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Shocking Elsa – Recensione teatrale

in Teatro
Immagine della recensione dello spettacolo Shocking Elsa
Ph Emma Terenzio

Nell’ambito della stagione teatrale 2021/2022 di PACTA. dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Shocking Elsa, dedicato alla figura della stilista Elsa Schiaparelli. Il testo è di Livia Castiglioni, interpretato da Maria Eugenia D’Aquino. La regia è firmata da Alberto Oliva. La produzione di questo lavoro teatrale è curata da PACTA. dei Teatri.

Je est un autre”, la frase di Rimbaud che riecheggia nella psicanalisi lacaniana, è un leitmotiv di questo spettacolo, la ricerca dell’identità, di quel quid, inafferrabile, immediato ed insieme indeterminato, che ci caratterizza. Lo cerca Elsa Schiaparelli, interpretata da un’efficace Maria Eugenia D’Aquino, che vive una vera e propria goethiana affinità elettiva con il personaggio. Si trova in una sorta di al di là, nel quale le porte chiuse di sartriana memoria diventano gli schermi di un programma televisivo. Se la carne si era contaminata e sublimata nelle immagini cronenberghiane di Videodrome, lo può fare anche l’anima in una sorta di spazio escatologico. Se la vita è tutta un quiz, lo può essere anche l’oltretomba, può trasformarsi in uno studio televisivo, e rispondere alle domande di una misteriosa voce fuori campo, può essere una pura formalità, anche se Tornatore ci ha insegnato che può essere molto di più di questo.

Rievoca la sua vita Elsa Schiaparelli, che preferisce far cadere l’ultima parte del suo nome, che prende in prestito la forbice delle Parche per regalarsi un destino diverso, e tagliare corto con le lungaggini. Le sue Madeleine proustiane sono dei semi con cui si riempiva la bocca da bambina nella speranza che potessero sbocciare e fiorire sul suo viso. Ama i surrealisti, è decisamente uno spirito dionisiaco, non può che trovarsi a suo agio nella teatro consacrato a Dioniso. E le parole diventano paesaggi, città, Parigi, New York, la Russia, le tappe, o meglio, i passi di danza esistenziale di una creatura che scivola sul mondo come seta leggera, ma che, contemporaneamente lo cambia per sempre. Come la scelta rivoluzionaria, contro corrente di quel rosa shocking che incombe dai fari alle sue spalle, di quel colore carico che vuole essere uno schiaffo marinettiano alle convenzioni, alle formalità, alle grigie abitudini.

Un colore può farsi rivoluzione, può diventare uno stendardo, qualcosa di molto simile al pennacchio di Cyrano, l’espressione più completa, sintetica, estremamente simbolica, dell’irriducibile essenza della propria individualità. Ha anche dei momenti struggenti questa Elsa, ha emozioni pronte a tracimare nella voce e negli occhi, il rapporto con il padre, con la figlia, con lo zio astronomo, attraverso il quale vorrebbe Marte come il Caligola camusiano vuole la luna. Vuole riuscire a rivedere le sue stelle, che ci ha mostrato attraverso le sue creazioni. Vive l’esperienza della guerra, rivive il rapporto con la nipote Marisa Berenson attraverso la relazione con le immagini pittoriche del film Barry Lyndon, e riesce nell’impresa impossibile di toccarle attraverso le sue parole, con la purezza della mano del bambino all’inizio del bergmaniano Persona, o come il regista del Truman Show che accarezza i pixel che compongono l’immagine dormiente di Truman.

Immagine della recensione dello spettacolo Shocking Elsa
Ph Emma Terenzio

Fa un buon lavoro il regista Alberto Oliva riuscendo a meticciare felicemente la dimensione mediatica dello spettacolo, lo studio metafisico televisivo, con un monologo intenso tutto carne e sentimenti. A volte sviene questa Elsa, cade come corpo morto cade, visitando il suo paradiso/inferno, ma è sempre pronta a rialzarsi, a sfidare gli dei con la sua irriverente, gioiosa hybris, e i suoi occhi, con buona pace della Clitennestra della Yourcenar son ben aperti sia nel piacere che nel dolore.  L’attrice è in una sorta di stato di grazia, sente e vibra, come la corda di un pianoforte, sotto i colpi del martelletto di questa biografia. Mostra la sua anima al pubblico, la sua lucente e fragile seta, come un bimbo potrebbe mostrarci la lucciola che tiene fra le mani. Suona uno spartito difficile, e la sua è una perfetta esecuzione. Sembra di incantarsi, nella sua voce, in ogni suo fonema.

