frusciante, serica, vestaglia da camera, si ha l’impressione di osservare un Proust che si è rifugiato nella camera della scena, per raccontare minuziosamente, parola per parola, fonema per fonema, la ricerca del tempo perduto.

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Ph Fabio Spagnoletto

Cerca di fare quello che si fa in una sala di montaggio cinematografica, ovvero di ricostruire il film della sua vita, di recuperare, sulla pellicola della memoria, tutto il girato, tutto il faticoso piano sequenza del suo esistere. E se l’adagio di Dostoevskij “la bellezza salverà il mondo” è veritiero, questo monologo sembra lanciare un interrogativo che fa da corollario a esso, “chi salverà la bellezza da se stessa?”. Gli dei devono sentirsi parecchio soli, e non fa eccezione il nostro Valentino. E non basta senz’altro un po’ di fumo del mito, sacrificato sull’ara delle sale cinematografiche, a restituirgli la serenità. L’attore efficacemente ci ricorda che più si è amati dalle moltitudini, più si perde l’abbraccio, l’individualità di un amore cercato strenuamente. Si forma quel muro, quel wall pinkfloydiano tra il divo e la sua platea, un processo di alienazione, che un buon scotch può perlomeno stordire ed attutire.

Proprio come fece Valentino ai suoi inizi in America, anche l’attore diventa per la sua platea una sorta di taxi dancer, in grado di far letteralmente ballare alla platea, ora un vertiginoso valzer, ora un passionale tango, ora un malinconico lento, dove confessare tutto l’amore lasciato lì, poco prima del ciak, o poco dopo. Quanta struggente melanconia c’è in questo spettacolo, e quanto l’interpretazione di Cavalluzzi diventa una timida, delicata carezza che tocca piano il viso di Valentino, perché ha paura di fare male al suo tenero ricordo. La sua recitazione ha la capacità di mostrare la doppia natura di cristallo di questo personaggio, la luce riverberante, ma anche l’estrema fragilità. Fa idealmente tesoro di quanto affermato da Rita Hayworth qualche tempo dopo questo Valentino: “pensano di andare a letto con Gilda, e poi si ritrovano con Rita”. Come nel teatro di Euripide, gli eroi non sono tutti d’un pezzo.

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Ph Fabio Spagnoletto

Non sono scolpiti nel marmo, ma sono fatti di fragilità, ripensamenti, contraddizioni, sono umani quanto noi, con la differenza di dover incarnare qualcosa di superumano. Alla fine appare evidente che sotto la seta dei suoi abiti, ce n’è un’altra altrettanto delicata, appena un soffio sotto la sua pelle. Non era facile trasformare i suoi baci iconici, i suoi sguardi languidi, le sue intenzioni devianti, sos nella bottiglia lanciati nell’oceano del suo pubblico, ma l’interprete ci è riuscito, si è fatto piccolo piccolo nella sua anima per lasciare il posto a quella di Valentino. Rincorreva, come tutti gli esseri umani, la sua felicità Valentino, ed era molto più complessa della trama di un suo film, ma forse era uno spazio silenzioso, inconsapevole di sé, come dovrebbe esserlo la felicità, nella sua infanzia a Castellaneta, in un vestito di un’eleganza senza fiato, in una promessa d’amore di un paio di occhi.

Il suo finale è arrivato troppo presto, ma, come da copione, per citare una canzone di De Andrè, come tutte le più belle cose. visse solo un giorno, come le rose. E quella divinità, così scomoda, che gli si attribuiva, chiedeva un prezzo troppo alto per diventare definitiva, la morte in giovane età, la cessazione della sovrapposizione di una biografia così distante, a volte, dalle cronache del mito. Con il suo incarnato d’avorio canoviano, con le mani gelide di una Mimì che raccoglie tutto il suo calore nel cuore, che offre con generosità al suo pubblico, con il suo passo leggero, con gli occhi gonfi di sogni e sentimenti, l’interprete si offre così, nell’eterno sacrificio del teatro. Per istante, per un meraviglioso lunghissimo istante, si ha l’impressione che Valentino sia davvero lì di nuovo, e per sempre, di fronte a suo pubblico, proprio un momento prima dei generosi applausi.

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Ph fabio Spagnoletto

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Shocking Elsa – Recensione teatrale

in Teatro
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Ph Emma Terenzio

Nell’ambito della stagione teatrale 2021/2022 di PACTA. dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Shocking Elsa, dedicato alla figura della stilista Elsa Schiaparelli. Il testo è di Livia Castiglioni, interpretato da Maria Eugenia D’Aquino. La regia è firmata da Alberto Oliva. La produzione di questo lavoro teatrale è curata da PACTA. dei Teatri.

