La Lupa – Recensione teatro
Nell’ambito della rassegna teatrale di STN-Studionovecento, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo La Lupa, con Ailin Tracchia, Allegra D’Imporzano, Andrea Bonzi, Andrea Pella, Angelica Topolino, Bianca Cerro, Bianca del Basso, Giacomo Piseri, Lorenzo Fonti e Valentina Sangalli. La drammaturgia (liberamente tratta da Giovanni Verga) e la regia sono a cura di Marco. M. Pernich.
La Lupa non è un semplice personaggio, non è soltanto l’estrema incarnazione dell’ennesima Medea: è una categoria dell’anima, uno stato dell’essere, la quintessenza di Dioniso e, quindi, dello spirito del teatro. E Dioniso è, a sua volta, quello che si potrebbe definire una sorta di anti-divinità, nel rifiuto di adeguarsi passivamente al Fato, all’ineluttabile metafisico. Insomma, la Lupa è quanto di meglio si possa trovare, per ricreare lo spirito della stessa tragedia che viveva nel teatro di Dioniso. Il regista, Marco Pernich, trasforma la scena in un’orchestra e crea una skenè, ritrovando la parola che, con la propria libertaria divinità, sfida quella degli altri Numi. La protagonista si muove come una creatura a quattro zampe, aracnica, vissuta da un divino irriverente che si esprime, in pieno, nella carne. Sembra vivere, pervasa da una forza irresistibile, in una cerimonia di Candomblè, i cui partecipanti, danzando e muovendosi freneticamente, sono abitati dalle divinità.
Come sarebbe piaciuto a Fersen, questo lavoro teatrale. Non più un approccio teologico alla scena, bensì teurgico, in cui i cieli siano dichiarati disabitati, e l’umano si apra a un disperato e disperante fiato “numinoso”. La Lupa è una dea madre, un’Ecate, un’Astarte , un’Iside, una Kali: è l’eterno femminino, necessariamente umorale e carnale. Scopre i seni come gesto rituale, apotropaico, che la trasforma in un archetipo, in un segno di una poesia profondamente sensoriale, percettiva. Fa l’amore non solo con il corpo, ma con i pensieri, con i gesti, con le parole, rivendicando un approccio “orgasmico” con la realtà; se gli dèi condannano alla fine, che sia, come la definiscono i francesi, una douce mort. La figlia, apparentemente passiva, è, in realtà, l’elemento in grado di scardinare i meccanismi classici della tragedia. La sua inazione è più una rivendicazione esistenziale, volontà di porsi all’estremo opposto rispetto alla madre.
Ecco perché rifiuta il rito del capro espiatorio da compiere sulla madre; ecco perché, con la potenza di un Bartleby melvilliano, dichiara il suo inemendabile “avrei preferenza di no”. L’uomo della Lupa è il classico eroe tragico sofocleo, giocato a dadi dagli dèi: ora libero, ora prigioniero, ora ateo materialista, ora credente penitente, pronto a sfilare in processione. Sua sorella e il rispettivo compagno cercano di sfuggire all’irresistibile forza centripeta di questa storia, all’Ananke che si stringe intorno alla gola della Lupa; riescono ad accomiatarsi nel finale, sparendo dalla storia. Escono dalla luce del cerchio di Dioniso, perché si prepari il woyzeckiano finale, illuminato dalla luce rossa di un coltello. Il coro delle tre Parche, intanto, fila la storia, la osserva, la metabolizza, la normalizza nel filato delle parole e del testo scenico. Si animano in un rito arcaico, profondamente e deliberatamente pagano.
Rappresenta la loro luna nera, la parte oscura delle comari, che guardano la storia intorno a loro come regine del tua culpa. Niente è davvero come sembra: tutto scorre, i sentimenti, le personalità, ed Eraclito regna incontrastato. Il prete cerca di rivestire i panni di uno stanco raisonneur, che proprio fa fatica a far stare il quadrato della razionalità apollinea nel cerchio di Dioniso. Mentre, sul fondo della scena, il punto di fuga è rappresentato da due mezzibusti bianchi: vestigia di una metafisica pittorica, dechirichiana, simboli del maschile e del femminile che hanno abbandonato il tao del nero contrapposto al bianco. Ogni scena è un tableau vivant, un quadro in movimento; una ricca iconografia fatta, prima di tutto, di immagini, di distanze e vicinanze che si giocano, ogni volta, in forma differente. Gli dèi si negano e si abiurano, sconfessandosi, perché possano nascere in altre forme.
Si tiene conto della lezione di Dioniso, pronto, come la fenice, a rinascere dalle proprie ceneri. La tragedia è una summa del grande triumvirato greco: Eschilo nel dinamismo irresistibile dei personaggi; Sofocle nel terribile gioco del gatto col topo, compiuto dal Fato nei confronti dell’umano; Euripide, infine, nella dialettica, nella scoperta delle voragini psicologiche dei personaggi, nel comprendere che ci sono più cose nell’umano che in cielo e in terra, rovesciando l’assunto di Polonio. Le luci tagliano, delineano, questi marmi umani, viventi. Una vampa di irrazionalità, di passione, splendidamente valorizzata, nei pieni orchestrali, da una luce rosso sangue. I luoghi deputati dell’azione hanno la caratteristica della circolarità, dell’eterno ritorno; raccolgono i personaggi come i numeri sul quadrante dell’orologio, mentre i corpi tagliano come lancette il tempo, lo sfibrano, lo accorciano o lo allungano.
Sono come le gambe di Woyzeck, un rasoio pronto a tagliare la gola al placido scorrere delle cose. Il maresciallo tenta di trovare una normalità che non esiste, e non ha nemmeno un soldato con cui lagnarsi, mentre si fa fare la barba. La processione religiosa è un istante meravigliosamente congelato nella calura siciliana: un falso movimento, un’immagine che sta per muoversi, minaccia di farlo, ma non lo fa. La rappresentazione iconica del sacro non riesce a muovere un passo, mentre la Lupa ne muove molti, uno dopo l’altro. Incarna la convinzione granitica di un’Antigone, la sensualità magico-misterica di una scatenata Medea, e porta in sé un’intera legione di Baccanti, pronte a consumare d’amore la carne, fino allo smembramento. E, proprio come Bocca di rosa di De Andrè, porta a spasso per il paese l’amore sacro, esattamente coincidente con quello profano. Signore e signori, la tragedia è servita!
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