È una composizione di Chopin che, sotto la meraviglia floreale, nasconde dei cannoni. Ma, osservandola ed ascoltandola bene, il tesoro più profondo, il regalo speciale donato alla platea, e fatto di piccoli grandi gesti, espressioni, risate che sembrano punti di sospensione, veli che coprono solo in parte, e lasciano intravedere la forma ineffabile dell’anima. È qualcosa di speciale, un’occasione preziosa quella di poter testimoniare questa punteggiatura interpretativa, che è essa stessa una drammaturgia, anzi l’inconscio svelato di una drammaturgia scritta intingendo idealmente la penna direttamente nel calamaio del cuore. Vederla seduta in mezzo alla scena, scoperta nel corpo e nello spirito da luci frontali e da controluci, o nella dolorosa e insieme fiera verticalità, equivale a partecipare alla creazione dell’ultimo vestito, l’ultimo modello, ricavato direttamente dalle linee curve, imprevedibili dell’anima. Elsa accetta il gioco di travestimento, di teatro nel teatro, e interpreta Coco Chanel.

Vive una sorta di sdoppiamento, di altro da sé, di alterità apollinea, distante anni luce dalla sua dionisicità, eppure in grado di completarla, di chiudere il cerchio anche con quella consapevolezza altra, nascosta, opposta al nostro essere, che battaglia incessantemente con la nostra coscienza. D’altra parte la coscienza per riconoscersi deve trovare uno specchio, un’altra identità per potersi riconoscere e identificare, magari per opposizione. La laringe del’interprete ad ogni “adesso” scenico batte il suono della verità, mostra tutto il modo di essere declinata, plasmata dai colori delle emozioni di Elsa. E se la musica bowiana, nel finale, ci ricorda che c’è vita su Marte, con altrettanta sicurezza, alla fine di questo spettacolo, si può affermare che c’è vita, eccome se ce n’è, anche sul palcoscenico di Pacta dei Teatri – Salone di via Ulisse Dini, nella potente interpretazione dell’attrice Maria Eugenia D’Aquino.

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Fly by me – Recensione Teatro

in Teatro
Immagine della recensione Fly by me

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Fly by me, la fantastica storia degli inventori dell’aereo. I fratelli Wright diventano oggetto della drammaturgia di Carlo Della Santa, che è anche l’interprete di questo testo. Questo lavoro è stato pensato e realizzato nella duplice modalità online e onlife.

Carlo Della Santa è un attore che letteralmente prende il volo. Prende un fiato, e lo prende lungo come se lo aspettasse una lunga apnea, e sembra che quello stesso fiato duri più di un’ora. In quel vento d’aria fa volare tutta una lunga serie di fonemi, e non c’è un momento in quel volo in cui manchi la luce di un sorriso. Il teatro di narrazione a un certo punto deve farsi azione, deve fare di un corpo cento corpi, un’intera scenografia, deve diventare la carne di una storia, o la ciccia,  per omaggiare la terra Toscana dell’interprete. E l’attore riesce a fare tutto questo, riesce a trasformare una storia che giace in qualche scaffale di libreria, in una drammaturgia che ha l’argento vivo addosso, che ti travolge in un girotondo che non puoi idealmente fare a meno di condividere con chi si trova sulla scena.

Non si tratta semplicemente di un monologo, ma di una cucina di creatività, dove senti il profumo delle parole, lo sfriccichio  dell’olio della comicità, e due mani che sembrano impastare il racconto, che sembrano volerne restituire tutto quanto il percepibile possa offrire. Riesce in una fondamentale impresa, ossia quella di ridonare la forza della vita a due nomi, quelli dei fratelli Wright, altrimenti costretti nello spazio angusto di un libro o di una targa commemorativa. Carlo si dipinge, con ogni gesto ed ogni parola, le mani e la faccia di blu, e ha negli occhi la febbre del volo, ha un paio d’ali che sono tutte lì, in un corpo e in una laringe che potrebbe timbrare tutti i nomi del cielo. Ma non si ferma a questo, dalla sua recitazione tracima l’entusiasmo, la necessità, e, diciamo pure, l’urgenza del raccontare come gli antichi aedi.

Immagine della recensione dello spettacolo Fly by me

Riesce a ritrovare quella dimensione magica, misterica, magnetica, ipnotizzante della parola, che Freud ha ricordato nei suoi scritti. Ti porta sulla sua giostra l’attore, e ti verrebbe voglia di restarci per molto più di un’ora. Non si limita a raccontare i tentativi di un volo, ma lo diventa, anzi le sue braccia spesso diventano quasi gli arti di un volatile, e l’aria se la trova tutta lui, quanta ne possono offrire i suoi capienti polmoni. In mano, nascosta da qualche parte, come un abile prestigiatore, tiene la ghianda di Hillman, quel daimon, quella forza, quella predeterminazione, quel destino che spinge i due fratelli a vincere l’impossibilità umana del volo, e parallelamente, a portare l’attore a interpretare una storia con tutto se stesso. Plauto ci ricorda che non è facile volare senza ali, eppure l’interprete ci riesce, eccome se ci riesce, fin dal primo tentativo.

