Immagine della recensione dello spettacolo I mali minori

I mali minori – Recensione Teatro

in Teatro

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo I mali minori, una storia liberamente tratta da “L’immoralista” di Gide. L’autore del sapiente lavoro di alta sartoria drammaturgica è Antonio Mocciola, la regia è curata da Diego Galdi, gli interpreti sono Alessandro Grima e Valeria Bertani.

Due solitudini si incontrano, sul cuscino delle nozze, pronte fin dall’inizio a nascondere la spazzatura bergmaniana sotto il tappeto della loro unione. Un uomo e una donna respirano l’odore della paraffina spirituale scandinava di Strindberg e di Ibsen, una si convince che quell’odore le piaccia da sempre, l’altro preferisce quello acre della carne di giovani. D’altra parte, Nietzsche l’aveva scritto, l’uomo non può facilmente credersi un dio a causa del bassoventre, ma forse a un dio pagano può avvicinarsi a quello che, più degli altri, ne rappresenta il più scomodo ed incontenibile istinto, Dioniso. E proprio come un Dioniso appare l’uomo, un dio malato, che ha bevuto la pozione cristiana che ha cercato di avvelenare Eros, ma l’ha  trasformato fatalmente nel suo doppelgänger, nel vizio. Ancora una volta ci soccorre il filosofo tedesco della volontà di potenza per trovare la chiave di lettura psicologica in grado di svelare i personaggi.

L’aforisma che esprime tutto questo è il seguente: “gli istinti che non si scaricano all’esterno, si rivolgono all’interno”. Questo capita prima al marito che si ammala di tubercolosi, e poi alla moglie che sarà colpita dallo stesso male. Come per l’acrobata sul trapezio di Wenders, forse il tempo stesso per i personaggi è la malattia, la condanna a trovare nella loro carne tutta l’urgenza e la causticità della questione esistenziale. La felicità ha tutta l’impressione di essere uno degli istinti repressi, anzi il più nascosto, e la vita rimane in una sorta di cattività babilonese, lo spirito si trova in una prigione ben angusta. Il tentativo di una fuga rimbaudiana verso l’Africa, verso un sud, insieme dei sensi e dell’anima, pare sortire l’effetto desiderato sull’uomo, che guarisce, e sembra riconciliarsi con la sua vera natura, ma l’Eden dura giusto un attimo, e le stagioni all’inferno ritornano con il menage familiare.

Immagine della recensione dello spettacolo I mali minori

Si ripresenta l’angusta maschera di ferro della morale comune, di quelle che il poeta Blake definiva mind-forged manacles. Il drammaturgo Antonio Mocciola accende decisamente la miccia del materiale dinamitardo di Gide, offre allo spettatore, idealmente, le rose di Tennessee Williams, e sta ben attento a lasciare le spine sui gambi perché nel pungersi si avverta tutta la crudeltà della bellezza. La zona dell’Altro lacaniano, dell’ombra junghiana, di quel regno oscuro di significati vischiosi come la pece, appartenente ad Ade, alla psicologia del profondo, di certi abissi inconsci, che non conoscono luce, è espressa, attraverso la sua attenta scrittura. La parola è una Justine che deve necessariamente subire la tortura di Sade, dal momento che nel farsi male, nel danneggiarsi, esprime il sangue fonetico della verità. Il regista, Diego Galdi, ci mostra le inquietudini dei corpi, gli atti mancati, le intenzioni devianti, quel desiderio inibito, che si fa sudore, sofferenza.

Si esprime in un grido di guerra, il grido dell’animale ferito con la zampa imprigionata nella tagliola del “tu devi”. Ci sono dei primi piani che non sono semplicemente primi piani, sono paesaggi di un cielo umano, sono orbite vuote, ma piene di un luccicante buio. Gli occhi trasmettono la luce di un astro remoto, di un’anima remota che comunica da chissà quale passato, o quale futuro, nell’istante, nell’immagine in movimento dell’infinito. Brillano come se non ci fosse un domani gli occhi di lui e gli occhi di lei, sono degli dei piantati nel viso dei due protagonisti, due divinità che respirano male nella carne del compromesso. Alessandro Grima è un Cavaradossi che non hai mai amato così tanto la vita, e ce lo dimostra con certi sguardi, con certi gesti, con delle parole che ostinatamente portano con sé il profumo impossibile, il profumo dell’invisibile.

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Si impone la presenza di ciò che stenta a vestirsi con i poveri cenci delle parole. La nudità a cui arriva è catartica, pura, innocente come quella di un bimbo. Riesce a rendere tutta l’incontrollabile potenza di una cerimonia pagana, di un rito misterico, in cui si rinasce dopo aver attraversato il proprio inferno. Inspira il fuoco e lo gela nell’ombra della sua inquietudine. Valeria Bertani è una moglie cristianamente devota e abitata da una baccante, da una sacerdotessa di Dioniso. Ci mostra tutto il dolore, il sangue, la saliva, di una mordacchia della morale che intrappola le parole che deve ingoiarsi dentro, o meglio nei suoi scritti. Si ammala fatalmente anche lei dell’istinto che non trova modo di esprimersi, e proprio questo è il momento in cui esprime lo spirto guerrier che dentro le rugge. Incanta il suo canto del cigno, quel corpo pittoricamente abbandonato sulla poltrona.

È l’immagine forte, potente, definitiva di una vita che ha vissuto la dike, la vendetta divina, senza aver potuto gioire dell’hybris, del tentativo di superare se stessa, i limiti imposti. È la tragedia doppiamente tragedia, quella che manca a se stessa, è l’ancilla domini la cui promessa di gravidanza viene tradita, è la luce che sfuma da chissà quale orizzonte. Lo spettacolo rende omaggio a questo Gide che si siede brechtianamente dalla parte del torto, che si muove nel territorio al di là del bene e del male, che esprime quanto la fame umana di assoluto sia eternamente insoddisfatta al pari di quella del mitologico Tantalo. Alla fine, proprio un momento prima che si sciolga la catarsi degli applausi, si affaccia un’intuizione definitiva, in grado di diventare l’essenza dello spettacolo: “ L’inferno è abitato da struggenti amori equivocati, da esseri che almeno hanno avuto il coraggio di provare ad amare”.

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