Je est un autre”, la frase di Rimbaud che riecheggia nella psicanalisi lacaniana, è un leitmotiv di questo spettacolo, la ricerca dell’identità, di quel quid, inafferrabile, immediato ed insieme indeterminato, che ci caratterizza. Lo cerca Elsa Schiaparelli, interpretata da un’efficace Maria Eugenia D’Aquino, che vive una vera e propria goethiana affinità elettiva con il personaggio. Si trova in una sorta di al di là, nel quale le porte chiuse di sartriana memoria diventano gli schermi di un programma televisivo. Se la carne si era contaminata e sublimata nelle immagini cronenberghiane di Videodrome, lo può fare anche l’anima in una sorta di spazio escatologico. Se la vita è tutta un quiz, lo può essere anche l’oltretomba, può trasformarsi in uno studio televisivo, e rispondere alle domande di una misteriosa voce fuori campo, può essere una pura formalità, anche se Tornatore ci ha insegnato che può essere molto di più di questo.

Rievoca la sua vita Elsa Schiaparelli, che preferisce far cadere l’ultima parte del suo nome, che prende in prestito la forbice delle Parche per regalarsi un destino diverso, e tagliare corto con le lungaggini. Le sue Madeleine proustiane sono dei semi con cui si riempiva la bocca da bambina nella speranza che potessero sbocciare e fiorire sul suo viso. Ama i surrealisti, è decisamente uno spirito dionisiaco, non può che trovarsi a suo agio nella teatro consacrato a Dioniso. E le parole diventano paesaggi, città, Parigi, New York, la Russia, le tappe, o meglio, i passi di danza esistenziale di una creatura che scivola sul mondo come seta leggera, ma che, contemporaneamente lo cambia per sempre. Come la scelta rivoluzionaria, contro corrente di quel rosa shocking che incombe dai fari alle sue spalle, di quel colore carico che vuole essere uno schiaffo marinettiano alle convenzioni, alle formalità, alle grigie abitudini.

Un colore può farsi rivoluzione, può diventare uno stendardo, qualcosa di molto simile al pennacchio di Cyrano, l’espressione più completa, sintetica, estremamente simbolica, dell’irriducibile essenza della propria individualità. Ha anche dei momenti struggenti questa Elsa, ha emozioni pronte a tracimare nella voce e negli occhi, il rapporto con il padre, con la figlia, con lo zio astronomo, attraverso il quale vorrebbe Marte come il Caligola camusiano vuole la luna. Vuole riuscire a rivedere le sue stelle, che ci ha mostrato attraverso le sue creazioni. Vive l’esperienza della guerra, rivive il rapporto con la nipote Marisa Berenson attraverso la relazione con le immagini pittoriche del film Barry Lyndon, e riesce nell’impresa impossibile di toccarle attraverso le sue parole, con la purezza della mano del bambino all’inizio del bergmaniano Persona, o come il regista del Truman Show che accarezza i pixel che compongono l’immagine dormiente di Truman.

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Ph Emma Terenzio

Fa un buon lavoro il regista Alberto Oliva riuscendo a meticciare felicemente la dimensione mediatica dello spettacolo, lo studio metafisico televisivo, con un monologo intenso tutto carne e sentimenti. A volte sviene questa Elsa, cade come corpo morto cade, visitando il suo paradiso/inferno, ma è sempre pronta a rialzarsi, a sfidare gli dei con la sua irriverente, gioiosa hybris, e i suoi occhi, con buona pace della Clitennestra della Yourcenar son ben aperti sia nel piacere che nel dolore.  L’attrice è in una sorta di stato di grazia, sente e vibra, come la corda di un pianoforte, sotto i colpi del martelletto di questa biografia. Mostra la sua anima al pubblico, la sua lucente e fragile seta, come un bimbo potrebbe mostrarci la lucciola che tiene fra le mani. Suona uno spartito difficile, e la sua è una perfetta esecuzione. Sembra di incantarsi, nella sua voce, in ogni suo fonema.