Alterna il racconto della propria passione giovanile per una ragazza dai capelli rossi, e riesce a reinventarsi la slapstick, la comicità del cinema muto, la cartoonistica abilità di vedere il suo corpo aprirsi, flettersi oltre misura, compiere l’impossibile che potrebbero compiere i Tom e Jerry di un cartone animato. E subito torna lì, a quel cruccio, a quella voglia di due fratelli di superare la sindrome di Icaro, di fare del cielo un’ulteriore strada da percorrere, un posto dove non dimorino più i desideri, ma la realizzazione degli stessi.  Non c’è parola dell’attore che non sia più leggera dell’aria, che non diventi la piuma di Forrest Gump, pronta a passare, dispettosa, curiosa, affascinante, sopra i nasi degli spettatori. E come sono piacevoli le “bischerate” con cui condisce il racconto, ricordandoci che la commedia sta sempre lì, da qualche parte, in ogni situazione, pronta ad essere presa,

Immagine della recensione dello spettacolo Fly by me

Ed un sorriso, regalato o provocato, è un ottimo viatico della comunicazione, è un po’ come prendere per mano chi ti sta ascoltando, è un po’ come fare sentire il calore della propria presenza. E c’è qualcosa di tattile in questa voce, come la volontà di dare una mano in regalo ai fonemi, una mano in grado di toccarci. C’è la volontà chiara di avere una platea viva, vitale, di scaldare la temperatura emotiva della sala. La crosta di questo pane teatrale toscano scrocchia e lascia poi il posto ad una mollica dolce, arrendevole, che chiede soltanto di essere masticata dallo spettatore. Con la rapidità di un Fregoli, il protagonista diventa ora un affabulatore, ora un comico da stand up comedy, ora un testimone innamorato della storia che racconta, ora un funambolo in perfetto equilibrio tra la serietà e la risata. Certamente  ascolta i suggerimenti della Musa della commedia Talia,

Sa che anche la risata, al pari della tragedia, ha la sua forma di catarsi. Fa piacere riscontrare quanto sia riuscito l’esperimento drammaturgico di costruire un teatro didattico che mantenga tutta la sua anima. Tutto questo Carlo riesce a farlo con una naturalezza estrema, un risultato che non è mai agevole da ottenere. Nel suo viso sembra racchiusa tutta quella toscanità vitale, piacevolmente irriverente di un Cecco Angiolieri che non faceva mistero di prediligere: “Le donne, la taverna e ‘l dado”. Governa lo spettacolo con la stessa sicurezza con cui i fratelli Wright governavano i primi aerei. D’altra parte, come ci ricorda Leonardo, chi ha provato il volo continuerà a camminare guardando il cielo, perché là è stato, e là vuole tornare. E questa sensazione è condivisa dalla platea, che si porta in tasca un po’ di quel cielo in cui ha volato insieme all’attore, per una meravigliosa ora.

Immagine della recensione dello spettacolo Fly by me

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La Sorpresa dell’Amore – Recensione Teatro

in Teatro
Immagine della recensione La sorpresa dell'amore

Nell’ambito della rassegna Teatro a CieloAperto di Pacta dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo La sorpresa dell’amore di Pierre Carlet de Chamblain de Marivaux, interpretato da Federica D’Angelo, Maria Eugenia D’Aquino, Riccardo Magherini, Annig Raimondi e Antonio Rosti. La regia è firmata da Paolo Bignamini, e la produzione è a cura di Pacta dei Teatri in collaborazione con CTB Centro Teatrale Bresciano.

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La chimica invisibile – Recensione Teatro

in Novità/Teatro
Immagine della recensione La chimica invisibile

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo La chimica invisibile, da un’idea di Mariasole Bannò, scritto da Andrea Albertini. La regia è curata da Bruno Frusca.

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VERLAINE+RIMBAUD – Recensione Teatro

in Teatro
Foto della recensione Verlaine+Rimbaud
Ph Emma Terenzio

Nell’ambito della rassegna teatrale di Pacta dei Teatri vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo VERLAINE+RIMBAUD (Un’ora all’Inferno con te) di Maddalena Mazzocut-Mis, dalle liriche di Verlaine e Rimbaud, interpretato da Alessandro Pazzi ed Edoardo Rivoira. La regia è curata da Annig Raimondi, e la voice off è quella di Massimiliano Zavatta. Diciamolo subito, questo spettacolo, con il piglio di un Antigone, vuole raccontare l’assoluto, quell’universale che gronda dal verso poetico, dalla poesia simbolista, e lo fa passando attraverso il corpo e la voce dei due interpreti. Fin dall’antichità gli esseri che sono scelti dagli dei per diventare la loro lingua umana, per tradurre le loro parole, sono condannati ad una irriducibile diversità, ad una malattia metafisica cronica che gronda anima. Rimbaud e Verlaine, attraverso la loro presenza, sono, prima di tutto, la loro corporalità, che diventa una sorta di coreografia, perché il corpo è già un primo segno grafico, una calligrafia che scrive faticose parole esistenziali. Sembrano gli ultimi pezzi di una scacchiera, i due re che ostinatamente continuano una partita, la quale non può che risultare patta, lo scaccomatto, semmai, se lo daranno autonomamente. È la storia di un “odi et amo” catulliano.

