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Il mito della caverna 2.0

in Novità/Teatro

Sempre più spesso la metafora più forte che si trova per esprimere la forzata digitalizzazione degli spettacoli, la vaporizzazione della presenza nei colori accesi, dei pixel dello schermo, è quella del mito della caverna di Platone. Le ombre proiettate sul muro della caverna cambiano aspetto, e stanno al passo con la nostra società contemporanea.

Diventano quelle dello streaming, del mondo della rete, nel quale le categorie dello spazio e del tempo possono essere ingannate, come nel mondo onirico, e, in barba a Kant, smettono di essere le rigide lenti con cui si filtra l’esperienza percettiva della realtà. Tutto è immediato, tutto si presentifica nell’eterno adesso, ed il dove si relativizza, visto che abita qualunque luogo nel quale viene visualizzato. Nella cattività della caverna domestica la presenza diventa virtualità, e il corpo fornisce la sua controfigura digitale. La carne digitale è quanto era stato preconizzato dal regista Cronenberg in Videodrome.

E sempre più sembra avverarsi nel mondo delle dirette su internet. Siamo nell’universo che sta un’ideale terra di nessuno tra il mondo iperuranico delle idee, e la realtà condivisa, dove tra la mia immagine e l’icona c’è giusto il movimento della freccetta del mouse. Lo streaming è la legge di gravitazione universale di questo particolare universo, una sincronizzazione del cronometro del panta rei, del “tutto scorre” eracliteo, ciò che vedo sta accadendo insieme a me, si muove nello stesso divenire, scorre nello stesso fluire degli attimi. Certo non è teatro, certo quella compresenza di pubblico ed interpreti, quell’ipoteca di una percezione tattile, quello specchio tridimensionale dell’umano, non c’è e non potrebbe esserci, in questa particolare forma. Tuttavia questa è una variante, una replicazione alternativa della cellula-spettacolo, di una creatura ibrida, che porta in dote nelle sue memorie genetiche, tracce di dna preso dal teatro, e dal mondo dell’audio-visivo.

Si candida a conquistarsi un proprio spazio (virtuale). Alcuni puristi, con la determinatezza del luddisti, quelli che in piena rivoluzione industriale, per intenderci, volevano sistematicamente distruggere le macchine, vedono nello streaming il grande nemico da combattere, la grande balena da fiocinare con il pervicace odio di un Acab. Eppure questo accanimento, questa accusa di eresia rispetto all’ortodossia della scena, ha tutta la parvenza di un errore, di una gigantesca svista. Lo spettacolo ha avuto nel corso dei secoli una natura proteiforme, ha saputo, accompagnando le innovazioni tecnologiche, proporsi in vesti diverse, ha messo al mondo creature differenti che hanno convissuto con la forma del teatro. È forse un peccato volere tenere viva è accesa la passione artistica, culturale, accendere con quel fuoco un differente braciere? Questo Shylock del mito digitale della caverna non ha forse lo stesso sangue, anche se il suo appare come somma di pixel rossi?

Il mito della caverna 2.0

C’è, senza dubbio un fil rouge che unisce idealmente gli eventi in streaming, un’energia, una carica aggiuntiva, una forza interpretativa che cerca disperatamente di passare attraverso una quarta parete particolarmente dura, ossia l’obiettivo della telecamera. Questo Ciclope meccanico, non viene accecato, come nel famoso canto dell’Odissea da Ulisse ed i suoi compagni, per uscire dalla caverna, ma si sfrutta la sua pupilla elettronica per crearsi una via di fuga, per lanciare il proprio “message in a bottle” nella rete. Dioniso decisamente abita anche in questo mondo virtuale, ed accende queste ombre di riflessi di una vita che non vede l’ora di poterci esplodere addosso, in tutta la sua potenza dinamitarda. Si avverte decisamente, in molte di queste interpretazioni digitali, la feroce nostalgia della presenza, e scrivendo nostalgia si fa riferimento all’etimologia di questa parola, che unisce due termini,  nostos, il ritorno alla patria, ed algos, dolore, tristezza.

Ecco dunque che in queste interpretazioni si afferma l’invincibile desiderio malinconico e violento del ritorno in patria, e qui la patria è il mondo che sta di fuori, è la terra dove il senso del tatto può esprimersi, è quella tridimensionalità di cui si fa un’esperienza percettiva totale. L’attrice/l’attore traduce il suo feroce impossibile abbraccio con lo spettatore in una recitazione che gronda anima e carne insieme, vuole idealmente dirci, come in una canzone di Nada, che ci stringerà fino a farci male, fino a farci ricordare di essere dei corpi. Dunque si può fare la pace con questa caverna di Platone 2.0 e con le sue ombre, dal momento che ciò che ci differenzia da quegli ignari prigionieri del mito, inconsapevoli dell’esistenza di qualcosa oltre quella virtualità proiettata, è che noi sappiamo che esiste un “fuori”, eccome se lo sappiamo.

Il mito della caverna 2.0

Allora quelle ombre cinesi digitali possono diventare un segno, un simbolo, un modo per rompere le catene della cattività, per trovare, in quella flatlandia, la voglia della terza dimensione, che appare come la sfera dell’omonimo romanzo di Abbott, in grado di sollevare la figura da quel mondo bidimensionale. Per citare la battuta di un altro film di Cronenberg, La mosca, si tratta di dare al digitale “il gusto della carne”, oltre che quello dell’anima. L’ideale obiettivo è quello di trasformare la propria stanza, in quella della poetessa Emily Dickinson, che di quei pochi metri quadrati ha fatto un cannocchiale per guardare paesaggi lontani, li ha trasformati in ali poetiche per esplorare l’apparenza del mondo, e gli squarci dell’altro mondo ideale, nascosto dietro ad esso. D’altronde tutte le immagini, o meglio le “mimagini”, imitano, disegnandolo, un diverso soggetto, rimandano sempre a qualcos’altro, per citare Montale, portano scritto “più in là”.

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