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Čechov nel nostro modo di vivere quotidiano

in Speciale

Quasi fosse fatto apposta per esprimere certi stati d’animo, prendiamo da esempio Čechov nel nostro modo di vivere quotidiano, per trovare in un’intimità, magari nata casualmente, una dimensione di verità che si mostra finalmente, dopo essere stata a lungo assopita. E chi di noi, almeno per un istante, nelle lunghe permanenze forzate a casa, non ha sentito, anche inconsapevolmente, un’immediata affinità elettiva con uno dei personaggi del drammaturgo russo? Appartiene a questa strana quotidianità quella sua atmosfera un po’ fané, quei sorrisi un po’ dolorosi, a volte tirati.

Quel senso di attesa, che sembra essere una forma trascendentale con cui si fa esperienza della realtà, l’impressione che tutti gli orologi abbiano perso la lancetta dei minuti e quella delle ore. E le cose di tutti i giorni, le piccole cose gozzaniane, domestiche, familiari, sembrano liquefarsi come nel quadro di Dalì “La persistenza del tempo”. Inevitabilmente sembra emergere lo zio Vanja che ci portiamo dentro, ed il suo capitale di vita non vissuta, che è diventato troppo grande ‘per essere nascosto sotto il tappeto. La vita che non vive colonizza i pensieri, e poi le parole dei personaggi čechoviani, ed insieme quelli della nostra realtà condivisa e spesso quasi irreale nel suo manifestarsi quotidiano.

I testi di Čechov nel nostro modo di vivere

D’altra parte, per citare uno dei suoi caustici pensieri, “è il quotidiano che ti logora”, ha la capacità di corrodere il metallo del proprio essere, ancor più se viene percepito come una dimensione forzata, come una cattività in cui si stenta a vedersi nelle vesti di una sorta di Spartaco, in grado di spezzare le catene. È certamente  l’essere medico ad aver donato a Čechov la naturale predisposizione a diagnosticare anche le malattie dell’anima, e tentarne la cura, sentendosi invincibilmente coinvolto nello stesso battito del cuore del  paziente che ausculta, e che restituisce in forma di monologhi e dialoghi.

Non ha alcun setting, alcuna distanza professionale dai suoi pazienti, ne prova una sincera compassione, viene investito dai lori umori emotivi, come un chirurgo rimane macchiato di sangue. Chissà quanti dialoghi, quanti spunti dalla costretta vita domestica, avrebbe potuto annotare sul suo taccuino, proprio come il personaggio dello scrittore Trigorin ne Il Gabbiano, per trasformare tutto questo in un racconto, od in una scena teatrale, in intero testo, in grado di sublimare i vapori di malinconia nella poesia di una drammaturgia. Nella lente di ingrandimento, costituita da una dimensione domestica, si accorge di più di sé l’anima, si avverte, come la presenza di un rumore sordo, che sopravvive anche al silenzio di tutto il resto, non può farne a meno, costretta a specchiarsi nello specchio esistenziale di chi convive con lei, e farsi essa stessa riflesso per questa presenza.

I testi di Čechov nel nostro modo di vivere

Questa è una verità con cui gli esseri che animano Il giardino dei ciliegi conoscono bene, raccontando anche l’ultima goccia di se stessi, distillata pazientemente nel corso di un’intera esistenza. E quanto fa bene la citazione tratta da questo testo, ossia “superare quel di meschino ed illusorio impedisce di essere liberi e felici, ecco lo scopo e il senso della nostra vita”. L’intuizione che ci regala è quella che c’è un altro lockdown, molto più provante di quello sperimentato in questi mesi, quello della propria coscienza.

Parliamo di uno spirito che si ritira nel proprio carapace, degli occhi della consapevolezza che preferiscono chiudersi, o al più fessurizzarsi, per dormicchiare perennemente. È questa la sveglia cechoviana, la campana che vuole ostinatamente ridestarci, la possibilità di essere qualcosa di più e di meglio delle creature evocate da Andriej nel testo de Le tre sorelle, che “non fanno che questo: mangiano, bevono, dormono, e poi muoiono…”. Come ricorda Peter Brook, “Il tragico di Čechov appare sempre un po’ assurdo”, infatti, vedendo ed ascoltando i suoi testi, si ha insieme la voglia di piangere e di ridere, si avverte che il fiato delle sue battute ci è così vicino, così familiare, al punto che potrebbe essere il nostro. Dunque ancora una volta ritroviamo Čechov nel nostro modo di vivere quotidiano.

I testi di Čechov nel nostro modo di vivere

Non stupisca il fatto che il teatro, in questo caso quello del drammaturgo russo, diventi la pietra di paragone della realtà, non c’è in questo un paradosso, piuttosto la volontà, da parte di questa forma d’arte, di farsi più vera del vero, di mascherarsi perché la maschera sia la libertà dell’anima di esprimere pienamente se stessa, di candidarsi a mostrare una via possibile, percorribile, un cielo di stelle verso il quale poter alzare lo sguardo. Ci vogliono decisamente le parole di Sonja, nipote di zio Vanja, per sollevare il sipario sulla scena di una rinnovata speranza interiore, bisogna avere nel cuore, impresso indelebilmente nello spirito, il suo “Io ci credo, zio, ci credo veramente!”.

Bisogna sentire tutta la carezza delle sue battute toccarci e scaldarci l’anima, un Čechov nel nostro modo di vivere quotidiano che esporta la forza di parole capaci di squarciare il velo dell’inerzia, dell’accidia, del lasciarsi vivere e del rimpianto, per mostrarci un paesaggio interiore in cui non sia possibile determinare il confine tra le lacrime di dolore e quelle di una consapevolezza gioiosa. Per avere il colpo d’occhio di tutto il pensiero di Čechov, che si scalda alle latitudini del cuore, basta osservare gli occhi di uno dei suoi ritratti fotografici, sono il messaggio, più vero e diretto, di chi sente risuonare nel suo “dentro” tutto il nostro “dentro” che appartiene all’animo.

Se avete trovato interessante articolo su Čechov, vi invitiamo a leggere la nostra recensione dell’evento online dal Teatro Elfo Puccini, ascoltare le puntate del nostro podcast e seguire le nostre rubriche dedicate al mondo teatrale.

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