Esprime una liason che non può che essere dangerouse, perché ha come terzo amante la poesia stessa. La luce taglia a rasoiate lo spazio, lo fa sanguinare, cerca l’altro, si sforza di far intuire paesaggi diversi, metafisici. E quel busto in scena racconta benissimo il senso si straniamento, di solitudine del poeta, che, al pari dell’albatros di Baudelaire, quando è costretto a muoversi sulla terra, tra la prosaicità della vita, caracolla goffamente, magari, similmente a Rimbaud, cercando nell’Africa del “hic sunt leones” un inconscio kurtziano, un cuore di tenebra con cui poter regolare finalmente gli ultimi conti. In fondo la loro coppia rappresenta l’eraste e l’eromene, l’antico amore didattico tra il giovane e l’uomo maturo. Ma qui ad insegnare il caos di Dioniso sembra essere Rimbaud, che dell’Alcibiade del Simposio ha l’ebbrezza procuratagli da una bottiglia di assenzio, e Verlaine di Socrate ha la tentazione di sorseggiare la cicuta.

Foto della recensione Verlaine+Rimbaud
Ph Emma Terenzio

Spera di poter guarire definitivamente dalla malattia esistenziale. Ed intanto si parlano con le loro poesie, che, attraverso la voce fuori campo, vivono anche nell’originaria lingua francese, ed è una piacevole scoperta quella di poter assaggiare la matericità di questo suono. Non è un caso che lo specchio, sia esso un piccolo cerchio, o uno grande in grado di abbracciare l’intera figura, incarni la presenza scenica in grado di diventare l’irresistibile forza di gravità per i due personaggi. Questo oggetto mi ricorda i versi letti alla Lady Lyndon cinematografica: “Les coeurs l’un par l‘autre attirés/se communiquent leur substance/ tels deux miroirs ardents…”, i cuori si comunicano la loro sostanza come possono fare due specchi ardenti, i due poeti si trovano e si perdono nel gioco dell’identità dello specchio, che ci restituisce insieme l’identità e l’altro. Lo specchio rimanda etimologicamente al “guardare”, è l’oggetto atto a guardare ed insieme a guardarsi.

Diventa l’antico strumento fiabesco delle proprie brame, lo interrogano su chi sia la più bella del reame, ma la risposta invariabilmente è: “la poesia”, e la vita è condannata ad essere la prosa, la eco di una luce superiore, di un’illuminazione che riposa sul foglio. È brava la regista Annig Raimondi a creare una sorta di coreografico e delicatissimo pas de deux, dove i corpi stessi dei poeti diventano simbolo, si cercano, si trovano, si respingono, ma non riescono ad allontanarsi definitivamente, si danno significato reciproco attraverso questa dolorosa dialettica. Per raccontare i vasti orizzonti metafisici del panorama poetico dei due personaggi, riesce a straniarli, riuscendo nell’impresa di vestire Brecht della seta della poesia simbolista. Torreggiano sulla scena, danno senso allo spazio intorno a loro, costruendo continue distanze, geometrie dinamiche. Giocano coll’allontanarsi/avvicinarsi come l’Hans freudiano fa con il suo rocchetto.

Foto della recensione Verlaine+Rimbaud
Ph Emma Terenzio

E davvero il loro gioco serio e tragico, va al di là del principio dl piacere, ed ad un certo punto il rocchetto diventa il grilletto della pistola di Verlaine rivolta contro Rimbaud, la tentazione della “mortido”, Thanatos strattona decisamente Eros, e fatalmente lo fa cadere. Alessandro Pazzi, l’interprete di Verlaine, riesce a graffiare ed accarezzare con i suoi fonemi, si lascia abitare dalle parole, fa decisamente percepire allo spettatore quanto sia dolce naufragare in questo mare. Più che l’anima di un singolo personaggio incarna quella delle liriche, s’immedesima nel verso diventando una sorta di Pizia, di oracolo posseduto da una voce divina. Si avverte tutta l’urgenza non di limitarsi ad interpretare la poesia, ma di essere quella luce lirica, fonema dopo fonema, gesto dopo gesto. Edoardo Rivoira è un perfetto Rimbaud che esprime nella sua vocalità i suoi pugni nelle tasche sfondate.

