Nell’ambito degli eventi in digitale previsti dal Teatro della Contraddizione vi presentiamo la nostra recensione de Il più grande spettacolo del mondo, un lavoro scritto e diretto da Stefania Apuzzo. Gli interpreti sono Francesca Biffi, nel ruolo della donna cannone, e Luigi Guaineri, in quello di direttore del circo.
C’è una frase di una poesia di Quasimodo che torna alla memoria, in occasione di questo spettacolo, che viene la voglia di tastare, di sentire urgere idealmente sotto le dita, come un mazzo di chiavi fatto girare insistentemente nella tasca: “… nel peso di una vita / che sapeva di circo. Ecco questo lavoro riesce a far sentire tutto il gusto del più grande spettacolo del mondo. Sa di cinnamomo, di biscotti allo zenzero, ma anche di erbe amare, di tarassaco, di quell’agro vivere che è lì, appena sotto il cerone ed il trucco pesante. È stupefacente vedere come Sartre, Camus, e tutto l’esistenzialismo, quello scritto, con la penna dell’autenticità, stia tutto in questa pista del circo, concentrato in due personaggi, un everyman ed una everywoman di una contemporanea morality play che ha in tasca la caustica frase di Muller: “È fatale che la storia non abbia una morale”.
Una donna cannone, che tracima anima dalle labbra, ci racconta ciò che è per se stessa, quel silenzio rumoroso che è lei stessa, il tentativo di esprimere il proprio essere ferita, mancanza. Non le basta una testa, ce ne vogliono tre, due pensieri soprannumerari che inseguono pascalianamente le ragioni del cuore, due compagni di banco di una nuova classe kantoriana. Pare di sentire il gocciolio estenuante delle sue caverne cardiache, dei suoi atri, dei suoi ventricoli. Si stupisce del mondo quanto lo può fare un angelo. Basta il suo sguardo per scoprire la curiosità viva, un po’ malinconica del bambino che conosce le verità per istinto, in quel territorio non ancora recintato dalla parola. Rappresenta l’incarnazione delle parole liriche di Handke, lei che sa “tutto ha un’anima e tutte le anime sono un tutt’uno”, il suo tempo è giusto lì, nell’istante esatto quando il bambino era bambino.
Si ha l’impressione di trovarsi davanti ad un sogno azzurrognolo uscito da un quadro di Chagall, e bisogna fare attenzione a tenerlo fra le mani, perché è delicato quanto una bolla di sapone. Ecco il primo piano di una piccola grande cosa gozzaniana, che cammina nel mondo senza fare troppo rumore, per non disturbare, che ci accarezza delicatamente con le parole, perché ha paura di farci male. E poi c’è il direttore del teatro, con i suoi colori carichi, presi in prestito da un quadro espressionista, cammina sui trampoli, cerca di essere bigger than life, cerca di passeggiare con disinvoltura sui questi tragicomici coturni. Forse vuole avvicinarsi un po’ di più alla sua Luna, sperando di afferrarla, o almeno di arrivare al suo simulacro, ad una luce cerulea, la goccia di un colore strehleriano, che forma una stalattite di poesia luminosa.
Indossa la sua maschera di durezza, di autorità, il copione gli ha dato il ruolo del padrone di Hegel, che ha lo specchio della donna cannone per conoscersi. E, visto nella vicinanza di un primo piano, o nella magia del sonno, così da vicino, si scopre la sua aria da bambino, la sua fragilità, si scoprono due occhi grandi di un quadro di Margaret Keane, che si allargano per contenere il cielo e tutte le sue nuvole. Le vere protesi per potersi muovere nel mondo gliele dà un’altra anima, quella della donna cannone, che ha visitato le stelle e gliene porta notizia. Sono una coppia di clown, il bianco e l’augusto, l’apollineo ed il dionisiaco, le due metà dell’essere androgino evocato nel Simposio, che hanno, nelle intenzioni dietro le loro battute, il tenace desiderio di toccarsi, di abbracciarsi, di baciarsi.
Com’è struggente la scena in cui sono a meno di un fiato dal baciarsi, ma le protesi di lui, le teste di lei, gli ingombri sono lì a mettersi d’ostacolo, mentre il desiderio delle loro anime è chiaro. La regista Stefania Apuzzo, che ha regalato anche alla drammaturgia il profumo della sua anima, trova nel circo, ed in questi due personaggi, il territorio migliore per raccontare l’essere umano, l’animula vagula e blandula, la voglia, il desiderio di farsi crescere un paio di ali angeliche con le piume delle parole. Ed il circo sembra fatto apposta per esplorare quella linea di pericolo, la sfida funambolica in equilibrio sulla morte o sulla follia. Ci vogliono tutti i vestiti sgargianti, le parole timbrate, a volte un po’ straniate, brechtiane, per reggere una vita da mediano, a recuperare palloni, a giocare fino al fischio finale, facendo finta di regalarsi l’imperturbalità degli dei.
Invece dietro la faccia infarinata, c’è un’anima delicata quanto il bozzolo del baco da seta. Francesca Biffi soffia tutta l’anima nei suoi soffiati, ma propria tutta. Mostra quanto in realtà sia sottile come una piuma la natura di questo personaggio, fatta di polvere di stelle impastata con le lacrime. Mangia popcorn e lacrime, sincera e reale quanto il vento che sferza il viso. Luigi Guaineri è un direttore che cerca di muoversi in linea retta, come da contratto etimologico, se la impone con la protesi dei trampoli, ma la linea spezzata, l’irrazionale sono le intenzioni devianti, i necessari attentati che il sogno fa al suo apparente pragmatismo. Il tableaux vivant di una pietà pittorica, dove il direttore diventa un povero cristo e la donna cannone una madonna, è il momento dove l’ala dell’angelo fa cadere definitivamente il cristallo della prosa, e noi spettatori vediamo il frame definitivo della poesia.
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