È una composizione di Chopin che, sotto la meraviglia floreale, nasconde dei cannoni. Ma, osservandola ed ascoltandola bene, il tesoro più profondo, il regalo speciale donato alla platea, e fatto di piccoli grandi gesti, espressioni, risate che sembrano punti di sospensione, veli che coprono solo in parte, e lasciano intravedere la forma ineffabile dell’anima. È qualcosa di speciale, un’occasione preziosa quella di poter testimoniare questa punteggiatura interpretativa, che è essa stessa una drammaturgia, anzi l’inconscio svelato di una drammaturgia scritta intingendo idealmente la penna direttamente nel calamaio del cuore. Vederla seduta in mezzo alla scena, scoperta nel corpo e nello spirito da luci frontali e da controluci, o nella dolorosa e insieme fiera verticalità, equivale a partecipare alla creazione dell’ultimo vestito, l’ultimo modello, ricavato direttamente dalle linee curve, imprevedibili dell’anima. Elsa accetta il gioco di travestimento, di teatro nel teatro, e interpreta Coco Chanel.

Vive una sorta di sdoppiamento, di altro da sé, di alterità apollinea, distante anni luce dalla sua dionisicità, eppure in grado di completarla, di chiudere il cerchio anche con quella consapevolezza altra, nascosta, opposta al nostro essere, che battaglia incessantemente con la nostra coscienza. D’altra parte la coscienza per riconoscersi deve trovare uno specchio, un’altra identità per potersi riconoscere e identificare, magari per opposizione. La laringe del’interprete ad ogni “adesso” scenico batte il suono della verità, mostra tutto il modo di essere declinata, plasmata dai colori delle emozioni di Elsa. E se la musica bowiana, nel finale, ci ricorda che c’è vita su Marte, con altrettanta sicurezza, alla fine di questo spettacolo, si può affermare che c’è vita, eccome se ce n’è, anche sul palcoscenico di Pacta dei Teatri – Salone di via Ulisse Dini, nella potente interpretazione dell’attrice Maria Eugenia D’Aquino.

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Fly by me – Recensione Teatro

in Teatro
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Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Fly by me, la fantastica storia degli inventori dell’aereo. I fratelli Wright diventano oggetto della drammaturgia di Carlo Della Santa, che è anche l’interprete di questo testo. Questo lavoro è stato pensato e realizzato nella duplice modalità online e onlife.

Carlo Della Santa è un attore che letteralmente prende il volo. Prende un fiato, e lo prende lungo come se lo aspettasse una lunga apnea, e sembra che quello stesso fiato duri più di un’ora. In quel vento d’aria fa volare tutta una lunga serie di fonemi, e non c’è un momento in quel volo in cui manchi la luce di un sorriso. Il teatro di narrazione a un certo punto deve farsi azione, deve fare di un corpo cento corpi, un’intera scenografia, deve diventare la carne di una storia, o la ciccia,  per omaggiare la terra Toscana dell’interprete. E l’attore riesce a fare tutto questo, riesce a trasformare una storia che giace in qualche scaffale di libreria, in una drammaturgia che ha l’argento vivo addosso, che ti travolge in un girotondo che non puoi idealmente fare a meno di condividere con chi si trova sulla scena.

Non si tratta semplicemente di un monologo, ma di una cucina di creatività, dove senti il profumo delle parole, lo sfriccichio  dell’olio della comicità, e due mani che sembrano impastare il racconto, che sembrano volerne restituire tutto quanto il percepibile possa offrire. Riesce in una fondamentale impresa, ossia quella di ridonare la forza della vita a due nomi, quelli dei fratelli Wright, altrimenti costretti nello spazio angusto di un libro o di una targa commemorativa. Carlo si dipinge, con ogni gesto ed ogni parola, le mani e la faccia di blu, e ha negli occhi la febbre del volo, ha un paio d’ali che sono tutte lì, in un corpo e in una laringe che potrebbe timbrare tutti i nomi del cielo. Ma non si ferma a questo, dalla sua recitazione tracima l’entusiasmo, la necessità, e, diciamo pure, l’urgenza del raccontare come gli antichi aedi.

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Riesce a ritrovare quella dimensione magica, misterica, magnetica, ipnotizzante della parola, che Freud ha ricordato nei suoi scritti. Ti porta sulla sua giostra l’attore, e ti verrebbe voglia di restarci per molto più di un’ora. Non si limita a raccontare i tentativi di un volo, ma lo diventa, anzi le sue braccia spesso diventano quasi gli arti di un volatile, e l’aria se la trova tutta lui, quanta ne possono offrire i suoi capienti polmoni. In mano, nascosta da qualche parte, come un abile prestigiatore, tiene la ghianda di Hillman, quel daimon, quella forza, quella predeterminazione, quel destino che spinge i due fratelli a vincere l’impossibilità umana del volo, e parallelamente, a portare l’attore a interpretare una storia con tutto se stesso. Plauto ci ricorda che non è facile volare senza ali, eppure l’interprete ci riesce, eccome se ci riesce, fin dal primo tentativo.