La sua dinamite anarchica nei confronti di un mondo farisaico, troppo piccolo per contenere la sua poesia, si incontra e si scontra con Verlaine, diventa un suo doppio, incarna il Dioniso che intossica il suo amante poeta. Ma soprattutto parla con il corpo, ne fa una sorta di pietà scultorea, di estremo verso poetico scritto, inciso, nella carne, nei muscoli, nei nervi  e nei tendini. I due poeti passano la loro stagione all’inferno, ed il grido per le ustioni di quel calore diventa la loro poesia. Come i personaggi di Sartre sanno che l’inferno sono gli altri, ma nel gioco dello specchio comprendono che quell’inferno è l’immagine che l‘altro rimanda di se stessi. E sugli applausi finali, caldi e particolarmente generosi, idealmente riescono, insieme agli spettatori, a rivedere le loro stelle.

Foto della recensione Verlaine+Rimbaud
Ph Emma Terenzio

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Odisseo racconto di un’ePOPea – Recensione Teatro

in Novità/Teatro
foto recensione Odisseo racconto di un'epopea

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Odisseo racconto di un’ePOPea, recitato dall’attore Carlo Decio, e diretto dal regista Mario Gonzalez. il lavoro rappresenta l’occasione di restituire al personaggio omerico tutta la sua umanità. Quando l’attore ha l’urgenza di raccontare una storia, quando le parole sono una pittura materica, diventano non delle pennellate, ma il disegno stesso delle dita intrise di colore sulla tela della quarta parete, si guarda e si ascolta la vivacità di quel quadro come si guarderebbe una tigre dipinta da Ligabue. Sembra che i nervi, i tendini, ed i ritmi cardiaci siano la stessa vocalità cromatica, che vive una vita propria, che sfida in vitalità il corpo stesso che la abita. La storia di Odisseo sembra fatta apposta per accendere la miccia, per dare fuoco alle polveri, per narrare il racconto dei racconti, quello dell’uomo inviso agli dei, che scrive la sua tragedia da un luogo all’altro, che ne piega il finale, che sfida gli dei laddove la sfida sembra più impossibile, sul terreno della conoscenza, del sapere.

Carlo Decio, l’interprete, ha il merito, di immergere fino al tallone ed anche oltre, il suo personaggio nell’umanità, ne mostra la carne emotiva, la ferita interiore che fatalmente brucia, sferzata dall’acqua salata del mare. Ed il centro della sua narrazione in grado di farsi corpo, di plasmarlo in paesaggi, personaggi, rumori, è una bocca, e che bocca. È Cariddi, un vortice, un gorgo, che ci risucchia nell’attenzione e nell’ascolto, circondata da una barba rude, aspra, come certi paesaggi della macchia mediterranea, ed i denti  sono gli scogli dei mille approdi, della petrosa Itaca. Sembra la bocca dell’album dei King Crimson che tutta contiene le traversie di un lungo viaggio, dei pericoli, delle paure, delle speranza, è la bocca di Polifemo che rigurgita vino e carne umana, ma anche maledizioni contro il suo accecatore. È l’erede ideale degli aedi, degli antichi cantori, ma è anche una marionetta biomeccanica, un mimo.

Foto recensione Odisseo racconto di un'epopea

Diventa un mostrarsi di corpi in un solo corpo. Ma, più di tutto, è generoso l’attore con il suo racconto, ci versa dentro, pieno raso, tutto il vino della sua anima, e lo fa bere agli spettatori, tutto d’un fiato. Ed i suoi fiati sono lì, tutti pronti a gonfiarsi come l’otre di Eolo, per contenere tutte le parole, anche quelle che non ci sono, o che potrebbero esserci. In certi momenti, visivamente, ricorda una sorta di uomo vitruviano, che mostra come si possa trovare la quadratura del cerchio, come Dioniso ed Apollo, ragione e sentimento possano mostrarsi in una meravigliosa sovrapposizione. Gli si sente addosso l’odore di certi palcoscenici di strada, quelli ricavati da qualche tavola di legno, quelli in cui devi proprio spremerlo tutto il muscolo cardiaco nelle parole per catturare l’attenzione. Ha la forza trascinante del giullare.

Possiede l’energia di chi può permettersi di raccontare l’uomo perché ne conosce bene il ventre, gli è più vicino della sua stessa giugulare. La narrazione slitta fatalmente in azione ad ogni istante scenico, si lascia sostanzializzare dalla carne dei personaggi. Lui viaggia attraverso terre pericolose, affascinanti, terribili, e lo spettatore viaggia nelle parole e nei gesti, nelle capriole, nei lazzi, di questo zanni, di questo efficacissimo Arlecchino omerico che, idealmente, ha tante toppe colorate quante sono le sfumature del suo racconto. Cucina la sua storia, come un cuoco potrebbe impastare la farina, stendere la pasta, assaggiare la sua creazione in fieri. Ci invita tra i fornelli del destino di Odisseo, e ci mostra quanta sia facile scottarsi, o tagliarsi, ma anche avere la possibilità di degustare dei piatti prelibati. Sembra una riuscita sovraimpressione della danza fisica, sciamanica, a piedi nudi, di uno spirito della terra, di un Calibano.

