Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo ZIGEUNER ZIGOINER, la storia del pugile Johann Trollmann di etnia sinti, che vinse in Germania nel ’33 il campionato nazionale di pesi massimi. Il testo è ideato e interpretato da Claudio Pitzen. La regia è curata da Fabrizio Kofler. Questo lavoro è stato pensato e realizzato nella duplice modalità online e onlife.
Il pugilato dà l’impressione di essere una versione scarnificata, essenziale, di una dialettica tra due esseri che decidono di fare a meno della mediazione delle parole, che hanno già consumato i significanti fino all’osso. E allora battagliano tra di loro, camminano saltellando sul terreno bruciante, in bilico tra Dioniso e Apollo, regalando agli spettatori una sorta di sublimazione metafisica dell’istinto della guerra, vestito di un’armatura euclidea, trasformano lo scontro hobbesiano, che vuole l’uomo lupo per l’altro, nel lupo che diventa un uomo, e chiude i suoi artigli nel pugno contenuto nel guantone. Sarà per questo che le parole sulla boxe dell’attore Claudio Pitzen ti agganciano subito, e ti fanno sentire a pochi passi da quel ring dei primi anni ’30, con il fumo, il tifo indiavolato. Sarà per lo stesso motivo che proprio Brecht ha preso a prestito lo spirito sportivo con cui si guarda questa nobile arte.
E ha visto in questo sport il suo teatro antiaristotelico, un teatro che desse la possibilità allo spettatore di riflettere, di decidere, di valutare quale boxeur scegliere, e nel caso, anche di cambiarlo. Ci viene raccontata la storia del pugile Johann Trollmann, un pugile promettente degli anni ’30, uno di quelli in grado già di danzare sul ring, come una farfalla e di pungere come una vespa, anticipando Muhammad Alì. E il ritmo di questo monologo è quello di un match pugilistico, l’attore non spreca un fiato, l’occasione di affondare con i suoi uno – due fonetici. Guarda allo stesso tempo la platea e in macchina, guarda il suo avversario senza paura, e non abbassa mai la guardia. Bisogna avere un bel fiato per reggere gli interminabili 3 minuti di una ripresa, per stare in piedi nonostante i colpi ricevuti, ma Claudio regge sul ring un’ora e non molla un attimo.
E lo fa perché sa bene che la sua storia è preziosa, e deve arrivare come un diretto da ko sull’anima degli spettatori. Il pugile è di etnia sinti, e si ritrova nel mezzo della tempesta politica, civile, del nazismo, si trova discriminato, si trova a combattere sul ring più difficile, più ostile, quello del pregiudizio, del razzismo istituzionalizzato. Eppure, come il più convinto eroe tragico che non smette di combattere, nemmeno quando i suoi avversari sono ostili divinità, non si arrende, ed è sempre lì, in piedi, anche quando la vita gli dà tutti i pugni di un peso massimo. Viene sterilizzato, divorzia dalla moglie, per difendere la sua famiglia, gli viene a un certo punto tolta la licenza per poter boxare, lo mandano sul fronte orientale, lo mettono in un campo di concentramento. Eppure, malgrado le ferite, insieme fisiche ed esistenziali, gli ematomi, non si arrende.
Malgrado gli occhi che faticano a vedere al di là di un presente sempre più grigio, lo si ritrova lì, ancora in piedi, pronto non solo a incassare dei colpi terribili, ma anche a insegnare ad un perfido kapò che cosa significhi boxare da vero campione. L’interprete non getta mai l’asciugamano e partecipa al combattimento di una vita di questo pugile, sembra condividerne lo stesso sudore, la stessa fatica. A tratti ci restituisce una cronaca sportiva appassionata, e il suo termometro emotivo segna sempre una febbre fuori scala. È vestito con uno smoking da crooner, da cantante in grado di far scoprire al pubblico che anche il modo di boxare di un campione può diventare una sorta di swing, di danza jazz sincopata. Come il jazz riesce a giocare col tempo a proprio vantaggio, così fa il pugile con i suoi fraseggi, con gli interminabili assoli suonati con i pugni.
Mentre la batteria delle gambe suona i suoi tempi trascinanti, in grado di trasformare il pigro tic tac in un trascinante swing. Sembra, a vedere la foto, un pugile che sarebbe piaciuto a Visconti, un pugile con un’anima, un’adorabile faccia da schiaffi che corteggia, prima di tutto, con la costanza di un Don Giovanni, la vita stessa. Ogni round, ogni sezione del monologo è tesa, c’è giusto il tempo di qualche bicchiere d’acqua da consumare nei break. Ma il gong è sempre lì, è un suono silenzioso pronto a ricordarci che comunque la vita prosegue, che c’è qualche avversario, dall’altra parte, pronto a boxare con noi. Il ring, tutto sommato, è una riuscita metafora esistenziale, una volta che ci sei sopra, una volta che fai mettere a Sartre i guantoni, e dai all’esistenzialismo il sapore del tuo e dell’altrui sangue, non puoi uscire finché l’incontro non è concluso.
Ripresa dopo ripresa, come il pugile Trollmann, non ti arrendi, colpisci e subito ti sposti, schivi, perché l’avversario è come il sacco con cui ci si allena, brucia, lo si colpisce e ci si allontana subito dopo. È un teatro di narrazione, vero come i pugni presi e dati sul ring, genuino, un quadro di parole sincero, disegnato senza la mediazione del pennello, direttamente attraverso le dita fonetiche dell’attore. Le espressioni dell’interprete sono intense, come quelle del pugile, perché, prima ancora dei colpi, arrivano gli sguardi, e sono sguardi che ti atterrano, che ti inchiodano lì al tuo posto, e non c’è conteggio dell’arbitro che tenga. Tutti i fonemi sono umidi degli umori del cuore, della passione, dell’urgenza di un racconto, la cui importanza si capisce da subito. Ci si sente, a fine spettacolo, un pugno simbolico, prometeico, nella tasca, pronto a sfidare anche la categoria impossibile degli dei.
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