Alterna il racconto della propria passione giovanile per una ragazza dai capelli rossi, e riesce a reinventarsi la slapstick, la comicità del cinema muto, la cartoonistica abilità di vedere il suo corpo aprirsi, flettersi oltre misura, compiere l’impossibile che potrebbero compiere i Tom e Jerry di un cartone animato. E subito torna lì, a quel cruccio, a quella voglia di due fratelli di superare la sindrome di Icaro, di fare del cielo un’ulteriore strada da percorrere, un posto dove non dimorino più i desideri, ma la realizzazione degli stessi.  Non c’è parola dell’attore che non sia più leggera dell’aria, che non diventi la piuma di Forrest Gump, pronta a passare, dispettosa, curiosa, affascinante, sopra i nasi degli spettatori. E come sono piacevoli le “bischerate” con cui condisce il racconto, ricordandoci che la commedia sta sempre lì, da qualche parte, in ogni situazione, pronta ad essere presa,

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Ed un sorriso, regalato o provocato, è un ottimo viatico della comunicazione, è un po’ come prendere per mano chi ti sta ascoltando, è un po’ come fare sentire il calore della propria presenza. E c’è qualcosa di tattile in questa voce, come la volontà di dare una mano in regalo ai fonemi, una mano in grado di toccarci. C’è la volontà chiara di avere una platea viva, vitale, di scaldare la temperatura emotiva della sala. La crosta di questo pane teatrale toscano scrocchia e lascia poi il posto ad una mollica dolce, arrendevole, che chiede soltanto di essere masticata dallo spettatore. Con la rapidità di un Fregoli, il protagonista diventa ora un affabulatore, ora un comico da stand up comedy, ora un testimone innamorato della storia che racconta, ora un funambolo in perfetto equilibrio tra la serietà e la risata. Certamente  ascolta i suggerimenti della Musa della commedia Talia,

Sa che anche la risata, al pari della tragedia, ha la sua forma di catarsi. Fa piacere riscontrare quanto sia riuscito l’esperimento drammaturgico di costruire un teatro didattico che mantenga tutta la sua anima. Tutto questo Carlo riesce a farlo con una naturalezza estrema, un risultato che non è mai agevole da ottenere. Nel suo viso sembra racchiusa tutta quella toscanità vitale, piacevolmente irriverente di un Cecco Angiolieri che non faceva mistero di prediligere: “Le donne, la taverna e ‘l dado”. Governa lo spettacolo con la stessa sicurezza con cui i fratelli Wright governavano i primi aerei. D’altra parte, come ci ricorda Leonardo, chi ha provato il volo continuerà a camminare guardando il cielo, perché là è stato, e là vuole tornare. E questa sensazione è condivisa dalla platea, che si porta in tasca un po’ di quel cielo in cui ha volato insieme all’attore, per una meravigliosa ora.

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La Sorpresa dell’Amore – Recensione Teatro

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Nell’ambito della rassegna Teatro a CieloAperto di Pacta dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo La sorpresa dell’amore di Pierre Carlet de Chamblain de Marivaux, interpretato da Federica D’Angelo, Maria Eugenia D’Aquino, Riccardo Magherini, Annig Raimondi e Antonio Rosti. La regia è firmata da Paolo Bignamini, e la produzione è a cura di Pacta dei Teatri in collaborazione con CTB Centro Teatrale Bresciano.

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La chimica invisibile – Recensione Teatro

in Novità/Teatro
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Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo La chimica invisibile, da un’idea di Mariasole Bannò, scritto da Andrea Albertini. La regia è curata da Bruno Frusca.

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VERLAINE+RIMBAUD – Recensione Teatro

