Nell’ambito della rassegna digitale Portiamo il teatro a casa tua, ideata e creata da Mariagrazia Innecco, vi presentiamo la nostra recensione dello spettacolo Nel ventre. Lo spettacolo, sulla storia di un caruso che lavora in una miniera di zolfo, è scritto da Antonio Mocciola. La regia è firmata da Marco Medelin, e Salvo Lupo è l’interprete di questo monologo.
Se Cristo si è fermato a Eboli, nelle zolfatare siciliane hanno dovuto ritrovarsene uno, o meglio più di uno: i corpi nudi dei carusi, ragazzini con la pelle che trasuda zolfo e anima. Antonio Mocciola, l’autore del testo, comprende che la parola si deve necessariamente incarnare, e la carne diventa l’utero in grado di permettere ad ogni fonema di svilupparsi, di farsi corpo. La carne si trasforma, dunque, in un marmo abitato dall’irresistibile vento dell’esistenza, una statua in divenire, che si lascia scolpire dal testo scenico. Mentre il corpo tutto, offerto in remissione dei peccati della platea, ha una ineffabile voce metafisica: organo di fonazione, la pelle stessa. Nel ventre della terra, disperatamente , freudianamente, si cerca la dea madre, Demetra, Gea; per rientrare in quel corpo, per inventarsi un’escatologia , un’immortalità rovesciata, un ragazzo scopre il diamante purissimo, nascosto dietro la dura scorza del dolore.
E’ un nuovo Ciaula pirandelliano, che scopre la sua Luna, la sua verità adamantina, il suo sogno frusciante come seta, il suo vestito metafisico. Quella cui si assiste è la fenomenologia di un angelo caduto, con ali sporche delle macerie del terremoto di Messina e di zolfo, che, faticosamente, parola dopo parola, ritrova la forza di sbattere le sue ali. Riesce a mostrarcele con la pura forza del suo dire, trasformando il suo corpo nell’arco e, contemporaneamente nella freccia; scrive, sul foglio della scena, frasi di carne, con inchiostro fatto di un nero esistenziale più scuro di quello di Paint it black dei Rolling Stones. Quel corpo diventa ora il pensatore di Rodin, ora membra apollinee pronte a scagliare un giavellotto olimpico, ora il corpo fetale, stranito, ammaliante sul trono dell’Edoardo II di Derek Jarman, ora Birdy, aspirante uccello in cerca di un cielo, nel film di Alan Parker.
E la laringe batte e ribatte, sull’incudine di Efesto, il ferro di fonemi arroventati nel magma del dialetto: la stessa lava che Ferreri aveva scelto come filo conduttore del suo Simposio. E tutto questo incessante monologo di straziante nudità potrebbe tradursi in una disperata e disperante ricerca d’amore, nel costruirsi di una poesia dal più buio inferno, in cui si aspetta l’ultimo verso dantesco in grado di farci vedere le stelle. E gli astri diventano gli occhi luccicanti del protagonista, i suoi balzi, che sembrano sempre essere una preparazione al volo definitivo. E’ bravo, il regista Marco Medelin, a dedicarsi a ogni singolo suono di questo testo, come potrebbe fare un orafo per il gioiello che sta creando. Ogni passaggio è necessario, è saldato con il fiato di un attore che scava nell’anima, fino all’ultimo pezzo, con la costanza e la disperazione di chi estraeva dall’inferno delle zolfatare.
L’attore Salvo Lupo pare assecondare l’adagio latino nomen omen: un nome, un destino. Ha davvero i tratti di quell’animale, che fiuta ogni particella di vita nell’aria, rendendo il suo fiato visibile, nel gelo di una natura di un ambiente avverso. E, anche se gli potresti contare le costole o le ferite dei tanti scontri, lui è ancora lì, che scruta un orizzonte dal significato silenzioso, solo per lui. Ecco, l’attore riesce nell’impresa di farsi tabernacolo di un mistero di carne, che rinnova l’eterna promessa della messa teatrale. In bilico tra Apollo e Dioniso, anzi, rendendo lo spazio del suo corpo il terreno stesso di sfida delle due divinità, diventa la perfetta sovraimpressione tra carne e anima; mostra, nella sua indiscutibile visibilità, l’esatto contrario, l’invisibile. Scava, con il piccone della voce la dura pietra del silenzio, e ne ricava gemme preziosissime, che scintillano, come può scintillare un oggetto concreto.
La platea lo segue muta , attenta, catturata da questo flusso di coscienza continuo; indistinguibile, quest’ultimo, dal flusso di un corpo perpetuum mobile, motore che non si arresta, che si scrive continuamente nella storia, che batte ostinatamente le proprie lettere, come una vecchia Olivetti. E poi, c’è quella capacità di plasmarsi nel corpo del racconto, degli altri personaggi, risvegliando anche la coscienza più intorpidita. Ma la vera scoperta, la Luna di questo novello Ciàula, è un sorriso, che non si arrende anche alla vita più grama, donandosi, satellite argenteo, nella notte scura di una storia in grado di invocare vendetta agli Dèi di un indifferente cielo.
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