Foto recensione Odisseo racconto di un'epopea

Ed insieme esprime quella eterica, leggiadra, arabescata, di uno spirito dell’aria, Ariel. E davvero tutto il suo corpo è un meccanismo scenografico in perenne movimento, un periatto che, ruotando, mostra scenari ogni volta diversi, e, senza neanche accorgersi, ecco che lo spettatore è già entrato nella magia dell’abracadabra del racconto. Passa, come solo un bambino è in grado da fare, dalla rabbia, alla gioia, al dolore, alla sorpresa, ed ogni volta con lo stesso stupore, ogni volta come se fosse la prima volta. La sua voce ricorda le mani di certi scultori del legno, mani vissute, grattate, che portano i segni dell’eterna battaglia per vincere la materia, e cavarne fuori l’opera. E quando abbraccia l’ombra della madre morta e rivista nell’Ade, tira fuori dalle tasche tutta la semplicità, tutta la naturalità di un sentimento che è immediatamente lì.

Verrebbe voglia di abbracciare questo Odisseo, di consolarlo. La fallacia di Ulisse diventa la sua forza, gli errori, i ripensamenti, tutte le debolezze ce lo tirano giù dalla teca museale del mito, e ce lo rendono un amico che si accende mentre ci narra episodi della sua vita. Per lui sono valide le parole di una poesia di Brecht, “tu non avevi nessuna debolezza, io ne avevo una, amavo. E quel “tu” potrebbe essere la risposta beffarda, ideale che il personaggio rivolge agli dei. In fondo il fatto di essere perseguitato dalle divinità, gli permette di sviluppare una muscolatura interiore, spirituale, di esercitarsi in questa sfiancante ginnastica psichica, emotiva. Quando abbraccia Penelope, e quell’abbraccio non è chimerico come quello con il genitore, ritrova la freccia più appuntita in grado di bucare l’invulnerabile corpo degli dei.

Foto recensione Odisseo racconto di un'epopea

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Ultima notte Mia – Recensione Teatro

in Teatro
Foto della recensione Ultima notte mia

Nell’ambito della rassegna Teatro 2.0 Live Streaming vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Ultima notte Mia, un omaggio alla grande cantante per cui “non finisce mica il cielo”, ma continua nella voce, scritto da Aldo Nove, e diretto dal regista Michele De Vita Conti. A vederla torreggiare, fiera, su un letto, questa Mia Martini, magistralmente interpretata da Erika Urban, sembra di vedere un antico personaggio della tragedia greca. Ecco che fa mostra di sé una Cassandra che sa bene quale sia il prezzo di essere una favorita degli dei, ma anche quello di non voler mercanteggiare o scendere a compromessi per la loro benevolenza. L’una è condannata a non essere creduta, l’altra a un’ottusa, irrazionale, superstizione, ad una diceria dell’untore, al gioco tragico della sfortuna. Come calzano bene i coturni tragici sui piedi di Mia, e come affronta con la dignità di una Antigone il suo destino, e a ogni doloroso sorriso sembra dirci: “nacqui a legami d’amore e non d’odio”. E persino gli dei, gli stessi che ostinatamente cercano di fare deragliare il suo destino, rimangono in silenzio, come il pubblico di una partita a tennis.

E qui, al posto dello schiocco della palla sulla rete della racchetta, si sente quello della lingua. La protagonista non si limita a raccontarsi, si spreme letteralmente l’anima in ogni fonema, batte ogni sillaba di emotività, la sua tastiera interpretativa non perde una singola lettera, anche sotto il diluvio delle dita cardiache. È instancabile, e soprattutto, è sempre lì, esattamente nella battuta che pronuncia, nel presente di ogni istante, non manca un solo appuntamento emotivo con il testo. E poi ci sono gli sguardi, certi sguardi che diventano come dei punti di sospensione, come dei momenti in cui, mentre la parola tira il fiato, l’anima si mostra senza mediazioni. Guarda in macchina e sembra avere l’intuizione dello sguardo degli spettatori, guarda tutti noi, e si ha la netta impressione che quegli occhi pronuncino la stessa frase pirandelliana tratta dai Sei personaggi: “Ma quale finzione, realtà!”.

Foto della recensione Ultima notte mia

Tutto si incastra alla perfezione, tutto si combina meravigliosamente, il testo scritto da Aldo Nove, la regia di Michele De Vita Conti, e l’interprete Erika Urban, ogni tassello va al posto giusto e compone il ritratto di una grande interprete della canzone italiana. Questo monologo è molto di più di una storia di una vita artistica, è il viaggio attraverso una vocazione, il bisbiglio del daimon socratico che ad ogni passo sussurra alla protagonista: “Canta e fallo come sai fare tu”. Non capita spesso di vedere una vita raccontata così naturalmente, in grado di rinfrescarti come può fare l’acqua di fonte sul viso. Per fare un testo scenico basta un letto ed un sorriso vestito di un’anima che è lì per ricordarci quanto sia importante conquistare la propria storia, e , in definitiva, se stessi. Erika ha la capacità di entrare in una speciale intimità con lo spettatore.

