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Portiamo il teatro a casa tua - page 2

I 7 amori. Il Simposio di Platone

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Immegine della recensione di I 7 amori. Il Simposio di Platone

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo I 7 amori. Il Simposio di Platone, una versione teatrale dell’omonima opera del filosofo greco, adattata e interpretata dall’attore – filosofo Federico Leonardi.

C’è un libro di poesie di Auden, dal titolo che sembra essere fatto apposta per dare la visione più immediata, più sintetica del Simposio: La verità, vi prego, sull’amore. Federico Leonardi, attore – filosofo, ha preso questo testo di Platone intuendone tutta l’emergenzialità del quesito posto,sentendo tutto il calore ustionante dell’interrogativo. I dialoghi platonici sono detonatori pronti a far esplodere la phoné, la parola pronunciata: devono essere necessariamente incarnati nei corpi. L’attore tutto questo lo fa, e dipinge con mani fonetiche questo testo scenico; la sua è una pittura materica viva, sembra di osservare un Pollock che disegna una grande tela con le mani, facendo gocciolare il colore dalle dita. Ecco, Leonardi fa letteralmente gocciolare il colore dei fonemi dalle sue dita, e invita la platea fare lo stesso. Con lo spirito marinettiano uccide certi chiari di luna della traduzione accademica, che aumentano soltanto la polvere sui grandi classici.

Veste i panni dei 7 personaggi del Simposio, donando a loro in prestito, senza usura, la sua anima. Il suo è un magnifico one man show, un talking blues, un uno contro tutti (o con tutti) in cui l’umano si racconta di fronte all’umano, ritrovando la dimensione più autentica, più immediata, del fare teatro. Ed è bello  vedere quel viso, madido di sudore, e della fatica della carne nel portare il peso di parole importanti, parole fondamentali, che hanno ancora il profumo della carne sacrificata agli dèi sull’ara dello spazio scenico. Sembra, anzi è, posseduto da un daimon socratico, da un pungolo interiore, dal tafano evocato da Socrate dell’apologia. Crede a tal punto a quello che dice, che, alla fine, sono le parole stesse a credere a lui, a farne essere vivo e palpitante sul palcoscenico. Ogni verità pronunciata dai personaggi sull’amore, diviene di volta in volta protagonista.

Immagine della recensione di I 7 amori. Il simposio di Platone

I vari discorsi non sono un corollario di quello di Socrate, ma entrano in competizione tra loro e con esso. E il tragico Alcibiade sembra essere fatto apposta per sparigliare le carte, per alzare ancora di più il tiro, per non accontentarsi dell’ultima soluzione, per lasciare sempre aperta una porta dialettica verso altre soluzioni. Si ha l’impressione di vedere, idealmente, in questo spettacolo, lo stesso magma che Ferreri aveva scelto di montare attraverso la sua versione cinematografica del Simposio. L’equazione uomo rimane lì, come un mistero terribilmente affascinante, nella sbronza di Alcibiade che vede, in uno stato sciamanico, in una possessione teurgica, oltre l’ultima ipostasi plotiniana: quella che non può essere espressa a parole, ma è lì, dietro un assordante silenzio, un pianto, un urlo pre-verbale. Si ragiona di dio, certo, ma di un dio che nasce da una contraddizione, figlio di Penuria e Abbondanza; sicuramente è questa contraddizione a rendercelo più vicino della nostra stessa giugulare.

È, per rubare un’espressione del drugo di Arancia Meccanica, piacere impiacentito quello a cui si assiste da questa parte della scena, vita pulsante, divina e terribilmente umana, è un angelo caduto dal cielo che non ha paura di mostrare tutto il fango che appesantisce le sue ali. Ride, si dispera, salta in un balzo i secoli che ci dividono dal racconto; ci porta lì con convinzione, ci tiene inchiodati a quegli esseri che si interrogano disperatamente sull’amore, capendo quanto sia importante e fondamentale la questione. Passano dai loro gironi, indossano la maschera del tragico e del comico, ma sempre mostrano l’onestà di una luce che accende le pupille, ed è sempre la stessa luce, quella del daimon. Quanto è esistenzialista questo spettacolo, quanto guarda in faccia tutta la speranza e l’orrore dell’uomo, quanto non teme di mostrare non l’oscenità del corpo, ma quella ancora più estrema, quella dell’anima, che s’agita e spesso si manca.

