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Gli ultimi sacerdoti di Dioniso

in Teatro
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Vi proponiamo una riflessione sullo stato del nostro teatro, e su quei teatranti che naturalmente si candidano ad incarnare gli ultimi sacerdoti di Dioniso, ovvero il nume tutelare del palcoscenico e della platea.

Dov’è Dioniso nel nostro teatro? Se ne sta più nascosto di Godot, e, a differenza di quest’ultimo, non si perita nemmeno di scusarsi per il ritardo. Il furore di Orlando, la pazzia di Aiace, sonnecchiano come il bonus Homerus. C’è un espressione che ritorna fatalmente dai numerosi aforismi di Nietzsche, tutt’ora con un filo tagliente, “virtù papaveracee”. Morfeo è di gran lunga la divinità più gettonata in questa era in cui il non essere amletico si riduce a una pastiglia di melatonina, o a un blando calmante. Con buona pace di Parmenide, e di Severino, se l’essere non si può negare, lo si può quantomeno stordire ed affumicare di intrattenimento. Quasi come se la coscienza stessa, la consapevolezza, fosse una malattia da cui guarire, e la reificazione non un orizzonte negativo di una realtà neanche così tanto distopica, quanto un obiettivo da raggiungere, da perseguire, da ottenere.

Sarà, per citare il cantautore Stefano Rosso, che a pensare troppo dopo viene fame, o forse che Cartesio ci ha lasciato come unica certezza il nostro dubitare, in fondo il cogito non è che una versione più sofisticata del monologo di Amleto. Eppure c’è chi si ribella alla ninnananna del “that’s entertainment”, c’è chi ostinatamente prova a essere artaudianamente crudele sulla scena, a sbattere l’anima contro al muro fino a farsela sanguinare, per far sentire agli spettatori l’odore dolciastro di quel liquido spirituale che scorre, inascoltato, nella nostra mesmerizzata umanità. Resistono al sonno, impavidamente, come i protagonisti di una nuova versione dell’Invasione degli Ultracorpi, non vogliono essere sostituiti dalla futilità, non vogliono tornare a guardare la parete 2.0 della caverna di Platone. Ci ricordano che c’è una irriducibile ribellione nel fare teatro, un’eresia nei confronti di ogni altro qualsivoglia credo. Guardano in direzione ostinata e contraria.

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Come sulla sedia  della terapia della Gestalt lo spettatore dovrebbe sentire scottare la poltrona su cui è seduto, dovrebbe imparare ad avvertirsi, e stavolta veramente, attraverso il voluto fastidio, la voluta impudicizia, irriverenza del palcoscenico. La noia tutto sommato diventa un’abitudine spesso, il piegarsi di un tempo, che dà l’apparenza di non passare, di una eternità di cartapesta, che consuma il suo sbadiglio quasi fosse l’incenso. Dov’è lo schiaffo, il pugno di Marinetti, la gragnuola di proiettili fonetici, blindatissimi, come quelli del soldato Palla di Lardo? Dov’è la voglia di tirar giù a sassate gli dei dal cielo, e farlo sanguinare delle nostre domande inevase, come e più della nostra carne mortale? Sopravvive in alcuni posseduti da Dioniso, la cui ebbrezza spirituale, artistica, è vista come potrebbe essere visto il matto del villaggio globale, con il suo berretto a sonagli che tintinna di bruciante pirandellinità.

Rifiuta la normalità, l’etimologica pietra squadrata, buona per costruire un muro, molto meno per trovare l’umano. Questi rari nantes in gurgite vasto se ne vanno con i loro pugni rimbaudiani per le scene, e le loro estasi tormentate, la loro possessioni dionisiache, sono viste, spesso, con diffidenza, altre volte con indifferenza, come se fossero crisi comiziali, cortocircuiti del giusto pensiero del mainstream, che deve arrivare nel mare magnum della banalità. Eppure le parole sono lì come pietre, pronte a far pesare tutto il loro tonfo sulla scena, a far gorgogliare tutta la loro liquida ferocia e spietatezza, come i pezzi umani ed il vino che gorgogliano nella bocca del Polifemo addormentato. Scoprirsi vivi e farlo ogni volta, per sempre, è compito grato, e insieme ingrato, dell’interprete, scoprire il pessoiano peso di dover sentire, inoltrarsi nel labirinto del linguaggio, e cercare di sfuggirgli con le ali della poesia.

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Ma la poesia teatrale torna all’etimo stesso di questa meravigliosa parola, è un fare, un continuo agire, d’altra parte ci era arrivato meravigliosamente Pirandello alla sintesi di tutto questo: “essere è niente, essere farsi”. Questa espressione è troppo spesso equivocata, ridotta la gioco dell’essere e dell’apparire, buono per il bignami, il riassuntone più banale per gli studenti. In realtà è l’intuizione forte quanto la nietzschiana volontà di potenza, l’imperativo che ogni buon teatrante dovrebbe sentire urgere dietro le sue scelte artistiche. Trovarsi dolorosamente sulla scena, nella verità di un parto fatto di grida e di umori scomodi, dovrebbe significare mettere al mondo la vita, e farle urlare tutta la tragicità della sua consapevolezza, facendo tremare le vene dei polsi persino agli dei. Con quanta selvaggia disperazione, ostinazione e passione questi Ulisse, orfani di un’Itaca, si abbracciano alle membra martoriate di Dioniso, le pongono sull’ara della scena.

Le bruciano, fanno salire il fumo prodotto dal grasso friccicante, ma si confrontano con l’anosmia della sala, con la difficoltà, se non a volte l’impossibilità, di sentire quell’odore che è vita allo stato puro, elevata a potenza, un vino degli antichi  non annacquato dal miele o da altra sostanza, che stordisce e insieme risveglia. Stare scomodi, provare disagio, dovrebbe essere la premessa per ritrovarsi di nuovo non solo in un teatro, ma nel luogo stesso consacrato alla divinità, come succedeva nel teatro di Dioniso. Abbiamo un disperato bisogno che sulla scena si moltiplichino le gambe di Woyzeck, che continuino a essere rasoi in grado di tagliare la pigrizia del nostro tempo, le certezze, di trovare sul metronomo esistenziale il “prestissimo” dell’inquietudine, e anche di tagliare la gola allo sterile io cartesiano, alle morali iperglicemiche, versioni oscene dell’etica, nonché al più banale e inflazionato “divertimento”.

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