È come se ci trovassimo tutti lì, sotto le coperte, per ascoltare quella storia che, per dirla alla Breil, è riuscita ad invecchiare, senza diventare adulta. Ha l’argento vivo di una bambina, di una Zazie nel metrò questa Martini, ed anche quando la voglia di piangere sarebbe lì, a meno di un fiato dalla guancia, c’è sempre pronta una fanciulla che ha una voglia matta di cantarcela questa vita. E d’altra parte il discorso quando si riempie raso di emozioni, non può far altro che trasformarsi in canto. L’attrice riesce in un vero e proprio miracolo, vale a dire quello di far sentire nelle sue battute, la musica di Mia, di farci odorare il profumo delle intenzioni di un canto che sottende tutto questo monologo. E poi c’è il racconto dell’arresto, il momento in cui le viene marchiata a fuoco la lettera scarlatta della porta-sfortuna, il problema con la voce.

Foto della recensione Ultima notte mia

E dopo segue il calvario delle operazioni. Tutti questi sono ostacoli che la protagonista supera ogni volta con tragica potenza, perché la stessa voce lirica dell’Andrea Chenier che ricorda che “nel dolor può venire l’amore”, è la stessa che parla, che stimola, che sferza la cantante. Ci si incanta letteralmente ad osservare la purezza di questo diamante luminosissimo che accende di luce anche questo testo teatrale a lei dedicato. Ma l’immagine che più ci rimanda l’essenza stessa di questo personaggio, il centro del centro del suo essere, è quella di lei accovacciata sul letto che indossa un paio di cuffie, c’è solo lei e la sua musica, è l’Arianna con il suo Dioniso, in grado di restituirci una danza frenetica, ma immobile, la passione che l’ha accompagnata per tutta la vita costante quanto la stella polare. La musica l’ha sollevata per tutte le volte che è caduta.

Questa forza vive, con la magnifica sovrimpressione dell’immedesimazione, che si riflette nelle sovraimpressioni delle inquadrature, anche nell’attrice. Alla fine l’impressione che si ricava e che Mia sia molto di più che un personaggio, Mia è una categoria dell’anima, che finalmente ha trovato un nome ed una voce. Se ci si chiedesse dove finisce l’una ed inizia l’altra non si potrebbe rispondere, è questa è la più efficace cartina di tornasole di quanto il gioco serio della recitazione sia riuscito, abbia colto nel segno. Deve esserci per forza Dioniso come nume tutelare di questo spettacolo, che ha il sapore degli dei della Magna Grecia, e in quella terra è nata Mia. Lo spettatore si alza da tavola, per così dire, con l’appetito, con la voglia di avere ancora degli sguardi, delle parole di questa Mia che sa raccontarci benissimo quanto “la gente è strana, prima si odia e poi si ama”

Foto della recensione Ultima notte mia

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A proposito di lei – Recensione Teatro

in Novità
Foto della recensione A proposito di lei

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo A proposito di lei, di e con Monica Faggiani e Silvia Soncini. La supervisione drammaturgica è curata da Tobia Rossi. Due figure femminili si specchiano l’una nell’altra.

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Il più grande spettacolo del mondo – Recensione Teatro

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Foto recensione Il più grande spettacolo del mondo
Ph Elisabeth Petrone

Nell’ambito degli eventi in digitale previsti dal Teatro della Contraddizione vi presentiamo la nostra recensione de Il più grande spettacolo del mondo, un lavoro scritto e diretto da Stefania Apuzzo. Gli interpreti sono Francesca Biffi, nel ruolo della donna cannone, e Luigi Guaineri, in quello di direttore del circo.

C’è una frase di una poesia di Quasimodo che torna alla memoria, in occasione di questo spettacolo, che viene la voglia di tastare, di sentire urgere idealmente sotto le dita, come un mazzo di chiavi fatto girare insistentemente nella tasca: “… nel peso di una vita / che sapeva di circo. Ecco questo lavoro riesce a far sentire tutto il gusto del più grande spettacolo del mondo. Sa di cinnamomo, di biscotti allo zenzero, ma anche di erbe amare, di tarassaco, di quell’agro vivere che è lì, appena sotto il cerone ed il trucco pesante. È stupefacente vedere come Sartre, Camus, e tutto l’esistenzialismo, quello scritto, con la penna dell’autenticità, stia tutto in questa pista del circo, concentrato in due personaggi, un everyman ed una everywoman di una contemporanea morality play che ha in tasca la caustica frase di Muller: “È fatale che la storia non abbia una morale”.