in Teatro
Foto della recensione Verlaine+Rimbaud
Ph Emma Terenzio

Nell’ambito della rassegna teatrale di Pacta dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo VERLAINE+RIMBAUD (Un’ora all’Inferno con te) di Maddalena Mazzocut-Mis, dalle liriche di Verlaine e Rimbaud, interpretato da Alessandro Pazzi ed Edoardo Rivoira. La regia è curata da Annig Raimondi, e la voice off è quella di Massimiliano Zavatta. Diciamolo subito, questo spettacolo, con il piglio di un Antigone, vuole raccontare l’assoluto, quell’universale che gronda dal verso poetico, dalla poesia simbolista, e lo fa passando attraverso il corpo e la voce dei due interpreti. Fin dall’antichità gli esseri che sono scelti dagli dei per diventare la loro lingua umana, per tradurre le loro parole, sono condannati ad una irriducibile diversità, ad una malattia metafisica cronica che gronda anima. Rimbaud e Verlaine, attraverso la loro presenza, sono, prima di tutto, la loro corporalità, che diventa una sorta di coreografia, perché il corpo è già un primo segno grafico, una calligrafia che scrive faticose parole esistenziali. Sembrano gli ultimi pezzi di una scacchiera, i due re che ostinatamente continuano una partita, la quale non può che risultare patta, lo scaccomatto, semmai, se lo daranno autonomamente. È la storia di un “odi et amo” catulliano.

Esprime una liason che non può che essere dangerouse, perché ha come terzo amante la poesia stessa. La luce taglia a rasoiate lo spazio, lo fa sanguinare, cerca l’altro, si sforza di far intuire paesaggi diversi, metafisici. E quel busto in scena racconta benissimo il senso si straniamento, di solitudine del poeta, che, al pari dell’albatros di Baudelaire, quando è costretto a muoversi sulla terra, tra la prosaicità della vita, caracolla goffamente, magari, similmente a Rimbaud, cercando nell’Africa del “hic sunt leones” un inconscio kurtziano, un cuore di tenebra con cui poter regolare finalmente gli ultimi conti. In fondo la loro coppia rappresenta l’eraste e l’eromene, l’antico amore didattico tra il giovane e l’uomo maturo. Ma qui ad insegnare il caos di Dioniso sembra essere Rimbaud, che dell’Alcibiade del Simposio ha l’ebbrezza procuratagli da una bottiglia di assenzio, e Verlaine di Socrate ha la tentazione di sorseggiare la cicuta.

Foto della recensione Verlaine+Rimbaud
Ph Emma Terenzio

Spera di poter guarire definitivamente dalla malattia esistenziale. Ed intanto si parlano con le loro poesie, che, attraverso la voce fuori campo, vivono anche nell’originaria lingua francese, ed è una piacevole scoperta quella di poter assaggiare la matericità di questo suono. Non è un caso che lo specchio, sia esso un piccolo cerchio, o uno grande in grado di abbracciare l’intera figura, incarni la presenza scenica in grado di diventare l’irresistibile forza di gravità per i due personaggi. Questo oggetto mi ricorda i versi letti alla Lady Lyndon cinematografica: “Les coeurs l’un par l‘autre attirés/se communiquent leur substance/ tels deux miroirs ardents…”, i cuori si comunicano la loro sostanza come possono fare due specchi ardenti, i due poeti si trovano e si perdono nel gioco dell’identità dello specchio, che ci restituisce insieme l’identità e l’altro. Lo specchio rimanda etimologicamente al “guardare”, è l’oggetto atto a guardare ed insieme a guardarsi.

Diventa l’antico strumento fiabesco delle proprie brame, lo interrogano su chi sia la più bella del reame, ma la risposta invariabilmente è: “la poesia”, e la vita è condannata ad essere la prosa, la eco di una luce superiore, di un’illuminazione che riposa sul foglio. È brava la regista Annig Raimondi a creare una sorta di coreografico e delicatissimo pas de deux, dove i corpi stessi dei poeti diventano simbolo, si cercano, si trovano, si respingono, ma non riescono ad allontanarsi definitivamente, si danno significato reciproco attraverso questa dolorosa dialettica. Per raccontare i vasti orizzonti metafisici del panorama poetico dei due personaggi, riesce a straniarli, riuscendo nell’impresa di vestire Brecht della seta della poesia simbolista. Torreggiano sulla scena, danno senso allo spazio intorno a loro, costruendo continue distanze, geometrie dinamiche. Giocano coll’allontanarsi/avvicinarsi come l’Hans freudiano fa con il suo rocchetto.

Foto della recensione Verlaine+Rimbaud
Ph Emma Terenzio

E davvero il loro gioco serio e tragico, va al di là del principio dl piacere, ed ad un certo punto il rocchetto diventa il grilletto della pistola di Verlaine rivolta contro Rimbaud, la tentazione della “mortido”, Thanatos strattona decisamente Eros, e fatalmente lo fa cadere. Alessandro Pazzi, l’interprete di Verlaine, riesce a graffiare ed accarezzare con i suoi fonemi, si lascia abitare dalle parole, fa decisamente percepire allo spettatore quanto sia dolce naufragare in questo mare. Più che l’anima di un singolo personaggio incarna quella delle liriche, s’immedesima nel verso diventando una sorta di Pizia, di oracolo posseduto da una voce divina. Si avverte tutta l’urgenza non di limitarsi ad interpretare la poesia, ma di essere quella luce lirica, fonema dopo fonema, gesto dopo gesto. Edoardo Rivoira è un perfetto Rimbaud che esprime nella sua vocalità i suoi pugni nelle tasche sfondate.