Immagine della recensione di I 7 amori. Il Simposio di Platone

Ma è sempre in cerca di se stessa, di un modo di dirsi, di dichiararsi al mondo. Le parole corrono veloci, più veloci di Achille e della sua tartaruga, più veloci dei paradossi, dei significati pre-cucinati da scongelare nel forno a microonde. Sono lapilli incandescenti lanciati dal cratere di una laringe vulcanica, che bruciano giustamente, al contatto con la platea. Leonardi ci scuote idealmente per il bavero, ci schiaffeggia con Platone per risvegliarci dal torpore per smentire quella vita adorniana che non vive. La filosofia è prima di tutto, etimologicamente, amore per il sapere, dunque deve transitare necessariamente dal Simposio. La filosofia non vive in un gioco intellettuale, in un grafico da piano cartesiano, in disfide logico-matematiche pronte a dimostrare o confutare una tesi, ma è qualcosa di umano, che ci appartiene: è quel daimon che cerca sempre di risvegliarci dall’interno, che ci chiede sempre di spingerci più oltre.

Questo lavoro è, sostanzialmente, un atto d’amore non solo nei confronti del teatro e della filosofia, ma anche, e soprattutto, nei confronti dell’uomo, dell’irripetibilità, dell’unicità di ogni singola presenza umana, che si candida a essere così, immediatamente, simbolo d’amore, significante e insieme significato. E tutto ciò l’attore lo vive per il pubblico, lo dona con generosità: diamante purissimo, umanità che ti scalda la testa e il cuore come un vino forte, tannico. La sua voce è un continuo, struggente, disperato abbraccio, è fatta di due mani che muovono al pianto l’aria stessa che fendono. Tutto ciò che esprime sula scena siamo noi tutti, i nostri personaggi interiori, le nostre debolezze e le nostre speranze, i nostri momenti di lucidità e di irrazionalità. Parafrasando una canzone di Battisti, sette personaggi platonici ancora non bastano, ancora altri ne aspettiamo da parte di questo meraviglioso interprete.

Immagine della recensione di I 7 amori. Il Simposio di Platone

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Un’altra vita – Recensione Teatro

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Immagine della recensione dello spettacolo Un'altra vita

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Un’altra vita, recitato dall’attrice Silvia Soncini, che è anche autrice della drammaturgia insieme a Claudia Pozzo. Il lavoro è liberamente tratto dal romanzo Non lasciarmi dello scrittore britannico vincitore del Premio Nobel per la Letteratura 2017 Kazuo Ishiguro.

Ci vorrebbe un’altra vita, cantava Battiato, ma un’altra vita c’è già, e sta lì, ad un passo dagli spettatori, in un salotto milanese di Piazza della Repubblica, dove Mariagrazia Innecco fa di una stanza un regno, e principi per interpreti, per scriverla come il Bardo di Stratford-upon-Avon. Questa volta è il turno dell’attrice Silvia Soncini che ha un viso insieme antico e moderno, porta la voce del mare con sé, quando si annuncia, da un lato della strada, mentre lo si raggiunge in macchina. Ha la purezza, la nobiltà ed insieme l’umiltà dell’acqua che scintilla, come uno scudo liquido, di fronte ai dardi del sole del personaggio che interpreta. E la sua voce ha la chiarezza, l’evidenza e la semplicità di un pane spezzato, di una comunione sincera da vivere e da condividere con lo spettatore. Non si limita a parlare Silvia, ma ci soffia in faccia l’alito della sua anima.

Ed è leggero, ma brucia anche sulla pelle, come il freddo dei momenti tragici che racconta. Il suo vestito nero è una sorta di negativo fotografico di un’anima che ha il colore dell’avorio, ed ha un’invincibile voglia d’essere più di sé stessa, d’esser quel noi, quella segreta alchimia di condivisione che unisce la platea ed il palcoscenico. La storia che incarna è quella raccontata nel romanzo “Non lasciarmi” del premio Nobel  Kazuo Ishiguro, il racconto di un’animula vagula e blandula di un collegio, senza passato, né genitori, che condivide il tragico destino di altri studenti, ossia quello di avere solo l’ombra di un’esistenza, la certezza di uno scacco matto esistenziale che ha una data ed un nome preciso. Ma scopre l’amore come Ciaula scopre la Luna, scopre l’Antigone che ha in sé, e le leggi del cuore che fatalmente sono a distanze siderali da quelle formali.

