Intervista all'attrice Alessia Alciati

Un caffè con Il Teatrante – Oggi abbiamo intervistato l’attrice Alessia Alciati

in Intervista

Quando la passione per la recitazione diventa qualcosa di più di un sogno, di un ideale, ha inizio un lungo percorso di studio. Un viaggio denso di ostacoli e dove occorre impegno, ma nel quale non mancano, grazie al talento ed alle idee, le soddisfazioni artistiche. Seguiteci per conoscere meglio un nome di cui sentirete sicuramente parlare, l’attrice Alessia Alciati.

Ciao Alessia e benvenuta su Il Teatrante, partiamo con il ringraziarti per il tempo e l’opportunità che ci concedi per questa intervista, una bella occasione per scambiare quattro chiacchiere. Partiamo con una domanda per rompere il ghiaccio: il teatro, come ricorda Artaud, è una sorta di peste ovvero una malattia in grado di curare l’essere umano. Nel tuo caso quando è avvenuto il contagio? Quando ti sei contagiata la prima volta?
Dunque, io ho iniziato a fare teatro in realtà da piccolissima, perché ho iniziato a frequentare i corsi di recitazione già dalle elementari, poi durante le medie, e, quindi, ho sempre fatto teatro, ho studiato alla scuola di Teatro Sergio Tofano, di Mario Brusa a Torino. Insomma, ero piccola, ho studiato qui fino al periodo del liceo, fino a quando mi sono trasferita a Roma per frequentare l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, ed iniziare poi a lavorare proprio in spettacoli teatrali. Ho lavorato con Filippo Gili, ho lavorato su diversi classici, nel Giulietta e Romeo, nelle Tre sorelle, nonché ne Il gabbiano di Čechov . Insomma, ho partecipato a diversi spettacoli a Roma, mentre invece nel periodo di formazione a Torino erano per lo più spettacoli realizzati con la scuola, ero anche un po’ più piccolina, però il teatro è sempre stato il mio primo amore.

Potremmo dire che tu hai mantenuto fede a ciò che hai sempre voluto fare fin da piccola?
In realtà sì, anche se poi il mio percorso ha compreso strade diverse. Ho sempre solo pensato a fare l’attrice, però devo dire che, ancora adesso, quando ci sono momenti di riflessione, mi capita di rileggere il Gabbiano di Čechov , lo adoro! Rileggo questi libri che sono così profondi che ritorni in contatto con te stesso, ti si schiarisce la visione delle cose.

Ogni attrice, ogni interprete, nel corso della carriera, accumula nel suo baule professionale ricordi, memorie e testimonianze. Il tuo cosa potrebbe contenere, per adesso? Immagina di aprirlo in questo momento, cosa potrebbe esserci dentro in questo baule dell’attrice?
La prima immagine che mi viene in mente è l’incontro con Jean Sorel. È stato un bravissimo attore, ma per è stato un essere umano splendido, e abbiamo condiviso un progetto, che è stato presentato anche a Cannes, che si chiamava Il teatro dei ricordi, nel quale io ero coprotagonista insieme a lui. Sono rimasta affascinata da questa persona per l’educazione, l’eleganza, il rispetto che aveva nei confronti di tutti i componenti della troupe e soprattutto nei miei confronti. Abbiamo parlato di storia del cinema e mi ha raccontato degli aneddoti meravigliosi, ricordo che ne ero rimasta affascinata. Un altro ricordo molto bello, anch’esso legato ad una persona che ha lasciato dei segni molto belli nella mia vita e del mio percorso, abbraccia Marco Risi. Anche lui, e di questo lo ringrazio sempre tutte le volte che ho modo di rincontrarlo, mi ha regalato numerosi aneddoti parlando del padre. Si raccontava molto sul set insieme a chi faceva parte del cast, parlando dei suoi inizi, di quando aveva iniziato come aiuto regista, e di artisti come Alberto Sordi e Monica Vitti, di cui io ero una grandissima appassionata e ammiratrice. Insomma, questi rappresentano aneddoti bellissimi, di quando il cinema era un lavoro di gruppo, di condivisione totale, già dall’inizio, senza paura di presentare il lavoro a qualcuno, con molta voglia di confrontarsi, condividere ed aiutarsi. Questo ha rappresentato il cinema di cui mi sono innamorata, quando ho iniziato, guardando tutti questi film del periodo d’oro della commedia italiana.