La sua dinamite anarchica nei confronti di un mondo farisaico, troppo piccolo per contenere la sua poesia, si incontra e si scontra con Verlaine, diventa un suo doppio, incarna il Dioniso che intossica il suo amante poeta. Ma soprattutto parla con il corpo, ne fa una sorta di pietà scultorea, di estremo verso poetico scritto, inciso, nella carne, nei muscoli, nei nervi  e nei tendini. I due poeti passano la loro stagione all’inferno, ed il grido per le ustioni di quel calore diventa la loro poesia. Come i personaggi di Sartre sanno che l’inferno sono gli altri, ma nel gioco dello specchio comprendono che quell’inferno è l’immagine che l‘altro rimanda di se stessi. E sugli applausi finali, caldi e particolarmente generosi, idealmente riescono, insieme agli spettatori, a rivedere le loro stelle.

Foto della recensione Verlaine+Rimbaud
Ph Emma Terenzio

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Odisseo racconto di un’ePOPea – Recensione Teatro

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foto recensione Odisseo racconto di un'epopea

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Odisseo racconto di un’ePOPea, recitato dall’attore Carlo Decio, e diretto dal regista Mario Gonzalez. il lavoro rappresenta l’occasione di restituire al personaggio omerico tutta la sua umanità. Quando l’attore ha l’urgenza di raccontare una storia, quando le parole sono una pittura materica, diventano non delle pennellate, ma il disegno stesso delle dita intrise di colore sulla tela della quarta parete, si guarda e si ascolta la vivacità di quel quadro come si guarderebbe una tigre dipinta da Ligabue. Sembra che i nervi, i tendini, ed i ritmi cardiaci siano la stessa vocalità cromatica, che vive una vita propria, che sfida in vitalità il corpo stesso che la abita. La storia di Odisseo sembra fatta apposta per accendere la miccia, per dare fuoco alle polveri, per narrare il racconto dei racconti, quello dell’uomo inviso agli dei, che scrive la sua tragedia da un luogo all’altro, che ne piega il finale, che sfida gli dei laddove la sfida sembra più impossibile, sul terreno della conoscenza, del sapere.

Carlo Decio, l’interprete, ha il merito, di immergere fino al tallone ed anche oltre, il suo personaggio nell’umanità, ne mostra la carne emotiva, la ferita interiore che fatalmente brucia, sferzata dall’acqua salata del mare. Ed il centro della sua narrazione in grado di farsi corpo, di plasmarlo in paesaggi, personaggi, rumori, è una bocca, e che bocca. È Cariddi, un vortice, un gorgo, che ci risucchia nell’attenzione e nell’ascolto, circondata da una barba rude, aspra, come certi paesaggi della macchia mediterranea, ed i denti  sono gli scogli dei mille approdi, della petrosa Itaca. Sembra la bocca dell’album dei King Crimson che tutta contiene le traversie di un lungo viaggio, dei pericoli, delle paure, delle speranza, è la bocca di Polifemo che rigurgita vino e carne umana, ma anche maledizioni contro il suo accecatore. È l’erede ideale degli aedi, degli antichi cantori, ma è anche una marionetta biomeccanica, un mimo.

Foto recensione Odisseo racconto di un'epopea

Diventa un mostrarsi di corpi in un solo corpo. Ma, più di tutto, è generoso l’attore con il suo racconto, ci versa dentro, pieno raso, tutto il vino della sua anima, e lo fa bere agli spettatori, tutto d’un fiato. Ed i suoi fiati sono lì, tutti pronti a gonfiarsi come l’otre di Eolo, per contenere tutte le parole, anche quelle che non ci sono, o che potrebbero esserci. In certi momenti, visivamente, ricorda una sorta di uomo vitruviano, che mostra come si possa trovare la quadratura del cerchio, come Dioniso ed Apollo, ragione e sentimento possano mostrarsi in una meravigliosa sovrapposizione. Gli si sente addosso l’odore di certi palcoscenici di strada, quelli ricavati da qualche tavola di legno, quelli in cui devi proprio spremerlo tutto il muscolo cardiaco nelle parole per catturare l’attenzione. Ha la forza trascinante del giullare.