Foto spettacolo teatro Un'altra vita

Si rinnova l’eterna sfida della tragedia, ma senza il passo tragico e solenne del coturno, piuttosto quello lieve di una donna, di un’eroina sofoclea per vocazione, che vorrebbe in maniera struggente che Atropo aspettasse un po’ di più a tagliare il filo della sua vita. E se i mulini degli dei di Omero macinano lentamente, altrettanto non fanno quelli di questa storia, sono ruote che girano veloci, in maniera incessante, che chiedono ancora un altro sacrificio. Ma la protagonista, che ha il compito di assistere più e più volte, reiteratamente, al destino che lei stessa avrà, vive la sua impossibile partita già persa, eppure in ogni mossa, in ogni fonema che ci regala, in ogni gesto aggraziato, pensato, semplice e perfetto, nello stile essenziale di uno zen teatrale, alza la testa verso il suo cielo e lo guarda con forza e dignità

E sente anche lei, in fondo al cuore, di avere il legittimo desiderio di appartenere ad esso, di un’altra vita. Certi sguardi dell’attrice, che ti inchiodano lì al tuo posto, come un entomologo fa con lo spillo sulla farfalla, sono tutte verità che trascendono le parole, che possono dirsi solo nell’immediatezza sensoriale, l’ultima verità di un misticismo della religione universale dell’umano, scritta sui fogli del corpo, comprensibile da tutti perché sono pagine che lo spettatore sfoglia al proprio interno. Heidegger, per un attimo, è un’intuizione rapida e totale rivelata dalla recitazione di una interprete, l’uscita dal pensiero impersonale del “tutto finisce”, del “si muore”, come un fatto oggettivo osservabile sempre dall’esterno, come un dato fattuale, e l’approdo all’io dello spettatore che vive questa tremenda possibilità, che dà colore, nitidezza e forza alle scelte, le rende autentiche, necessarie. E Silvia ci racconta tutto questo con una recitazione decisa, ma insieme in punta di piedi.

Immagine della recensione dello spettacolo Un'altra vita

È in grado di fare con il dolore, quello che il gelo fa con l’acqua, trasformarlo in un meraviglioso cristallo, che non si può far a meno di guardare. La sua vocalità si spoglia del metallo di certe laringi bronzate, e arriva a restituirci la verità di se stessa, di una passione con la necessità, l’urgenza di dirsi, meglio ancora, di donarsi alla platea. Non c’è alcuna barriera, alcun filtro, e la vicinanza tra pubblico ed interprete si traduce in vicinanza spirituale, emotiva, fino a diventare una sovrimpressione di anime. E se normalmente la parola insegue sempre a qualche passo di distanza ciò che dovrebbe rappresentare, qui, in certi momenti di grazia, arriva alla perfetta sovrapposizione, il significante ed il significato diventano indistinguibili, il personaggio e l’attrice non hanno alcuna terza persona di distanza. E questo avviene proprio quando la parola giunge al suo confine, sfida il limite della dicibilità.

Diventa un silenzio, un sovrappensiero, con più pagine, grondante anima, che avvolge, conquista, abbraccia con forza, quasi fino a farti male. Tutte le creature di questo meraviglioso racconto, in fondo, non chiedono altro che dare ai propri polmoni esistenziali la possibilità di espandersi in un passato, avere ricordi, testimonianze del proprio esserci, e dilatarsi nel futuro così incerto, così chiuso in un orizzonte limitato. Non si può non sentire un’empatia, un’inevitabile comunanza con questi esseri che sentono, per usare una metafora pirandelliana, le tavole dell’esistenza mancare sotto i loro, e i nostri, piedi. Se il teatro è tutt’ora un rito che porta ancora un po’ dell’incenso di cerimonie sacre, è perché esistono spettacoli come questo, attrici come questa, che guarda, per noi, in faccia tutta la fragilità della condizione umana, e ce la restituisce, sublimandola, in sguardi e gesti che fanno tremare le vene dei polsi delle divinità.

Immagine della recensione dello spettacolo Un'altra vita

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Medea delle case popolari – Recensione Teatro

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Immagine tratta dallo spettacolo Medea delle case popolari

Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Medea delle case popolari ha perso il centro, ideato e recitato dall’attrice Rossella Raimondi. Uno spettacolo che trova come scena della tragedia antica le nostre periferie, e la illumina con la luce del sorriso della commedia.

Quanti fonemi può contenere un singolo fiato? Quanto anima può stare nello spazio di un respiro? La risposta a questa domanda è tutta nella recitazione di Rossella Raimondi. Tu la senti parlare e ti esplode tutto un universo davanti agli occhi, ascoltandola senti che c’è un intero mondo carico dei colori di un quadro espressionista, c’è un’urgenza di mettere al mondo il proprio mondo, di condividerlo. E tra lei e Medea si ingenera immediatamente un’affinità elettiva, la natura dionisiaca di questa interprete si mostra in una recitazione tutta di pancia, da lupa verghiana. Trova il gioco brechtiano dei cartelli per l‘incipit di questo spettacolo, ci dice immediatamente che la sua Medea sarà unica, E avrà orgogliosa residenza nella periferia dell’impero/città. E se Testori aveva il suo dio di Roserio, la Barona avrà la sua dea, il suo personaggio che riscriverà la tragedia.