Bergman affermava che il teatro era sua moglie ed il cinema l’amante. Nel tuo caso quali definizioni sceglieresti per queste due forme di spettacolo, e cosa ti ha regalato ognuna?
Il mio vero amore in realtà è il cinema, perché mi sono sempre sentita molto più rappresentata. Il teatro l’ho sempre visto un po’ più come un sogno di quando ero piccola, e immaginavo di girare l’Italia con una compagnia teatrale, anche con pochi spiccioli in tasca, un’ideale che rappresentava più il mio desiderio che non già un progetto per il futuro. Pensavo alla recitazione in generale, ma non avevo ancora compreso realmente da cosa mi sentissi davvero rappresentata. Quando poi ho iniziato un percorso di studio artistico, in quel momento, ho capito quale fosse il mio vero amore.

Ti poniamo un quesito: un’attrice deve esprimere commozione, tu nei panni ideali della sua regista come l’aiuteresti a trovare questo stato d’animo?
Penso sia presto per parlare da regista perché ho iniziato adesso questo percorso. Io mi faccio totalmente ispirare dal mio percorso di attrice, e quindi penserei a come io potrei arrivare a questo tipo di emozione. Per prima cosa le direi di cercare di liberarsi dal giudizio, da qualunque altra pressione che può sentire, andando a scavare all’interno di sé stessa, le chiederei di andare a trovare un aneddoto che la possa avere particolarmente toccata o che l’abbia fatta emozionare, e la inviterei a restare con quell’emozione, e lasciarla andare.

Una scena tratta dal cortometraggio Different Century, Same Shit

Riguardo ai di metodi di recitazione, Strasberg ricorda che l’attore crea con la sua carne e il suo sangue tutte quelle cose che le altre arti in qualche modo tentano di descrivere. Tu che ne pensi, sei d’accordo con questa teoria, questo visione?
Sì, assolutamente, anche perché io, oltre ad aver fatto l’accademia d’arte drammatica ho iniziato un percorso sul metodo Stanislavskij Strasberg con Francesca De Sapio, che ho studiato per sette anni, rappresentando un percorso infinito, nel senso di continuo studio. Non si arriva mai, è sempre un percorso di profonda ricerca, che è un continuo migliorare per tutta la vita. Con ogni personaggio si deve veramente coinvolgere la carne e il sangue, immedesimarsi più possibile, viverlo totalmente. Quindi questo è un approccio che io adoro, e che mi fa battere il cuore ancora, senza vivere questo lavoro prendendone le distanze, è quello che mi tiene viva, il pensare di poter vivere realmente fino in fondo tutte quelle emozioni. Quindi il metodo c’è, ed è una cosa che mi piace moltissimo.

Cosa porti in dote nella vita di nella vita di tutti i giorni della tua professione di attrice?
Beh, sicuramente l’essere attrice ti aiuta a sviluppare una consapevolezza della propria sensibilità, avere empatia. Studiando recitazione si impara a guardare da fuori, buono e cattivo, giusto e sbagliato, quindi impari a guardarti dall’esterno. Con i personaggi sviluppo empatia, ed è una cosa molto importante per la vita. Questo è quello che sicuramente porto in dote da attrice. Penso di essere una persona sensibile, e cerco sempre di mettermi nei panni degli altri, quando mi confronto con loro nella vita di tutti i giorni, e questo penso che aiuti ad essere una persona migliore, anche attingendo al mio essere attrice.

Uno psicologo, una volta, alla fine di una rappresentazione, disse che ammirava le attrici e gli attori per la ginnastica mentale che praticavano nell’esercizio del loro mestiere. Seguendo questa definizione, quali esercizi sono particolarmente impegnativi secondo te?
Sì, esatto! È proprio questo quello che si crea, una sorta di lavoro interno, emotivo, ma anche mentale, assolutamente. Nella mente si devono ricreare una serie di emozioni e, ad esempio, con il metodo Stanislavskij Strasberg, si fanno i cosiddetti “esercizi sensoriali”, ossia si ricrea il tatto senza toccare oppure il gusto senza mangiare realmente. Si lavora sui sensi per imparare a sentire, a provare certe emozioni, anche se in quel momento non si provano per davvero, ma sono proprio questi approcci ad essere difficili, perché si parte da un percorso interiore, un esercizio mentale, che deve essere naturale.

Una scena durante il set del cortometraggio Different Century, Same Shit.