Possiede l’energia di chi può permettersi di raccontare l’uomo perché ne conosce bene il ventre, gli è più vicino della sua stessa giugulare. La narrazione slitta fatalmente in azione ad ogni istante scenico, si lascia sostanzializzare dalla carne dei personaggi. Lui viaggia attraverso terre pericolose, affascinanti, terribili, e lo spettatore viaggia nelle parole e nei gesti, nelle capriole, nei lazzi, di questo zanni, di questo efficacissimo Arlecchino omerico che, idealmente, ha tante toppe colorate quante sono le sfumature del suo racconto. Cucina la sua storia, come un cuoco potrebbe impastare la farina, stendere la pasta, assaggiare la sua creazione in fieri. Ci invita tra i fornelli del destino di Odisseo, e ci mostra quanta sia facile scottarsi, o tagliarsi, ma anche avere la possibilità di degustare dei piatti prelibati. Sembra una riuscita sovraimpressione della danza fisica, sciamanica, a piedi nudi, di uno spirito della terra, di un Calibano.

Foto recensione Odisseo racconto di un'epopea

Ed insieme esprime quella eterica, leggiadra, arabescata, di uno spirito dell’aria, Ariel. E davvero tutto il suo corpo è un meccanismo scenografico in perenne movimento, un periatto che, ruotando, mostra scenari ogni volta diversi, e, senza neanche accorgersi, ecco che lo spettatore è già entrato nella magia dell’abracadabra del racconto. Passa, come solo un bambino è in grado da fare, dalla rabbia, alla gioia, al dolore, alla sorpresa, ed ogni volta con lo stesso stupore, ogni volta come se fosse la prima volta. La sua voce ricorda le mani di certi scultori del legno, mani vissute, grattate, che portano i segni dell’eterna battaglia per vincere la materia, e cavarne fuori l’opera. E quando abbraccia l’ombra della madre morta e rivista nell’Ade, tira fuori dalle tasche tutta la semplicità, tutta la naturalità di un sentimento che è immediatamente lì.

Verrebbe voglia di abbracciare questo Odisseo, di consolarlo. La fallacia di Ulisse diventa la sua forza, gli errori, i ripensamenti, tutte le debolezze ce lo tirano giù dalla teca museale del mito, e ce lo rendono un amico che si accende mentre ci narra episodi della sua vita. Per lui sono valide le parole di una poesia di Brecht, “tu non avevi nessuna debolezza, io ne avevo una, amavo. E quel “tu” potrebbe essere la risposta beffarda, ideale che il personaggio rivolge agli dei. In fondo il fatto di essere perseguitato dalle divinità, gli permette di sviluppare una muscolatura interiore, spirituale, di esercitarsi in questa sfiancante ginnastica psichica, emotiva. Quando abbraccia Penelope, e quell’abbraccio non è chimerico come quello con il genitore, ritrova la freccia più appuntita in grado di bucare l’invulnerabile corpo degli dei.

Foto recensione Odisseo racconto di un'epopea

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Ultima notte Mia – Recensione Teatro

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Foto della recensione Ultima notte mia

Nell’ambito della rassegna Teatro 2.0 Live Streaming vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Ultima notte Mia, un omaggio alla grande cantante per cui “non finisce mica il cielo”, ma continua nella voce, scritto da Aldo Nove, e diretto dal regista Michele De Vita Conti. A vederla torreggiare, fiera, su un letto, questa Mia Martini, magistralmente interpretata da Erika Urban, sembra di vedere un antico personaggio della tragedia greca. Ecco che fa mostra di sé una Cassandra che sa bene quale sia il prezzo di essere una favorita degli dei, ma anche quello di non voler mercanteggiare o scendere a compromessi per la loro benevolenza. L’una è condannata a non essere creduta, l’altra a un’ottusa, irrazionale, superstizione, ad una diceria dell’untore, al gioco tragico della sfortuna. Come calzano bene i coturni tragici sui piedi di Mia, e come affronta con la dignità di una Antigone il suo destino, e a ogni doloroso sorriso sembra dirci: “nacqui a legami d’amore e non d’odio”. E persino gli dei, gli stessi che ostinatamente cercano di fare deragliare il suo destino, rimangono in silenzio, come il pubblico di una partita a tennis.