Risponderà di rimando con un sorriso alla beffa degli dei, con un occhio ad Aristofane e l’altro alla commedia dell’Arte. Il suo corpo è un perpetuum mobile, ed apre una competizione fino all’ultima battuta con la voce, entrambi battono sulla tastiera del testo scenico ad una velocità impressionante, e l’attrice non sbaglia la grafia di un gesto, e non manca di marcare una sola sillaba. Guarda frequentemente in macchina questa Medea, e lo fa con la forza visiva del primo piano di Maradona che festeggia l’ultimo gol dei mondiali contro la Grecia, sembra che gli occhi lascino tracimare il dio dell’ebbrezza, sembra la più convinta Arianna pronta a lasciarsi andare al corteo di Bacco. Ha uno stendino come compagno di scena, un meraviglioso objet trouvé di duchampiana memoria, una versione futurista, una geometrizzazione mondrianiana di Giasone. Inventa con esso mille coreografie, lo rende qualunque cosa.

Immagine tratta dallo spettacolo Medea delle case popolari

Restituisce a questo oggetto gli dei che Talete trovava in ogni cosa. Come la pipa di Magritte è tutto, ma qualcosa di diverso da un semplice stendino. Rappresenta l’esempio concreto della lezione di Peter Brook, come nell’essenzialità della scena si ritrovi tutto il potenziale della sostanza del fare teatro. Questa è la Medea in grado di accogliere in sé Euripide, Virginia Wolf, Alvaro, è la maga, quella che non può abitare nella “reggia” del centro città, la diversa che fa della sua diversità uno stendardo, un potente e tonitruante cri de guerre. Incarna anche gli altri, gli stranieri che abitano questa banlieu milanese. Ci restituisce ogni ritratto di questo mondo esotico, e si ha l’impressione di sentire lo sferragliare ideale degli appendini sul porta-abiti, e del frusciare dei vestiti dei personaggi e dei caratteri che, con rapidità fregolistica, riesce ad indossare e cambiare.

Con la furia di una Erinni chiede di essere riconosciuta, domanda di essere percepita, e quindi di poter essere su un palcoscenico, chiede il nostro sguardo ed il nostro ascolto con la forza di un mare in tempesta. Trova un’interattività con il pubblico, che sulla carta sarebbe impossibile nella smaterializzazione del digitale, eppure, dalla parte del monitor dello spettatore, si avverte distintamente l’odore di anima ed insieme della carne. E la suda tutta quell’anima Rossella Raimondi, traspira anche quella che non ha, ci dona tutto e anche di più. Quanto è generosa questa Medea delle case popolari nel darsi, nell’offrirsi sull’ara dell’altare multimediale, facendoci sentire lo sfrigolio ed il fumo invitante della parte della carne che era riservata alle divinità. Si mura nella sua stanza la protagonista, come il Pink dell’opera rock The Wall, e dopo tutto noi potremmo essere i mattoni di quel muro, trova una sua forma di protesta estrema.

Immagine tratta dallo spettacolo Medea delle case popolari

Si inventa una famiglia paradossale con lo stendino e dei figli-stendini che giocano l’estrema partita tra l’oggettività e la soggettività. Si inventa quella cattività, quella forma di esclusione, quasi fosse una sorta di rimedio omeopatico per combattere il male con il male. Ma quel muro non può che cadere, e la protagonista ha un sorriso che non può spegnersi, come la fiamma di Prometeo. La sua risata è lo spirito più vero, più autentico del komos, di quello stato di gioia, di entusiasmo, nel senso etimologico di avere la divinità dentro di sé, delle antiche cerimonie che celebravano la fertilità. È contenta di esserci Medea, di essere fra noi, ed idealmente sembra proporci il girotondo del finale di 8 ½ di Fellini, è la vita che non perde la sua luce, e si fa specchio per mostrarci che anche nella nostra si può riscoprire la stessa luminescenza.

Quando Rossella/Medea delle case popolari sorride, ci regala qualcosa di più di un semplice sorriso, ci dona la forza stessa, che sta dietro a quell’atto, quell’infaticabile, incrollabile spirito di un Tantalo che magari fallirà, ma, come ci ricorda Beckett, non importa, fallirà ancora, fallirà meglio. E visto che non ha un Euripide a disposizione per fornirle un deus ex machina, ovvero il dio sole che le presti il suo carro andarsene altrove, si inventa lei quel dio che dovrebbe salvarla. E ritrova tutta quella luce nel suo sguardo, negli occhi bistrati come quelli della Callas nel ruolo di Medea, e nella gioia e nell’euforia che traspare da quella decisa piega della bocca, da quell’arco che chiamiamo sorriso.

Immagine tratta dallo spettacolo Medea delle case popolari

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