Una donna cannone, che tracima anima dalle labbra, ci racconta ciò che è per se stessa, quel silenzio rumoroso che è lei stessa, il tentativo di esprimere il proprio essere ferita, mancanza. Non le basta una testa, ce ne vogliono tre, due pensieri soprannumerari che inseguono pascalianamente le ragioni del cuore, due compagni di banco di una nuova classe kantoriana. Pare di sentire il gocciolio estenuante delle sue caverne cardiache, dei suoi atri, dei suoi ventricoli. Si stupisce del mondo quanto lo può fare un angelo. Basta il suo sguardo per scoprire la curiosità viva, un po’ malinconica del bambino che conosce le verità per istinto, in quel territorio non ancora recintato dalla parola. Rappresenta l’incarnazione delle parole liriche di Handke, lei che sa  “tutto ha un’anima e tutte le anime sono un tutt’uno”, il suo tempo è giusto lì, nell’istante esatto quando il bambino era bambino.

Foto della recensione Il più grande spettacolo del mondo
Ph Elisabeth Petrone

Si ha l’impressione di trovarsi davanti ad un sogno azzurrognolo uscito da un quadro di Chagall, e bisogna fare attenzione a tenerlo fra le mani, perché è delicato quanto una bolla di sapone. Ecco il primo piano di una piccola grande cosa gozzaniana, che cammina nel mondo senza fare troppo rumore, per non disturbare, che ci accarezza delicatamente con le parole, perché ha paura di farci male. E poi c’è il direttore del teatro, con i suoi colori carichi, presi in prestito da un quadro espressionista, cammina sui trampoli, cerca di essere bigger than life, cerca di passeggiare con disinvoltura sui questi tragicomici coturni. Forse vuole avvicinarsi un po’ di più alla sua Luna, sperando di afferrarla, o almeno di arrivare al suo simulacro, ad una luce cerulea, la goccia di un colore strehleriano, che forma una stalattite di poesia luminosa.

Indossa la sua maschera di durezza, di autorità, il copione gli ha dato il ruolo del padrone di Hegel, che ha lo specchio della donna cannone per conoscersi. E, visto nella vicinanza di un primo piano, o nella magia del sonno, così da vicino, si scopre la sua aria da bambino, la sua fragilità, si scoprono due occhi grandi di un quadro di Margaret Keane, che si allargano per contenere il cielo e tutte le sue nuvole. Le vere protesi per potersi muovere nel mondo gliele dà un’altra anima, quella della donna cannone, che ha visitato le stelle e gliene porta notizia. Sono una coppia di clown, il bianco e l’augusto, l’apollineo ed il dionisiaco, le due metà dell’essere androgino evocato nel Simposio, che hanno, nelle intenzioni dietro le loro battute, il tenace desiderio di toccarsi, di abbracciarsi, di baciarsi.

Foto della recensione Il più grande spettacolo del mondo
Ph Elisabeth Petrone

Com’è struggente la scena in cui sono a meno di un fiato dal baciarsi, ma le protesi di lui, le teste di lei, gli ingombri sono lì a mettersi d’ostacolo, mentre il desiderio delle loro anime è chiaro. La regista Stefania Apuzzo, che ha regalato anche alla drammaturgia il profumo della sua anima, trova nel circo, ed in questi due personaggi, il territorio migliore per raccontare l’essere umano, l’animula vagula e blandula, la voglia, il desiderio di farsi crescere un paio di ali angeliche con le piume delle parole. Ed il circo sembra fatto apposta per esplorare quella linea di pericolo, la sfida funambolica in equilibrio sulla morte o sulla follia. Ci vogliono tutti i vestiti sgargianti, le parole timbrate, a volte un po’ straniate, brechtiane, per reggere una vita da mediano, a recuperare palloni, a giocare fino al fischio finale, facendo finta di regalarsi l’imperturbalità degli dei.

Invece dietro la faccia infarinata, c’è un’anima delicata quanto il bozzolo del baco da seta. Francesca Biffi soffia tutta l’anima nei suoi soffiati, ma propria tutta. Mostra quanto in realtà sia sottile come una piuma la natura di questo personaggio, fatta di polvere di stelle impastata con le lacrime. Mangia popcorn e lacrime, sincera e reale quanto il vento che sferza il viso. Luigi Guaineri è un direttore che cerca di muoversi in linea retta, come da contratto etimologico, se la impone con la protesi dei trampoli, ma la linea spezzata, l’irrazionale sono le intenzioni devianti, i necessari attentati che il sogno fa al suo apparente pragmatismo. Il tableaux vivant di una pietà pittorica, dove il direttore diventa un povero cristo e la donna cannone una madonna, è il momento dove l’ala dell’angelo fa cadere definitivamente il cristallo della prosa, e noi spettatori vediamo il frame definitivo della poesia.

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Ph Elisabeth Petrone

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