Passiamo ad un tema aimportante: hai scritto e diretto il cortometraggio dal titolo Different Century, Same Shit, che, dopo essere stato ammesso nella selezione ufficiale all’Hollywood Women’s Film Festival, ha ottenuto altri riconoscimenti davvero importanti tra cui il premio Best Social Justice Foreign Short e Best Actress per l’attrice Francesca Inaudi. Cosa ci puoi raccontare di questa esperienza?
Certo. In realtà anche diversi premi, quali ad esempio al New York Cinematography Awards, al New York International Film Awards e al Miami Independent Film Festival, senza dimenticare il nostrano Lucca Film Festival. Insomma, ci sta dando un sacco di soddisfazioni! I temi sono la discriminazione e la lotta tra classi, ma anche i diritti umani, raccontati attraverso una metafora tragicomica, ossia la lotta tra bionde e more. Viviamo questa storia in un mondo utopico, nel futuro, un mondo popolato soltanto da donne. In questo mondo ci sono le bionde e ci sono le more. Le prime vengono discriminate per il colore dei loro capelli, e, quindi, sono costrette a vivere ai margini della società e a fare i lavori anche socialmente inutili. Purtroppo, da questa condizione non se ne può uscire, questa è la realtà. Chi è bionda, si sveglierà tutte le mattine, e la società le dirà sempre che è sbagliata, quindi, o cambierà colore dei capelli e diventerà mora, venendo accettata dalla società oppure, se quella è la sua natura e la vorrà mantenere, dovrà sempre considerare di vivere discriminata, perché la legge dice questo in mondo utopico, che abbiamo raccontato come se fosse un fumetto. Perché infatti ci sono dei fumetti iniziali ed anche nella parte conclusiva del cortometraggio, con lo scopo di provare a distaccarsi più possibile dalla realtà, grazie agli elementi di cui vi raccontavo. Si potrebbe pensare che questa cosa non potrebbe mai capitare nel nostro mondo, perché comunque non si può discriminare per il colore dei capelli. Eppure, in realtà, si parla sempre di geni perché il colore dei capelli sono i geni, e hanno interessato pensieri non sempre pacifici per anni e anni, anche tuttora purtroppo. Comprese le guerre , che ci sono state per il colore della pelle e, dunque, sempre di geni si parla. Allora diciamo pure che non è tanto diverso, in realtà, dalla nostra vita, quindi l’idea era puntare sull’oggettivare l’assurdità di questa discriminazione. Questo è uno dei motivi per cui le ragazze bionde, le ragazze more, hanno una sorta di parrucca, di quelle proprio palesi e stereotipate, in modo che le bionde sono soltanto bionde, e le more sono proprio nere, proprio per andare a sottolineare ancora di più, e mettere l’accento sulla discriminazione razziale di base come metafora, questo era lo scopo. Una delle altre cose che ci tengo a dire è che il titolo è stato scelto anche per questo, perché di fatto rappresenta un movimento femminista, anche se la parolaccia presente avrebbe potuto creare dei problemi per la partecipazione a dei festival, ho sempre pensato che se un concorso non avesse voluto il nostro cortometraggio per via del titolo, sarei stata ben lieta di non parteciparvi. Perché anche questa sarebbe stata una sorta discriminazione razziale, ed il razzismo va chiamato con il suo nome, shit, il che mi sembra, comunque, niente di particolarmente offensivo rispetto a quello che accade ed a quello che vediamo accadere, purtroppo ancora adesso, nei confronti del razzismo. Peraltro, il razzismo è doppiamente sbagliato perché facciamo tutti quanti parte della stessa razza, ossia la razza umana. Esistono solo etnie diverse, quindi il razzismo è sempre da condannare per quello che rappresenta. Per me era molto importante utilizzante questo nel titolo.

Una scena tratta dal cortometraggio Different Century, Same Shit.

Ti ringraziamo perché sei stata molto esaustiva e sei riuscita subito a offrirci non solo la trama, ma anche le motivazioni di questo lavoro cinematografico.
Con questo cortometraggio volevo lanciare un messaggio a mio modo. Vedevo delle cose che non andavano e volevo raccontarle dal mio punto di vista.

Se un domani decidessi invece di aprire una scuola di recitazione, quale potrebbe essere la frase nella quale condensare il metodo, l’approccio da te proposto?
Ad oggi non la vedo proprio come strada, ma se dovessi pensare a una frase sicuramente potrebbe essere il liberarsi dal pregiudizio e l’essere in contatto con sé stessi, l’ascoltarsi, ecco questa potrebbe essere un’altra frase indicativa circa l’approccio da adottare.

Cosa bolle in pentola? Quali nuovi progetti sono sul piede di partenza in questo periodo?
Dovrei lavorare prossimamente, come attrice, ad un progetto ambientato nel tardo medioevo. Preferisco non dire molto, però mi sto preparando su questo periodo storico, visto che dovrò interpretare un ruolo ambientato in quel periodo. Invece, come regista, porto avanti da sempre tanti progetti personali, anche come autrice, perché comunque mi sono diplomata come drammaturgo al San Paolo a Roma. E ho sempre portato avanti dei miei progetti che magari facevo girare a mie amiche o miei amici come registi, fino a quando poi non ho iniziato a dirigere i progetti che scrivevo. E al momento come regista sto lavorando alla mia opera prima. Adesso ci vorrà ancora un po’ di lavoro, un po’ di tempo, però comunque questo è il mio primo obiettivo come regista.

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