E qui, al posto dello schiocco della palla sulla rete della racchetta, si sente quello della lingua. La protagonista non si limita a raccontarsi, si spreme letteralmente l’anima in ogni fonema, batte ogni sillaba di emotività, la sua tastiera interpretativa non perde una singola lettera, anche sotto il diluvio delle dita cardiache. È instancabile, e soprattutto, è sempre lì, esattamente nella battuta che pronuncia, nel presente di ogni istante, non manca un solo appuntamento emotivo con il testo. E poi ci sono gli sguardi, certi sguardi che diventano come dei punti di sospensione, come dei momenti in cui, mentre la parola tira il fiato, l’anima si mostra senza mediazioni. Guarda in macchina e sembra avere l’intuizione dello sguardo degli spettatori, guarda tutti noi, e si ha la netta impressione che quegli occhi pronuncino la stessa frase pirandelliana tratta dai Sei personaggi: “Ma quale finzione, realtà!”.

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Tutto si incastra alla perfezione, tutto si combina meravigliosamente, il testo scritto da Aldo Nove, la regia di Michele De Vita Conti, e l’interprete Erika Urban, ogni tassello va al posto giusto e compone il ritratto di una grande interprete della canzone italiana. Questo monologo è molto di più di una storia di una vita artistica, è il viaggio attraverso una vocazione, il bisbiglio del daimon socratico che ad ogni passo sussurra alla protagonista: “Canta e fallo come sai fare tu”. Non capita spesso di vedere una vita raccontata così naturalmente, in grado di rinfrescarti come può fare l’acqua di fonte sul viso. Per fare un testo scenico basta un letto ed un sorriso vestito di un’anima che è lì per ricordarci quanto sia importante conquistare la propria storia, e , in definitiva, se stessi. Erika ha la capacità di entrare in una speciale intimità con lo spettatore.

È come se ci trovassimo tutti lì, sotto le coperte, per ascoltare quella storia che, per dirla alla Breil, è riuscita ad invecchiare, senza diventare adulta. Ha l’argento vivo di una bambina, di una Zazie nel metrò questa Martini, ed anche quando la voglia di piangere sarebbe lì, a meno di un fiato dalla guancia, c’è sempre pronta una fanciulla che ha una voglia matta di cantarcela questa vita. E d’altra parte il discorso quando si riempie raso di emozioni, non può far altro che trasformarsi in canto. L’attrice riesce in un vero e proprio miracolo, vale a dire quello di far sentire nelle sue battute, la musica di Mia, di farci odorare il profumo delle intenzioni di un canto che sottende tutto questo monologo. E poi c’è il racconto dell’arresto, il momento in cui le viene marchiata a fuoco la lettera scarlatta della porta-sfortuna, il problema con la voce.

Foto della recensione Ultima notte mia

E dopo segue il calvario delle operazioni. Tutti questi sono ostacoli che la protagonista supera ogni volta con tragica potenza, perché la stessa voce lirica dell’Andrea Chenier che ricorda che “nel dolor può venire l’amore”, è la stessa che parla, che stimola, che sferza la cantante. Ci si incanta letteralmente ad osservare la purezza di questo diamante luminosissimo che accende di luce anche questo testo teatrale a lei dedicato. Ma l’immagine che più ci rimanda l’essenza stessa di questo personaggio, il centro del centro del suo essere, è quella di lei accovacciata sul letto che indossa un paio di cuffie, c’è solo lei e la sua musica, è l’Arianna con il suo Dioniso, in grado di restituirci una danza frenetica, ma immobile, la passione che l’ha accompagnata per tutta la vita costante quanto la stella polare. La musica l’ha sollevata per tutte le volte che è caduta.

Questa forza vive, con la magnifica sovrimpressione dell’immedesimazione, che si riflette nelle sovraimpressioni delle inquadrature, anche nell’attrice. Alla fine l’impressione che si ricava e che Mia sia molto di più che un personaggio, Mia è una categoria dell’anima, che finalmente ha trovato un nome ed una voce. Se ci si chiedesse dove finisce l’una ed inizia l’altra non si potrebbe rispondere, è questa è la più efficace cartina di tornasole di quanto il gioco serio della recitazione sia riuscito, abbia colto nel segno. Deve esserci per forza Dioniso come nume tutelare di questo spettacolo, che ha il sapore degli dei della Magna Grecia, e in quella terra è nata Mia. Lo spettatore si alza da tavola, per così dire, con l’appetito, con la voglia di avere ancora degli sguardi, delle parole di questa Mia che sa raccontarci benissimo quanto “la gente è strana, prima si odia e poi si ama”

Foto della recensione Ultima notte mia

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